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CRISPI: POLITICA ESTERA
(1876-1890).
[Illustrazione: FRANCESCO CRISPI NEL 1888.]
FRANCESCO CRISPI:
POLITICA ESTERA
MEMORIE E DOCUMENTI raccolti e ordinati da T. Palamenghi-Crispi.
_Con fac-simili di autografi di Gambetta, Gladstone, Principe di
Bismarck, Imperatore Federico III, Lord Salisbury, Cardinale Principe
Hohenlohe._
MILANO
FRATELLI TREVES, EDITORI
1912.
_Proprietà letteraria. Vietate anche le riproduzioni parziali. Riservati
tutti i diritti di traduzione._
Copyright by Fratelli Treves, 1911.
Ciascun esemplare di quest'opera deve portare impresso, per incarico
avuto dalla famiglia Crispi, il timbro della Società Italiana degli
Autori.
Tip. Fratelli Treves.
AVVERTENZA.
Il primo Capitolo di questo libro attende la luce sin dalla fine del
1886. In quell'anno Francesco Crispi lo compose e divisò di pubblicarlo
affinchè il paese, conoscendo esattamente quanto era stato preparato al
1877, potesse meglio giudicare gli errori dappoi commessi, e ripararli.
Correvano gli ultimi mesi del governo di Agostino Depretis; l'Italia
appariva malcontenta di una politica estera debole e incerta; la
pubblicazione dell'on. Crispi non era inopportuna.
Avvertito, l'on. Depretis tentò di distogliere il suo antico collega da
un divisamento che personalmente doveva dispiacergli; mise innanzi
ragioni di pubblico interesse, fece appello al patriottismo, obiettò che
la pubblicazione non potesse esser fatta senza il consentimento del
Governo.
L'on. Crispi, in una lettera del 19 settembre, dichiarò al Depretis:
_“Io non ho bisogno dell'approvazione di alcuno per la pubblicazione di
tutti quegli atti politici ai quali ho preso parte. Nego in conseguenza
la necessità di un consenso al quale tu non hai diritto.... Nei governi
parlamentari nulla vi può essere di segreto, perchè sono governi di
responsabilità. Possono volere il segreto quelli che non hanno adempito
ai loro doveri, e che temono perciò di poter incorrere nella pubblica
riprovazione._
_Nelle materie d'interesse internazionale non havvi che una sola regola,
ed è: che si attenda il compimento di un fatto storico, appunto per non
turbare agli uomini che sono al potere l'azione diplomatica. Orbene, per
ciò che si riferisce alla mia pubblicazione tutto finì col trattato di
Berlino, il quale non solamente affermò uno stato di cose che non puossi
mutare, ma dà pienissimo diritto a chiunque di esaminare gli atti che lo
precedettero e di giudicarli._
_Nella storia parlamentare degli altri paesi potrei trovare numerosi
esempi a sostegno della mia tesi._
_Sono scorsi nove anni dal giorno della mia missione all'estero; ed in
quanto alle persone abbiamo_
_che sono morti Vittorio Emanuele, Decazes, de Bülow, Gambetta e
Melegari;_
_che non sono più ministri Derby e Andrássy._
_Il principe di Bismarck, del quale mi occupo, resta nella sua splendida
figura, perchè trionfano oggi i concetti da lui svolti nei due colloqui
avuti con me._
_E poi, scusami, caro Depretis; il 4 marzo di quest'anno, avendo io
accennato alla Camera di rivelare le cose del 1877 e di leggere i
documenti relativi, tu non solamente consentisti, ma mi provocasti a
farlo, come uomo sicuro degli atti suoi.„_
Nonostante questa affermazione del suo diritto, e nonostante anche
l'interesse personale a rivelare una pagina della sua vita politica in
confronto di avversarii che in ogni modo avevano ostacolato la sua
carriera, l'on. Crispi sospese la propostasi pubblicazione; sinchè,
divenuto ministro qualche mese dopo, ne dimise il pensiero.
Quell'autentico racconto della missione del 1877 può considerarsi come
una prefazione all'opera governativa di Crispi che viene esposta nei
capitoli seguenti di questo volume. La concezione che egli ebbe della
politica estera necessaria all'Italia, la visione dei nostri interessi e
quella degli scopi ai quali tendeva la politica delle grandi Potenze
d'Europa, sono delineate in quel racconto, sobriamente, ma lucidamente.
Questo libro non vuole essere la esposizione completa della politica
estera di Francesco Crispi, che fu molteplice e riparatrice in ogni
campo, e ricca d'iniziative. Esso ne abbraccia più specialmente un
periodo, — dal 1887 al 1890, — e di questo si limita ad esporre alcuni
dei più importanti avvenimenti che si collegano con l'esistenza della
Triplice Alleanza.
La figura del principe di Bismarck, ne' suoi diversi atteggiamenti di
fronte all'Italia, acquista singolare rilievo dai documenti nuovi che
pubblichiamo; crediamo, anzi, che questi integrino la conoscenza della
politica dell'Uomo di Stato tedesco, il cui pensiero verso il nostro
paese è stato rappresentato sinora come dominato dalla diffidenza e
quasi dal disdegno.
I _diarii_, costituiti di note gettate giù in fretta e per memoria, alla
fine di un colloquio o di una giornata d'intenso lavoro, — sono nella
loro sincerità preziosi, sia per i dati politici che contengono, sia per
la nozione sicura che dànno dell'intima mente di Crispi.
È superfluo dichiarare che tutto è stato pubblicato con scrupolosa
esattezza; qualche reticenza qua e là era doverosa, ma non ci siamo
presi la libertà di modificare o di alterare comunque i documenti, i
quali dicono quel che dicono. La situazione internazionale, in gran
parte cambiata, dà ad essi un valore puramente storico.
Molto altro resta a dirsi, che si dirà.
Roma, decembre 1911.
T. PALAMENGHI-CRISPI.
CAPITOLO PRIMO.
Una missione segreta.
La Grande Italia. — Il nuovo Regno. — La politica estera
della Destra. — Andrássy e Bismarck nel 1873 chiedono
invano una _entente intime_ ai ministri della Destra. —
L'irredentismo e le relazioni italo-austriache, — La guerra
russo-turca. — Le istituzioni repubblicane francesi in
pericolo. — Necessità per l'Italia di uscire dall'inerzia.
— La missione da Vittorio Emanuele e da Depretis affidata a
Crispi alla fine di agosto 1877. — Memorie originali di
Crispi e carteggi con Vittorio Emanuele e Depretis,
resoconti di colloqui con Decazes, Thiers, Gambetta,
Bismarck, Derby, Gladstone, Andrássy, ecc. — Crispi
conviene col principe di Bismarck il negoziato per un
trattato d'alleanza italo-germanica.
I sommi Italiani ai quali il mondo deve l'Italia moderna, attinsero
forza a soffrire esilio, prigionie e ogni maniera di persecuzioni dei
governi dispotici nella visione di una grande Italia. Nella mente di
Mazzini l'idea di grandezza era correlativa all'idea di Unità, così come
nella federazione egli vedeva la “perpetua debolezza„. Le glorie della
nostra gente divisa erano considerate arra di glorie maggiori quando
essa fosse raccolta in un solo Stato; lo stesso Mazzini predicò per
trent'anni che vi era una “missione di civiltà universale„ da
riprendere, quella che assunta da noi con le armi sin dai giorni della
potenza romana, continuata cogli esempi della libertà dei Comuni nel
Medio evo, avevamo diffusa nel Rinascimento con le lettere e con le
arti.
Il nuovo regno non sorse nella pienezza della sua indipendenza, e la
politica che aveva chiamato nel 1859 sui piani lombardi le armi
francesi, tenne l'Italia in soggezione di Napoleone III per lunghi anni.
Francesco Crispi, il quale, con Mazzini, avrebbe voluto che l'Unità
fosse conquistata senza aiuti stranieri, per sola virtù nostra, combattè
sin dal primo Parlamento italiano l'ingerenza della Francia nei nostri
affari: fu uno dei più caldi avversarii della “Convenzione di settembre„
(1864) — osteggiò la permanenza delle truppe francesi nel territorio
romano — fu, nel 1870, l'anima della Sinistra, la quale sospinse il
governo della Destra, più che esitante, alla rivendicazione del diritto
nazionale occupando Roma.
Dalla proclamazione della repubblica in Francia all'avvento della
Sinistra italiana al potere (18 marzo 1876), la nostra politica estera,
rimasta priva della direttiva che soleva cercare a Parigi, fu nulla.
Disorganizzato l'esercito e distrutta dopo Lissa la marina da guerra, i
governanti avevano trovato nella nostra debolezza e nel programma di
riordinamento interno dello Stato, giustificazioni alla loro inerzia. Lo
stesso viaggio fatto compiere da re Vittorio Emanuele II alle Corti di
Vienna e di Berlino, nel settembre 1873, non recò vantaggi, anzi
peggiorò ancora la situazione internazionale dell'Italia; poichè, mentre
accennò soltanto al desiderio di appoggiare dippiù verso le Potenze
Centrali, avvertì la Francia che erano passati i giorni dell'alleanza
franco-italiana. Gli on. Minghetti e Visconti-Venosta, i quali
accompagnarono il Re in quel viaggio, ebbero dal Cancelliere
austro-ungarico conte Andrássy, come dal Cancelliere germanico principe
di Bismarck, espresso “très vivement le désir d'une entente intime„.
L'Andrássy per ingraziarsi i Ministri Italiani dichiarò esplicitamente e
francamente che non avrebbe appoggiato in alcun modo le querimonie del
Papa, in quel tempo ancora fervide e speranzose, e che si sarebbe
astenuto da qualsiasi azione comune con la Francia in tutti gli affari
relativi al Papato. Dette anzi una prova delle sue amichevoli
disposizioni, partecipando che aveva rifiutato una località che gli era
stata richiesta dal Vaticano pel futuro Conclave e avrebbe persistito
nel rifiuto. E il Bismarck non si chiarì più favorevole verso il Papa,
al quale appunto in quel mese (3 settembre) aveva fatto rifiutare
dall'Imperatore ogni modificazione della legislazione ecclesiastica; ma
riconoscendo l'utilità per l'Italia di usare dei riguardi al Pontefice,
chiese ch'ella non facesse una politica di concessioni con la Francia,
la quale avrebbe accresciuto sempre più le sue pretese; infine, dichiarò
recisamente che la Germania non avrebbe mai permesso un attacco contro
l'Italia.
I due Ministri, i quali sembravano esser partiti da Roma con l'intento
di proporre un accordo a due alla Germania, si astennero da qualsiasi
proposta, e tornarono in Italia illudendosi di potere, non assumendo
impegni, contare sulla Germania e sull'Austria, senza perdere la
benevolenza della Francia. Ma fu il sogno di un mattino di primavera.
Ben presto le agitazioni irredentiste dettero pretesto di allarmi
all'Austria. Il governo italiano non fu dapprima sospettato
d'incoraggiare le speranze del “partito esaltato„, il quale si proponeva
un ingrandimento territoriale a spese dell'Austria; e il conte Andrássy
fece dal suo Ambasciatore a Roma, conte Wimpffen, proporre una azione
comune per combattere i pericoli che minacciavano i buoni rapporti dei
due paesi, — azione comune, la quale doveva manifestarsi specialmente
nell'aiutare l'Austria “a scoprire i promotori e gli intermediarii della
propaganda annessionista„!
Le relazioni italo-austriache migliorano nei primi mesi del 1875;
l'imperatore Francesco Giuseppe restituisce a Venezia la visita ricevuta
a Vienna dal Re d'Italia, ed ha festosa accoglienza. L'irredentismo
ridiventa più attivo nel febbraio del 1876; si preparano spedizioni di
volontarii italiani in Dalmazia; il governo austriaco prende misure
energiche, opera numerosi arresti d'italiani a Ragusa e a Trieste. In
giugno, le feste di Milano e di Legnano per commemorare il centenario
della Lega dei Comuni Lombardi, e le rievocazioni di circostanza fatte
da buona parte dei giornali italiani, destano impressione sfavorevole in
Austria.
Scoppiata la guerra serbo-turca con conflitti nel Montenegro e in
Albania, l'Austria comincia a diffidare della nostra politica. La Serbia
chiede la mediazione dell'Italia, ma il gabinetto austro-ungarico la
osteggia. Avvengono _meetings_ a Milano, a Roma e in altre città,
avversi tutti alla politica austriaca. L'Austria lascia vacante la sua
ambasciata presso il Quirinale, e la stampa dell'Impero, con i giornali
ufficiosi in prima linea, fa vivacissimi attacchi all'Italia,
accusandone il governo di connivenza con gl'irredentisti.
L'ambasciatore, conte di Robilant, si trova a disagio a Vienna e
manifesta il desiderio di un lungo congedo.
È naturale che l'Austria fosse furente contro l'Italia: non sicura di
questa, essa non poteva liberamente fronteggiare la Russia, la quale si
preparava alla guerra contro la Turchia, e si trovava in balìa della
Germania. In gennaio 1877 fa nominato il nuovo ambasciatore presso il
Quirinale nella persona del barone Haymerle. Il malumore non diminuiva.
L'offerta del governo italiano di uno scambio di idee sulla questione
orientale, veniva declinata da Andrássy; il quale trovava un nuovo
motivo di irritazione nel sospetto, insinuatogli — si disse — da un
governo straniero, di trattative segrete esistenti tra Ignatieff e
Robilant per una intesa italo-russa. In maggio si ha notizia che
l'Austria arma alle nostre frontiere, e un'ambasciata straordinaria
austriaca e quindi duemila pellegrini austriaci giungono a Roma a
rendere omaggio al Papa. In luglio è male accolto in Vienna il nostro
intervento diplomatico a favore del Montenegro, sospettato quale mossa
preparatoria di un nostro intervento militare in Albania. In agosto
sorgono gravi incidenti: il commesso del Consolato italiano a Vienna
prima, poi l'addetto militare alla nostra Ambasciata sono accusati di
spionaggio; e gli attacchi della stampa sono così furibondi che
l'addetto militare è costretto a partire da Vienna.
Frattanto era scoppiata e si combatteva con varia fortuna la guerra tra
la Russia e la Turchia. Il 27 aprile l'Incaricato d'affari russo,
Nelidoff, con tutto il personale dell'Ambasciata, lasciava
Costantinopoli. Il giorno seguente l'esercito russo varcava la frontiera
turca; il 28 aprile la Camera rumena approvava una convenzione con la
Russia pel passaggio sul territorio del principato delle truppe russe, e
il 10 maggio il principe Carlo assumeva il comando dell'esercito; il 20
maggio era proclamata in Turchia la guerra santa, e la Rumania
proclamava la propria indipendenza e dichiarava la guerra ai turchi. I
russi passavano il Danubio il 22 giugno; il 5 luglio la loro avanguardia
occupava Tirnovo; il 19 luglio erano sconfitti a Plewna e il 30 a
Kassanyk. Poi, le sorti della guerra sembravano mutare; il 24 agosto il
principe di Rumania assumeva il comando degli eserciti russo e rumeno
che investivano Plewna, il 28 Suleyman pascià era battuto a Schipka.
Gravi avvenimenti si svolgevano anche in Francia, i quali tenevano in
grande apprensione tutta l'Europa. Il 4 maggio di quell'anno 1877 la
Camera francese aveva adottato un ordine del giorno invitante il governo
a valersi dei mezzi a sua disposizione per reprimere le agitazioni
clericali, e Giulio Simon, presidente del Consiglio, lo aveva accettato.
Ma il maresciallo Mac-Mahon, presidente della Repubblica, il 16 maggio
dirigeva al Simon una lettera nella quale gli imponeva di spiegare il
contegno passivo da lui tenuto alla Camera e lo rimproverava di non aver
saputo conservare l'influenza necessaria a far trionfare le sue idee. Il
Ministero Simon si era dimesso; il giorno dopo era già costituito il
Ministero reazionario De Broglie-Fortou, nel quale per la pressione del
Mac-Mahon restò il duca Decazes, come ministro degli Affari esteri.
Nella seduta del 17 la Camera, sulla proposta di Leone Gambetta,
deliberava “di non poter avere fiducia che in un gabinetto libero di
agire e deciso a governare secondo i principii repubblicani che soli
possono assicurare la tranquillità all'interno e la pace all'estero„.
Il 18 il presidente della Repubblica inviava un messaggio alla Camera,
nel quale, annunziando la proroga della Sessione, spiegava la necessità
della crisi ministeriale.
Allora la Sinistra del Senato pubblicava un manifesto al paese per
dichiarare provocata senza ragione la crisi; un altro manifesto
pubblicavano i deputati dell'Estrema Sinistra della Camera, nel quale
l'atto del 16 maggio e i posteriori venivano dichiarati ingiusti e
incostituzionali.
Il 29 maggio il ministro De Broglie spediva una circolare ai Procuratori
generali per invitarli a raddoppiare di vigilanza ed energia e a fare
osservare con fermezza le leggi proteggenti la morale, la religione e la
proprietà contro gli attacchi della stampa e specialmente contro la
diffusione di false notizie capaci di turbare la pubblica opinione. Il 2
giugno veniva arrestato il presidente del Consiglio municipale di Parigi
per aver pronunziato a St. Denis un discorso sedizioso contro il
presidente della Repubblica. Nello stesso giorno il ministro
dell'Interno, Fortou, diramava una circolare per ordinare severa
sorveglianza sulle persone che mettevano in circolazione giornali e
libelli. L'8 giugno il presidente del Consiglio municipale era
condannato a quindici mesi di carcere e a duemila franchi di multa. Il
17 giugno il duca De Broglie leggeva al Senato un messaggio del
presidente della Repubblica invitante, conformemente all'art. V della
legge per l'ordinamento de' pubblici poteri, il Senato stesso a
consentire lo scioglimento della Camera. Lo scioglimento della Camera
era autorizzato il 22 giugno. Alla Camera, intanto, si votava un ordine
del giorno di sfiducia nel Ministero il 19 giugno, e il 21 veniva
rifiutato il voto delle imposte, accordandosi solamente i crediti
supplementari al ministro della Guerra. Il 24 le Sinistre della Camera e
del Senato dichiaravano debito d'onore del paese la rielezione dei
deputati che avevano votato la sfiducia nel Ministero. Infine, il 25 la
Camera veniva sciolta, e il 22 settembre i comizii erano convocati pel
14 ottobre.
Nei gravi momenti che attraversava l'Europa, l'Italia non poteva e non
doveva rimanere inerte. Si doveva prevedere il caso del trionfo del
partito clericale in Francia, che avrebbe costituito un pericolo serio e
immediato per noi; inoltre, il contegno dell'Austria, nelle sue
relazioni con l'Italia, s'era fatto così irritato e irritante, che
appariva urgente la necessità di correre ai ripari; infine, erano in
vista, come conseguenza della guerra russo-turca, mutamenti nella
penisola balcanica, dei quali l'Italia non poteva disinteressarsi.
Di ciò convinto e pensando che, giunta al potere, la Sinistra dovesse
imprimere anche alla politica estera un indirizzo nuovo, prudente ma
ardito e più rispondente all'importanza del nostro paese in Europa e ai
nostri legittimi interessi, Francesco Crispi riuscì a farsi affidare la
missione, della quale egli stesso rende conto nelle pagine che seguono:
«Roma, 25 agosto 1877.
_Onorevolissimo Signore,_
Fin dall'anno 1861 il comm. Mancini proponeva a S. E. il barone
Ricasoli, allora presidente del Consiglio dei Ministri, d'iniziare
trattative presso i vari Governi Europei allo scopo di concordare la
stipulazione di un Codice internazionale, destinato a regolare la
condizione giuridica dei cittadini dei rispettivi paesi ed i diritti
civili spettanti ai medesimi di fronte alle legislazioni vigenti nei
diversi Stati. A tale proposta, per le circostanze dei tempi, non si
potè allora dare alcun seguito. Però il Governo italiano, ispirato a
sentimenti di civiltà e progresso, non esitava a sanzionare nel
Codice Civile del 1865, all'art. 3, il principio che lo straniero
venga ammesso a godere dei diritti civili attribuiti ai cittadini.
Però affinchè questo principio possa veramente esser fecondo di
utili e generali conseguenze, uopo sarebbe che venga sanzionato
dalle legislazioni degli altri Stati e reciprocamente guarentito
mediante accordi internazionali.
Il Governo del Re ha cercato in ogni modo di promuovere la
conclusione di simili accordi. Nell'anno 1867, il comm. Mancini,
avendo intrapreso un viaggio a Parigi, Bruxelles e Berlino, si
assumeva l'incarico di presentire, in via ufficiosa, gli
intendimenti di quei Governi su questo grave argomento.
Le entrature di quell'insigne giureconsulto venivano ricevute con
favore, però gli avvenimenti impedirono che si venisse ad alcuna
pratica conclusione.
Poichè l'Eccellenza Vostra ora è in procinto di visitare quelle
capitali, Le sarei grato se nelle sue conversazioni con i personaggi
influenti e competenti, coi quali si troverà in rapporti, Ella
volesse indagare se quei Governi siano disposti a riprendere le
interrotte negoziazioni. L'Eccellenza Vostra che tanta parte ha
avuto nella compilazione delle leggi che regolano i civili rapporti
in Italia, saprà meglio di chicchessia far risaltare l'utilità delle
proposte nostre.
Ringraziando anticipatamente l'Eccellenza Vostra dell'opera Sua,
colgo quest'occasione per rinnovarle i sensi della mia alta
considerazione.
MELEGARI.
A sua Eccellenza
il Sig. Comm. Crispi
Presidente della Camera dei Deputati.»
_Torino 26 agosto._ — Alle 11 antim. visita al Re.
» _27 agosto._ — Alle 10 antim. altra visita al Re.
«Torino, 27 agosto 1877.
_Mio caro Depretis,_
Siccome ti telegrafai, io partirò stasera alle 8,50. Alla stazione
incontrerò Bargoni,[1] il quale mi darà la tua lettera.
[1] Prefetto di Torino. _(N. d. C.)_
S. M. mi fece chiamare e stetti con lui lungamente. Era di buon
umore, come al solito, quantunque Correnti che lo vide stamane alle
8 mi abbia detto di averlo trovato un po' conturbato. Egli nulla
spera da una combinazione in conseguenza della guerra d'Oriente.
Crede anche lui che sia tardi e che non vi sia posto per noi.
Nulladimeno mi raccomandò di fare tutto il possibile onde vedere di
entrarci con qualche profitto. Fu diverso il suo linguaggio per
l'altra operazione, cui realmente mira il mio viaggio. Il re sente
il bisogno di coronare i suoi giorni con una vittoria per dare al
nostro Esercito la forza e il prestigio che in faccia al mondo gli
mancano. È linguaggio da soldato e lo comprendo. Aveva lo stesso
desiderio il povero Bixio, il quale è poi morto così miseramente
senza poter combattere un'ultima volta per la gloria del nostro
paese.
E il Re ha purtroppo ragione. Se nel 1866 i generali non ci fossero
mancati ed avessimo vinto nel Veneto e nell'Adriatico, gli austriaci
non oserebbero parlare e scrivere di noi siccome fanno. L'Esercito
Italiano avrebbe in Europa quell'autorità che gli fa difetto, e la
parola d'Italia avrebbe una maggiore importanza presso i Gabinetti.
Ripariamo, se è possibile, il vuoto, e poichè ci credono buoni
diplomatici, facciamoci valere affinchè la Patria nostra provi a
coloro che non la rispettano abbastanza, che essa è qualche cosa nel
vecchio continente.
Ti scriverò appena potrò darti notizie, da Parigi. Se per le
questioni delle quali ti occupi hai bisogno di me, scrivimi pure.
Il tuo dev.mo
F. CRISPI.»
— Alle 8,50 pom. partenza per Parigi, dopo avere ricevuto da Bargoni
la seguente lettera di Depretis:
“PRESIDENZA DEL CONSIGLIO
DEI MINISTRI.
Roma, addì 27 agosto 1877
_Eccellenza,_
Ho fatto conoscere a S. M. che V. E. si compiacque di accettare
l'incarico che le fu affidato dal Ministero di riaprire trattative
presso i governi delle principali potenze al fine di far prevalere
nelle rispettive legislazioni i principii liberali sanciti nel
Codice Civile italiano. Profittando del viaggio all'estero dell'E.
V. è desiderio dell'Augusto nostro Sovrano che l'E. V. assuma una
missione speciale e confidenziale presso il governo di S. M.
l'Imperatore di Germania.
Il governo germanico, or non è molto, ha interpellato il governo
italiano intorno ad una più intima unione dei due Stati, ed il
Ministero degli Esteri d'Italia non esitò ad esprimere la sua
adesione al concetto di una unione a comune difesa. Ora S. M.,
pienamente d'accordo col sottoscritto, sente il bisogno di stringere
in modo più intimo i rapporti amichevoli dell'Italia con la Germania
e desidera che V. E. faccia conoscere a S. A. il principe di
Bismarck come sarebbe conveniente di addivenire ad un accordo
concreto e completo col mezzo di un trattato di alleanza che
fondandosi nei comuni interessi provveda a tutte le eventualità.
Gl'interessi italiani possono essere offesi non solo dalla
prevalenza del partito oltramontano, ma anche dall'ingrandimento
dell'Austria coll'annessione di alcune provincie ottomane, possibile
conseguenza della guerra d'Oriente. È desiderabile che i due governi
si mettano d'accordo anche su questo punto.
V. E. conosce pienamente i principii che informano la politica
italiana sia all'interno che all'estero, e sarebbe superfluo
rammentarli. La Germania e l'Italia non hanno interessi contrari, e
le due nazioni devono essere ugualmente determinate a difendere
l'edificio dell'unità nazionale e delle politiche e civili libertà:
per l'Italia lo scopo principale è quello di preservare da ogni
nemica offesa i beni inestimabili che abbiamo acquistati, e i
principii sui quali è fondata la sua esistenza.
Procuri l'E. V. di esprimere e spiegare in via confidenziale i
desideri di S. M. e del suo governo a S. A. il principe di Bismarck
e di attestargli ad un tempo la riconoscenza nostra per la
benevolenza da lui costantemente dimostrata all'Italia.
Aggradisca l'E. V. l'espressione della mia alta stima, mentre mi
dichiaro di V. E.
Dev.mo Obbl.mo
A. DEPRETIS
_Presidente del Consiglio dei Ministri_.
A S. E.
Il Sig. Comm. F. Crispi
Presidente della Camera dei Deputati
TORINO.„
«Parigi, 2 settembre 1877.
_Eccellenza,_
Ieri fui ricevuto dal Ministro degli Affari esteri. L'ora tarda non
mi permise di riferire immediatamente a V. E. la lunga nostra
conversazione, la quale versò su vari argomenti riferentisi ai due
paesi.
Il duca Decazes cominciò col ringraziarmi del contegno nostro in
occasione della interrogazione alla Camera del deputato Savini.
Risposi, che Camera e Governo nulla fecero che non fosse stato il
loro dovere, non potendo certamente permettersi che alla tribuna
italiana si discutessero e si criticassero le cose interne della
Francia, ed espressi l'opinione ch'essi a Versailles avrebbero fatto
lo stesso per noi.
S. E. venne quindi discorrendo della necessità di un accordo
completo fra le due nazioni, e su questo punto parlò lungamente
sforzandosi di dimostrarmi come la Francia non possa avere che
sentimenti di amicizia per noi. Al di là delle Alpi — S. E. disse —
è una nazione alla quale la Francia è legata da interessi economici,
morali e politici, e sarebbe un vero delitto conturbare la
necessaria armonia dei due popoli. Accennò intanto, come ad un
elemento di possibile dissidio, all'esistenza fra noi di un partito
ch'egli definì «prussiano», ma lo fece con un tal garbo da lasciare
intravedere il desiderio che cotesta opinione non lasciasse una
disaggradevole impressione sull'animo mio.
Alla mia volta dichiarai subito che nel nostro paese noi siamo
Italiani; che tutti, senza distinzione di partito, esclusi
unicamente i clericali, non abbiamo altro interesse che quello della
nazione, e che sarebbe un errore il presumere che potessimo o
volessimo governarci seguendo i consigli o ricevendo l'influenza di
un governo straniero qualunque. In quanto alla Francia, tutto ci
spinge a sentire per lei e praticare una sincera amicizia: le
tradizioni di civiltà, l'educazione, gli studi, le leggi, i commerci
ci uniscono alla medesima, e nulla sarà fatto da parte nostra per
rompere cotesto legame onde sono naturalmente congiunte le due
nazioni.
S. E. allora riprese dicendomi che non sapeva però spiegarsi lo
scopo dei nostri armamenti e sopratutto delle fortificazioni di Roma
state ordinate ultimamente; ritornò quindi sull'argomento delle
intenzioni affatto pacifiche del suo Ministero ed affermò che in
Francia nessuno dei partiti possibili al governo commetterebbe la
follia di far guerra all'Italia. Sono passati i tempi — il ministro
soggiunse — in cui portavamo le nostre idee con le armi negli altri
paesi. Dopo i nostri disastri abbiamo appreso che sono altre le vie
da prendere onde far valere nel mondo le proprie opinioni.
Su ciò sentii il bisogno di esplicare la condotta del nostro governo
e dissi che quanto si fa oggi da noi non ha nulla di eccezionale.
L'Italia ha bisogno di pace perchè ha bisogno di compiere le sue
riforme amministrative e finanziarie, e di sviluppare e consolidare
le sue istituzioni pubbliche. In quanto all'esercito noi non
facciamo che trasformarne l'armamento e completarlo e ci vogliono
ancora molti anni per raggiungere cotesto scopo. Le fortificazioni
di Roma, poi, non sono un fatto speciale, ma la parte di un
complesso di disposizioni per la difesa territoriale dello Stato.
Ricordai che sin dalla costituzione del Regno era stata nominata una
commissione, sotto la presidenza di S. A. R. il principe di
Carignano, coll'incarico di studiare un sistema di fortificazioni il
quale rispondesse alle nuove condizioni della penisola. Dissi che
cotesti studi furono già terminati, che furono votate le somme
necessarie dal nostro Parlamento sin da parecchi anni addietro, ma
che nulla ancora fu fatto, essendo anzi tutt'ora integre le fortezze
elevate dai principi caduti con intendimenti e scopi contrari
all'attuale ordine di cose. Dimostrai quindi che le fortificazioni
di Roma entrano in cotesto piano generale di difesa nazionale e
conclusi che la Francia non ha motivo di allarmarsene, coteste opere
non essendo e non potendo essere interpretate quale una
dimostrazione ostile contro di lei.
S. E. parve acchetarsi al mio ragionamento e poichè lo vidi così ben
disposto credetti propizia l'occasione di portare la nostra
conversazione sopra un altro argomento, quello cioè
dell'applicazione ai nostri concittadini, nel territorio della
Repubblica, delle disposizioni dell'art. 3 del nostro Codice Civile.
Spiegai lo scopo e le origini di cotesto articolo, ricordai le
trattative intavolate altra volta perchè ne fossero accolti i
principii in Francia, mercè una convenzione internazionale, e
finalmente accennai alla giurisprudenza delle Corti Supreme le
quali, per diritto di ritorsione, cominciano ad applicare ai
francesi in Italia l'art. 14 del Codice Napoleone. Non omisi di
dimostrare che, allo stato, farebbe un ottimo effetto nel nostro
paese la stipulazione di un trattato che sanzionasse cotanto
progresso.
S. E. ascoltò con benevola attenzione e si dichiarò pronto a
trattare. Disse che avrebbe richiamato i precedenti e li avrebbe
studiati affinchè potessimo altra volta ragionare consideratamente
per venire ad una conclusione. Anch'egli, il Ministro, sente il
bisogno che l'art. 3 del nostro Codice Civile sia ricevuto in
Francia in favore degli italiani e mi promise che metterebbe tutta
l'opera sua perchè la domanda fosse esaudita.
Dal discorso di S. E. appariva chiaramente il desiderio di provare
con nuovi atti che la Francia ci è e ci sarà amica, ed a tal uopo mi
parlò della sollecitudine con la quale il suo governo aveva
consentito alla sottoscrizione del trattato di commercio. Mi disse
che ci saremmo nuovamente veduti.
Del contegno del duca Decazes e del complesso delle sue parole,
restai pienamente soddisfatto. Bisognerebbe supporre che egli fosse
un grande simulatore per dubitare del suo linguaggio. Egli non fece
che lodarsi del nostro governo e del nostro popolo e parlò pieno di
ammirazione del nostro Re. Disse che noi abbiamo dato prova di
grande saggezza politica e che la nostra condotta col Vaticano è
stata corretta. Sul che sento il bisogno di riferire a V. E.
un'opinione manifestatami da lui e la cui importanza non isfuggirà
alla di lei sagacia: il duca Decazes si disse convinto e mi dichiarò
di averlo ripetuto ai suoi colleghi, che alla morte del Papa il
conclave funzionerà nel Vaticano con tutta la pienezza della sua
libertà. Mi soggiunse che tale sarebbe pur l'avviso del cardinal
Guibert, dopo il di lui ritorno da Roma.
Dopo ciò chiudo la lunga lettera con dirmi dell'E. V.
Il devot.mo aff.mo amico
F. CRISPI.»
«Parigi, 5 settembre 1877.
_Mio caro Depretis_,
Il 2 corrente ti spedii una mia ufficiale, alla quale dà seguito, anzi
complemento l'acclusa. L'ho scritta in modo che tu volendo potrai,
dopo averne preso copia, consegnarla al ministro degli Affari esteri.
Lasciamo da parte le pastoie ufficiali e ragioniamo da vecchi amici e
patrioti.
Ho visto i principali uomini politici del paese, tra cui il
Gambetta,[2] col quale sono rimasto lungamente, e il 3 corrente
pranzai. Ho potuto quindi farmi un'esatta opinione delle cose francesi
e saperne, per quanto possibile, le intenzioni.
[2] Quali relazioni corressero tra Crispi e Gambetta dopo questo
incontro, si rileva dalla seguente lettera del Gambetta a Crispi:
«Paris, ce 21 octobre 1877.
_Mon cher Président_,
Je profite du voyage de mon ami Armand Ruiz à Rome pour vous envoyer
l'expression des sentiments d'affectueuse solidarité que m'a laissé
votre charmante liaison.
Je tiens à vous redire que je serai toujours fort aise de rester en
communication avec vous, et vous rendre ici les services que je sais
que vous n'hésiteriez pas à me rendre à Rome. Vous pouvez croire
qu'on est heureux dans la vie publique de rencontrer des hommes d'un
caractère aussi ouvert, aussi ferme que le votre. Donc vous pouvez
user de mon ami Ruiz et avoir en lui la confiance la plus entière.
C'est à ce titre de confident que je l'introduis auprès de vous.
Croyez à mon amicale sympathie.
LÉON GAMBETTA.»
_(N. d. C.)_
[Illustrazione: Autografo riprodotto fotograficamente: lettera di
Gambetta a Crispi.]
La Francia traversa una terribile crisi, di cui è difficile
prevedere la fine. Il Governo attuale rappresenta una impercettibile
minoranza, ma è ispirato da un comitato bonapartista, audace e senza
scrupoli, ed ha nel suo seno un paio d'individui anch'essi audaci e
senza scrupoli.
I repubblicani si dicono sicuri della vittoria nelle prossime
elezioni generali e mi espressero la stessa opinione, due giorni fa,
alcuni conservatori, i quali dichiararono francamente: _nous serons
battus_. Dubito che coteste convinzioni si mantengano dopo la morte
avvenuta ier l'altro del sig. Thiers, o per lo meno dubito che
l'importanza della vittoria possa essere tale quale si prevedeva
prima di cotesta morte fatale. Ma avvenga pure la sconfitta del
Governo, che ne verrà alla riunione delle Camere?
Il sig. Thiers mi diceva nella nostra conferenza del 31 agosto che
dopo quella riunione, Ministri e Presidente della Repubblica si
dimetteranno, e che le due Camere allora, raccolte in Congresso
nazionale, nomineranno un nuovo Presidente. Gambetta precedentemente
mi aveva dette le stesse cose.
Avverrà lo stesso ora che, morto il Thiers, è mancato il candidato
sul quale avevano piena fiducia i conservatori che avevano accettato
la Repubblica? I repubblicani rispondono di sì, e a leggere i
giornali ne dedurrei che dopo la perdita gravissima dal paese
patita, tutto procederà regolarmente e secondo i loro desideri.
Lo auguro, ma la mia fede è molto scossa.
E se Ministri e Presidente non si dimetteranno?
I repubblicani dichiarano che non voteranno i bilanci.
E se il Governo farà un colpo di Stato? Thiers non lo temeva, e
perchè l'esercito non si presterebbe e perchè Mac-Mahon non n'è
capace per povertà d'ingegno e di mezzi personali. Gambetta
soggiunge che, in caso di un colpo di Stato, l'Esercito si
scinderebbe in due e vi potrà essere la guerra civile.
Comunque sia e quali possano essere gli avvenimenti, consideriamo
questi dal punto di vista italiano.
I republicani e i reazionari affermano che vogliono essere amici con
l'Italia e che nulla tenteranno contro di lei. Credo ai primi,
dubito dei secondi.
Dubito dei secondi perchè il Comitato ispiratore dell'Eliseo è
clericale, e il loro organo è il _Figaro_, che ha tanto insultato il
nostro paese e il nostro Re....
Non dirò che domani ci farebbero la guerra, perchè tutti, senza
eccezione, i partiti politici hanno una salutare paura del principe
di Bismarck, il quale essi credono non ci lascerebbe soli. Certo
però ne cercherebbero l'occasione e coglierebbero il menomo pretesto
per attaccare brighe con noi.
E vedi quel che m'è avvenuto di constatare: in tutte le classi del
paese si è fatta radicare l'opinione che l'Italia vuole fare la
guerra alla Francia. L'ho combattuta questa opinione in quanti me
l'hanno manifestata, ma ho dovuto riflettere che coloro che sono
stati i primi a divulgarla hanno avuto in animo di prepararsi il
motivo presso questo popolo per legittimare la guerra nel caso che
un giorno essi ci attaccassero. Il certo però è questo, che i
Francesi continuano i loro armamenti, e che tutti gli stabilimenti
privati fabbricano armi d'ogni genere per questo Ministero della
Guerra. Pensiamo dunque ai casi nostri, e teniamoci pronti a tutte
le eventualità.
Rispondimi a Londra per mezzo dell'Ambasciata, se non altro perchè
io sia sicuro che ti siano giunte le mie lettere.
Tuo di cuore
F. CRISPI.»
«Parigi, 5 settembre 1877.
_Eccellenza_,
Prima di lasciar Parigi mi sento in dovere di darle conto delle
ulteriori mie pratiche con questo governo.
Il duca Decazes, l'indomani della nostra conferenza, è venuto a
rendermi la visita. Ero assente e non ci potemmo quindi vedere. Quel
giorno, era il 31 agosto, ero andato a St. Germain-en-Laye dal sig.
Thiers, il quale, siccome l'Ec. V. ha potuto saperlo
telegraficamente, è morto ier l'altro.
Il ministro degli affari esteri avendo dovuto poi lasciar Parigi,
mandò un suo impiegato dal sig. Ressman, primo segretario
dell'Ambasciata italiana, onde disimpegnarsi della promessa datami
per le chieste trattative in ordine all'art. 3 del nostro Codice
Civile. Il Ressman e il detto impiegato si videro il 2 settembre e
discorsero del suddetto argomento.
S. E. mi fece sapere che avendo esaminato ciò che noi chiedevamo,
dovette persuadersi che l'applicazione dell'art. 3 del nostro Codice
Civile agli italiani in Francia non potrebbe farsi che con una
riforma nella legislazione di questo paese e che a ciò sarebbe
necessaria l'opera del Parlamento. Per ora di cotesta riforma non
saprebbero occuparsi; più tardi se ne potrebbe parlare, ma a tal
uopo converrebbe che l'Italia ne iniziasse le trattative nelle vie
ufficiali.
Il duca Decazes non è un simulatore, ma un uomo debole. A quanto
pare avrà parlato col signor De Broglie, ministro di Giustizia, il
quale presentemente ha tutt'altro in mente che il Codice Civile.
Colgo quest'occasione per ripetermi ecc.
F. CRISPI.»
_7 settembre._ — Colazione da Emilio de Girardin, rue La Perouse 27,
Champs Elisées. Visita alle Camere di Versailles. Il Questore Baze.
_8 settembre._ — Funerali di Thiers.
_9 settembre._ — Da Garnier-Pagès. Henri Martin.
«Parigi 9 settembre.
_Caro Depretis_,
Ebbi ieri il tuo telegramma, il quale tradotto suona così:
«Approvo completamente quanto hai fatto e credo bene che senza
recarti a Londra, ti rechi senz'altro a Berlino.»
Martedì alle 3 di sera partirò per Berlino, dove giungerò l'indomani
alle 7,45 di sera. Se lo crederò necessario, al mio ritorno passerò
per Bruxelles e Londra. Mi regolerò secondo il bisogno.
Sarei partito anche prima, se non fossi stato un po' incomodato. Da
otto giorni fui turbato in modo che ho dovuto ricorrere al medico.
Oggi sto meglio, e spero che potrò fare comodamente il viaggio.
Qui ieri la giornata è passata tranquilla. Si temeva che i funerali
di Thiers avrebbero dato il pretesto a qualche disordine. La calma
del popolo fu veramente ammirabile. Qualche grido di _vive la
République, honneur à Thiers, vive Gambetta_, e tutto procedette
nell'ordine.
Se il parigino dimenticherà di correre alle barricate, ma si
condurrà ubbidiente alle leggi, la causa della libertà trionferà in
Francia, e sarà un pegno di pace per l'Europa.
Ai funerali intervennero tutti i rappresentanti esteri, ed anche il
tuo amico, per ispeciale invito della Famiglia Thiers.
Se vuoi scrivermi dirigi le lettere a Berlino all'ambasciata
italiana.
I miei omaggi alla tua signora e tu credimi
L'aff. tuo
F. CRISPI.»
_9 settembre._ — Colazione da E. de Girardin. — Viene Gambetta.
«Parigi, 11 settembre 1877.
A S. M. IL RE D'ITALIA.
_Sire!_
Prima di lasciar Parigi sento il dovere di dar conto a V. M. della
prima parte del mio viaggio, e per lo meno di riferirle le
impressioni che io ne porto.
Giunsi in questa città alle 6 pom. del 28 agosto, e ne partirò
domani. Vidi il ministro Decazes, ed i principali uomini politici
della Francia, dinastici e repubblicani.
Tutti rendono giustizia alla lealtà ed alla grande saggezza di V.
M., alla bontà ed alla prudenza del nostro popolo. Tutti ritengono
gli italiani dotati d'un gran buon senso politico, fortunati di
avere un Re il quale ha saputo comprenderne le tendenze e che, in
mezzo a tante difficoltà, li ha mirabilmente condotti a buon porto.
Ma in fondo a questo splendido quadro appare un punto nero, sul
quale dev'essere richiamata la nostra attenzione.
I francesi diffidano di noi, ed al tempo stesso sospettano che noi
diffidiamo di loro.
Diffidano di noi, e più d'uno crede o finge di credere che l'Italia
ha l'intenzione di far la guerra alla Francia. Lo stesso sig.
ministro Decazes non espresse chiaramente siffatta opinione, ma
parlò con molto interesse dei nostri armamenti e delle
fortificazioni di Roma, e parve considerare coteste fortificazioni
come aventi uno scopo anti-francese.
Ragionando col detto sig. ministro e con gli altri signori che me ne
avean tenuto discorso, dichiarai che l'Italia ha bisogno di pace, e
che riordinando l'esercito e fortificandoci non abbiamo punto
l'intenzione di far la guerra, ma di provvedere ai mezzi di difesa
del nostro territorio.
«Il Re d'Italia» — ho detto e ripetuto — «fedele ai trattati ed agli
impegni internazionali, non ha dato nè darà mai l'esempio di mancare
al suo dovere, ma forte del suo diritto esige solamente che sia
rispettato».
I francesi sospettano che noi diffidiamo di loro, ed a dileguare i
dubbii che credono possano essere nell'animo nostro, si sforzano a
testimoniarci la migliore amicizia. Il duca Decazes fu molto
esplicito in tale argomento, e mi disse e mi ripetè che nissuno dei
partiti politici, i quali possono pretendere al governo della cosa
pubblica, commetterebbe la follìa di far la guerra all'Italia. Vi
sono — egli soggiunse — i partiti estremi i quali oserebbero
tentarlo, ma costoro non hanno probabilità di dominio, e poi non
avrebbero alcun seguito nel paese.
A quali partiti S. E. accennasse, io non ho bisogno di ricordarlo a
V. M. Sono pur io dell'opinione del signor ministro, che la Francia
in questo momento non li seguirebbe; ma nella storia di questo paese
l'ignoto è un mostro del quale dovremo temere, e siccome qui non si
può essere sicuri dell'indomani, la prudenza c'impone di pensare ai
casi nostri.
La Francia subisce una crisi la cui soluzione è ancora incerta.
Repubblicani e governativi si dicono sicuri del fatto proprio e gli
uni e gli altri usano i mezzi di cui possono valersi onde riuscire
vincitori.
Non mi occuperò dell'ipotesi del successo dei governativi. Le
conseguenze sono prevedibili: Mac-Mahon andrebbe sino al 1880, cioè
compirebbe il settennato, col proponimento di chiedere nell'ultimo
anno della sua presidenza una revisione della costituzione in senso
monarchico. Esaminerò quindi il caso in cui la vittoria toccasse ai
repubblicani.
Se i repubblicani vincessero, quale sarebbe il contegno di coloro
che furono gli autori dell'atto del 16 maggio? Faranno essi un colpo
di Stato? E se lo tentassero e vi riuscissero, chi ne raccoglierebbe
i beneficii?
Il gabinetto è composto di orleanisti e bonapartisti, e se tutti
cospirano concordi per la distruzione della repubblica, ciascuno dei
due partiti lavora per il trionfo della dinastia prediletta.
Nel paese però il partito, il quale ha maggiore vitalità dopo il
repubblicano è il bonapartista, il quale parimenti è il più audace.
Ma poco importa di ciò, e siccome uno dei due bisogna che soccomba
nel caso in cui il colpo di Stato deve esser fatto, il più furbo dei
due saprà disfarsi del suo competitore.
Chiunque dei due vinca, e mettiamo che vincendo possa assumere senza
contrasti il governo della Francia, dovrà il suo trionfo
all'esercito ed al clero. L'esercito ed il clero — essendo le due
forze di cui si sarà valso il vincitore — avranno delle pretese alle
quali bisognerà dar soddisfazione.
Quello che domanda il clero, tutti lo sanno: il ritorno al passato,
ed in questo è prima condizione il ristabilimento del potere
temporale del papa. L'esercito alla sua volta vorrà rifare con
qualche vittoria il prestigio perduto nell'ultima guerra con la
Germania.
È facile il comprendere che il terreno che meglio conviene alla
reazione, e nel quale essa crede trovar facile successo, è l'Italia
nostra.
Coteste mie congetture svanirebbero, qualora la Francia abbandonasse
le sue male abitudini, giungesse a costituire un regime di libertà,
e smettesse per sempre il brutto giuoco delle rivoluzioni e dei
colpi di Stato, dai quali nulla può sorgere di stabile e duraturo,
la violenza ai tempi nostri non potendo essere buona arte di regno.
Noi però dobbiamo regolarci e provvedere come se fosse possibile
l'attuazione delle ipotesi da me contemplate. Guai, se un mutamento
di governo in Francia non ci trovasse pronti a difendere il trono
italiano e l'indipendenza nazionale!
Non nascondo a V. M. che i repubblicani ritengono impossibile un
colpo di Stato. Essi son d'avviso che a Mac-Mahon mancherebbero
l'ingegno ed i mezzi morali per un atto così audace, e che
l'esercito non si presterebbe a tanto. Era pur di cotesto avviso il
signor Thiers che vidi il 31 agosto, cioè tre giorni prima della sua
morte e che mi parlò con molta devozione di V. M.
Dopo tutto quello che le ho rassegnato ho adempiuto al mio ufficio.
Nei 29 anni di regno, V. M. ha saputo con la sua intelligenza e col
suo coraggio superare difficoltà più gravi di quelle da me
prevedute, ed ha saputo evitare pericoli di maggiore entità. Il suo
senno, la sua esperienza le suggeriranno quello che converrà fare in
previsione degli avvenimenti, intesi i consiglieri responsabili
della Corona.
Mi permetta ora, Sire, che chiuda la presente, dicendomi con tutta
devozione e con affettuoso rispetto della M. V.
L'umilissimo, obblig. servitore
F. CRISPI.»
_12 settembre._ — Partenza per Berlino, via Bruxelles, alle 2,45
pom. Pernotto a Bruxelles.
_14 settembre._ — Arrivo a Berlino alle 7 ant.
Alle 12 e mezzo visita al barone Holstein, del Ministero degli
Affari esteri, e quindi al conte di Bülow, segretario di Stato.
Il conte di Launay, ambasciatore d'Italia, viene a trovarmi alle 3
½.
Visitiamo il _Reichstag_; scrivo al presidente Bennigsen[3].
[3] Il barone Rodolfo di Bennigsen, capo del partito
nazionale-liberale, era stato a Roma in maggio 1877, accolto con
molta cortesia dal Presidente della Camera e da gran numero di
deputati italiani. _(N. d. C.)_
_15 settembre._ — Rodolfo di Bennigsen telegrafa da Hannover: «Je
viendrai cette nuit Berlin pour avoir l'honneur et le plaisir d'être
avec vous».
Vado insieme a di Launay da Leonhardt, ministro di Giustizia del
regno di Prussia, il quale ci manda per competenza da Friberg,
presidente della Commissione germanica di giustizia. Parlo a questi
dell'adozione in Germania dell'art. 3 del Codice Civile italiano.
Egli sarebbe lietissimo di accoglierlo; ma soltanto Bismarck è in
grado di superare le difficoltà.
Parto alle 8 pom. per Monaco di Baviera, dalla stazione di Anhalt. A
mezzanotte sono a Lipsia.
_16 settembre._ — Sono a Monaco alle 12,30. Parto all'una e mezza
per Salisburgo, dove pernotto all'albergo d'Europa.
_17 settembre._ — Alle 9,45 ant. per Lend. Di là a Gastein, dove
arrivo alle 6.
Wildbad, la città dei bagni, siede in cima alla vallata di Gastein,
sul versante orientale del monte. Ivi è una sorgente di acque
minerali, alle quali molti ricorrono per guarirsi dal torpore delle
membra e dalla inerzia dei nervi. Ogni anno vi arrivano più di 3000
forestieri a cercarvi salute. Ordinariamente, le persone che vi
convengono appartengono alle alte classi sociali.
Il monte dà origine al fiume _Ache_, il quale esce furioso da
profondi crepacci, precipitandosi con due splendide cascate l'una
sotto l'altra. Fino a pochi anni addietro, la più parte delle case
di Wildbad erano di legno. Dopo che l'imperatore di Germania ed il
suo Gran Cancelliere preferirono i bagni di quel luogo, vi sorsero
begli edifici e magnifiche ville.
Giunsi a Wildbad alle 6 p.m. e ne avvisai il principe di Bismarck,
mandandogli una carta da visita, e, immediatamente dopo, un
biglietto così concepito:
«Hotel Straubingen, h. 6.40 du soir.
_Altesse_,
Dans le doute que vous n'avez pas encore reçu ma carte, je vous
écris ces quelques lignes pour vous prier de vouloir bien me fixer
l'heure dans la quelle je pourrais avoir l'honneur de vous voir.
En attendant etc.»
Il principe di Bismarck mandò subito a scusarsi per mezzo del suo
segretario, che egli non poteva venir di persona per la sua malferma
salute e che mi avrebbe all'istante medesimo ricevuto.
Il principe di Bismarck dimora alla destra del fiume in una modesta
casa di proprietà dello Straubingen che raggiungemmo in pochi
minuti. Mi fecero salire al primo piano. Il principe era nel suo
gabinetto, il cui uscio dà sul pianerottolo rimpetto alla scala.
Nella camera erano poche sedie, un tavolo, una magnifica stufa di
porcellana e, sdraiato a poca distanza dal padrone, un superbo cane.
Sul tavolo era una piccola pistola col manico bianco.
Aperta la porta, il principe si levò in piedi e mi venne incontro
offrendomi la mano.
— Sono lieto, Altezza, di poter fare la vostra personale conoscenza.
— Noi ci conosciamo da molto tempo!
— Sì, Altezza, oggi però ho il bene di vedervi la prima volta e di
potervi stringere la mano.
Essendo venuto in Germania, io non potevo partirne senza avervi
recato i saluti del mio Re; e vi ringrazio cordialmente di avermi
concesso di venirvi a trovare sin qui.
— Che notizie mi portate d'Italia? Siete stato in Francia? Che
dicono a Parigi?
— In Roma si è preoccupati per le probabilità d'una guerra nel caso
che nelle prossime elezioni politiche in Francia vinca il partito
reazionario. E poi non si è sicuri dell'Austria, il cui contegno non
è punto amichevole verso il nostro governo.
Voi ci avete fatto dire dal barone Keudell che vorreste stringere
sempre più col nostro paese legami di amicizia, e pertanto io son
venuto d'ordine del Re a parlarvi di parecchie cose.
La primissima è d'interesse tutto particolare per l'Italia e la
Germania, le altre di natura affatto internazionale.
Comincio da quella che riguarda noi e voi.
Io non so se bisognerà ritoccare il nostro trattato di commercio del
dicembre 1865. Sono però convinto che con l'apertura del Gottardo le
relazioni fra i nostri paesi saranno più frequenti e che in
conseguenza sarà utile di mettere i cittadini delle due parti in
condizioni tali che non trovino ostacoli nei commerci ed in tutti
gli atti della vita privata. A tale scopo il mio governo vorrebbe
che Vostra Altezza accettasse un trattato mercè cui i tedeschi in
Italia e gli italiani in Germania fossero in uno stato di vera
uguaglianza coi nazionali nello esercizio dei diritti civili.
Andiamo ora agli argomenti di maggiore interesse e sui quali mi
spiegherò in poche parole.
Io sono incaricato di chiedervi se voi siete disposto a stipulare
con noi un trattato di alleanza eventuale, nel caso che fossimo
costretti a batterci con la Francia o con l'Austria.
Il mio Re vorrebbe inoltre mettersi d'accordo con l'Imperatore per
la soluzione della questione orientale.
— Accetto di tutto cuore la proposta per un trattato che metta gli
italiani in Germania e i tedeschi in Italia allo stesso livello dei
nazionali e che per gli uni e per gli altri vi sia una perfetta
uguaglianza nello esercizio dei diritti civili. Non posso però farlo
senza averne prima parlato ai miei colleghi. Un trattato di tal
genere mi conviene, perchè sarebbe una pubblica manifestazione del
nostro accordo con l'Italia.
Andiamo al resto.
Voi conoscete le nostre intenzioni. Se l'Italia fosse attaccata
dalla Francia, la Germania si riterrebbe solidale e si unirebbe a
voi contro il comune nemico. Per un trattato a codesto fine potremo
intenderci. Giova, però, sperare che la guerra non si renderà
necessaria e che potremo mantenere la pace. La repubblica non può
vivere in Francia che essendo pacifica; e se tale non fosse,
correrebbe rischio di perdersi. A mio avviso la guerra sarebbe
solamente possibile nel caso d'un ritorno della monarchia.
Le dinastie, in quel paese, sono per necessità clericali, e perchè
il clero vi è irrequieto e potente, e perchè i Re, onde illudere le
plebi, hanno bisogno di essere battaglieri, ne viene per conseguenza
ch'essi son costretti ad attaccar lite coi vicini. È stato sempre
così in tutti i tempi, e ne troverete esempi a cominciare dal regno
di Luigi XIV.
Per l'Austria la posizione è tutta diversa. Io non oso supporre il
caso che essa ci possa essere nemica; e vi dirò francamente che non
voglio neanche prevedere codesta eventualità.
Domani dovrò trovarmi col conte Andrássy, e parlando con lui voglio
in fede mia assicurarlo che non ho impegni con alcuno e che gli sarò
amico.
La guerra russo-turca è proceduta contrariamente ad ogni previsione,
e però l'Austria non ha avuto bisogno di passare la frontiera. Spero
che questo bisogno non verrà, e che la lotta sarà limitata fra i due
combattenti e potrà rimanere localizzata.
Noi teniamo a che l'Austria e la Russia siano amiche e cerchiamo di
mantenerle tali.
Si possono discutere le varie ipotesi secondo le quali convenga
risolvere la questione d'Oriente, e si possono anche determinare
certi criteri onde procedere d'accordo. Bisogna però convenire che
l'esercito russo non è stato fortunato fin oggi e che ci è ignoto
per ora quale possa essere la fine della guerra.
Lo Czar deve fare grandi sforzi ancora. Se l'esercito russo
ritornasse sconfitto, lo Czar potrebbe avere fastidi in casa sua.
Comunque sia è un affare che lo riguarda, anzi dovrò confessarvi,
che in cotesta questione d'Oriente, la Germania non ha interesse
alcuno, e per noi qualunque soluzione la quale non turbi la pace
europea, sarà sempre accettata.
— Ammiro la vostra franchezza, e vi dico che se fossi al vostro
posto non parlerei diversamente.
Resta, dunque, inteso che faremo una convenzione per assicurare ai
tedeschi in Italia ed agli italiani in Germania l'esercizio dei
diritti civili, come ne godono i nazionali. Potrebbe alla
convenzione servir di base l'articolo 3.º del Codice Civile
italiano, il quale accorda questo beneficio agli stranieri.
Siamo pure d'accordo per quanto si riferisce alla Francia.
Permettetemi ora, pel resto, che io vi sottoponga alcune domande:
Credete voi che l'Austria vi sarà sempre amica? Per ora essa ha
bisogno di voi, dovendo riparare ai danni patiti al 1866 e voi soli
potendo assicurarle la pace senza la quale essa non potrebbe
riordinare le sue finanze e ricostituire il suo esercito. Ma
l'Austria non può dimenticare il passato, nè può vedere di buon
occhio il nuovo imperatore di Germania.
Voi dite che la Germania non ha alcun interesse nella questione
d'Oriente. Sia pure. Devo, intanto, ricordarvi che il Danubio per
una buona parte è fiume tedesco; esso tocca Ratisbona e vanno per la
via del Danubio le merci tedesche al Mar Nero.
Noi italiani non possiamo essere disinteressati come voi nella
soluzione della questione d'Oriente. Le voci che corrono ci fanno
temere che noi ne saremo danneggiati. Se le grandi Potenze
stabiliranno d'accordo di astenersi da ogni conquista nelle
Provincie balcaniche e converranno che il territorio tolto ai turchi
dev'essere lasciato alle popolazioni del luogo, noi nulla avremo a
ridire. Vuolsi però che la Russia, per assicurarsi l'amicizia
dell'Austria, abbia offerto a questa la Bosnia e la Erzegovina. Or
l'Italia non potrà permettere che l'Austria occupi quel territorio.
Voi lo sapete: al 1866 il regno d'Italia rimase senza frontiere
dalla parte delle Alpi orientali. Se l'Austria ottenesse nuove
provincie, le quali la rinforzassero nello Adriatico, il nostro
paese resterebbe stretto come entro una tenaglia e sarebbe esposto
ad una facile invasione tutte le volte che ciò convenisse al vicino
impero.
Voi dovreste aiutarci in questa occasione. Noi siamo fedeli ai
trattati e nulla vogliamo dagli altri. Voi dovreste domani
dissuadere il conte Andrássy da ogni desiderio di conquiste nel
territorio ottomano.
— L'Austria segue una buona politica, ed io devo credere che vi
persisterà. Un solo caso vi potrebbe essere che valga a rompere ogni
accordo tra l'Austria e la Germania ed è una differenza nella
politica dei due governi in Polonia.
In Polonia esistono due nazioni: la nobiltà ed il contadiname (_la
noblesse et le paysan_), di natura ed abitudini diverse. La prima è
irrequieta, faziosa; il secondo è tranquillo, laborioso, sobrio.
L'Austria accarezza la nobiltà.
Se scoppiasse un movimento polacco, se l'Austria lo aiutasse, noi
dovremmo opporci. Noi non possiamo permettere la ricostituzione di
un regno cattolico alle nostre frontiere. Sarebbe la Francia del
Nord. Oggi, ne abbiamo una; allora avremmo due Francie, le quali
naturalmente sarebbero alleate e noi saremmo in mezzo a due nemici.
La risurrezione della Polonia ci nuocerebbe anche per altri motivi;
essa non potrebbe avvenire senza la perdita di una parte del nostro
territorio. Ora noi non possiamo rinunziare a Posen e a Danzica,
perchè l'impero tedesco resterebbe scoperto dalla parte dei confini
russi e perderebbe i suoi sbocchi nel Baltico.
L'Austria sa che non può ritornare indietro e sa che noi siamo amici
leali. Essa è in una buona via e non ha interesse di abbandonarla.
Se mutasse, se si facesse protettrice del cattolicismo, muteremmo
anche noi, ed allora, per conseguenza, saremmo con l'Italia. Per ora
nulla ci dà a credere che questo avvenga.
Non cerchiamo coi sospetti di dar pretesto a che l'Austria cangi
politica. Vi sarà sempre tempo a provvedere.
Il Danubio non ci riguarda. Esso è navigabile da Belgrado in poi; a
Ratisbona non vi sono che alcune zattere (_quelques radeaux_).
L'Austria al 1856, nel Congresso di Parigi, per suo proprio
interesse trascurò la Confederazione germanica nella Commissione pel
Danubio ed in verità non ce ne era bisogno. L'Austria fa i suoi
commerci per la via di Trieste e di Amburgo.
La Bosnia, come tutta la questione orientale, non tocca gli
interessi tedeschi. Se potesse esser causa di dissidi tra l'Austria
e l'Italia ce ne dorrebbe, perchè vedremmo combattersi due amici,
che vogliamo siano in pace.
Del resto, se l'Austria prenderà la Bosnia, l'Italia si prenda
l'Albania o qualche altra terra turca sull'Adriatico.
Io spero che le relazioni del vostro governo con quello di Vienna
diverranno amichevoli e col tempo anche cordiali. Nulladimeno, se
v'impegnaste contro l'Austria me ne dorrebbe, ma non faremmo la
guerra per questo.
A questo punto si apre la porta ed entra il conte Erberto di
Bismarck con un fascio di telegrammi. Egli li dà al padre, il quale,
dopo averli letti, ordina le relative risposte e l'altro se ne
parte.
Quasi immediatamente dopo si presenta la principessa di Bismarck, la
quale porta al marito una limonata minerale.
Mi alzo ed egli:
— Mia moglie.
Presento alla signora i miei complimenti. Il Principe beve e la
Principessa esce. Rimasti di nuovo soli riprendo la parola.
— Comprendo il vostro contegno verso la Corte di Vienna e lo
rispetto.
Permettetemi, però, di farvi osservare che l'unità germanica non è
ancora compita. Dal 1866 al 1870 avete fatto miracoli, ma avete
molte popolazioni tedesche fuori del territorio dell'impero e
certamente presto o tardi saprete attirarle a voi.
A voi non dispiace il territorio austriaco. Voi venite qui ogni
anno, e Gastein, che segna con le Alpi la vera frontiera della
Germania, ha per me un significato; può essere anche una
predizione....
— Ah! no, voi v'ingannate. Io son venuto qui anche prima del 1866. E
poi ascoltate:
Noi abbiamo un grande impero da governare, un impero di 40 milioni
di abitanti, con vaste frontiere. Esso ci dà molto da fare, e non
vogliamo, per ambizione di nuove conquiste, rischiare quello che
abbiamo. L'opera alla quale ci siamo dedicati assorbe la nostra
mente ed il nostro tempo.
Noi abbiamo molte difficoltà da superare. Il Re, alla sua età, non
può ricevere grandi scosse. Ha fatto moltissimo per la Germania e
bisogna che riposi.
Abbiamo, nel nostro territorio, parecchi principi cattolici, una
regina cattolica ed anche francese, un clero irrequieto che a tener
tranquillo bisogna sottoporre a leggi speciali. Noi siamo
interessati al mantenimento della pace. Se ci offrissero qualche
provincia cattolica dell'Austria, la rifiuteremmo.
Ci venne imputato che vogliamo l'Olanda e la Danimarca.
Che mai ne faremmo? Abbiamo abbastanza popolazioni non tedesche, per
non doverne volere delle altre. Con l'Olanda siamo in buoni termini
e con la Danimarca le nostre relazioni non sono cattive. Finchè sarò
ministro sarò con l'Italia, ma pur essendo vostro amico non intendo
romper con l'Austria.
Al 1860, io mi trovava a Pietroburgo, ma ero con voi di cuore.
Seguendo i vostri successi, n'ero contentissimo, perchè i vostri
successi convenivano alle mie idee.
Dopo tutto ciò dovrò ripetervi che noi desideriamo voi siate amici
dell'Austria. Nella soluzione della questione d'Oriente, si può
trovare un accordo, prendendo voi in compenso una provincia turca
dell'Adriatico, qualora l'Austria prendesse la Bosnia.
— Una provincia turca sull'Adriatico a noi non basta, non sapremmo
che farne.
Noi verso l'Oriente non abbiamo frontiere; l'Austria è al di qua
delle Alpi e può entrare nel regno quando a lei piaccia. Noi nulla
vogliamo dagli altri; saremo fedeli ai trattati, ma vogliamo essere
sicuri in casa nostra.
Parlatene al conte Andrássy.
— No, non voglio toccare la questione della Bosnia e molto meno
quella delle vostre frontiere orientali. Lasciamole per ora. Io non
voglio trattare argomenti che possono dispiacere al conte Andrássy,
perchè voglio tenermelo amico.
— Va bene; fate come meglio credete.
Ora ditemi un poco.
Voi tenete alla pace e sperate che questa possa durare.
Abbiamo trattato l'ipotesi che in Francia possa vincere il partito
reazionario e che possa ritornarvi la monarchia. Contro questo
avvenimento, abbiamo convenuto che bisogna provvedere.
Ma facciamo un'altra ipotesi:
Se dalle elezioni generali in Francia riuscissero vincitori i
repubblicani, non potreste trovare il modo d'intendervi?
Questa domanda non ve la fo a caso.
Io vidi a Parigi il deputato Gambetta, il quale ha molta influenza
nel suo paese. Abbiamo discorso a lungo sulle condizioni politiche
della Francia e sulla necessità della pace europea, anche pel
consolidamento della repubblica. Io non gli nascosi che sarei venuto
da voi ed egli mi manifestò il desiderio di un accordo con voi e
volle che io ve ne parlassi.
Io comprendo che un'alleanza tra la Francia e la Germania non è
ancora possibile, perchè gli animi in quel paese sono troppo
inaspriti _(aigris)_ dopo le sconfitte patite. Ma havvi un punto sul
quale potreste intendervi, e l'Italia vi seguirebbe; è quello del
disarmo.
— Un'alleanza con la Francia repubblicana sarebbe senza scopo per
noi.[4] Il disarmo dei due paesi non sarebbe possibile. Questo
argomento prima del 1870 fu trattato con l'imperatore Napoleone, e
dopo tanto discutere fu provato che il concetto di un disarmo non
può riuscire nella pratica. Non furono trovati ancora nel dizionario
i vocaboli che fissino i limiti del disarmo e dell'armamento. Le
istituzioni militari sono diverse nei varii Stati, e quando avrete
posto gli eserciti sul piede di pace, non potrete dire che le
nazioni, le quali hanno aderito al disarmo, siano in eguali
condizioni di offesa e di difesa. Lasciamo questo argomento alle
Società degli amici della pace.
[4] Cfr. _Memorie del principe di Hohenlohe_, II. 407: «5 settembre
1877. Gastein. Quant à la France il [Bismarck] compte l'écarter de
toutes les combinaisons de grande politique et veut eviter tout
rapprochement.» _(N. d. C.)_
— E allora limitiamoci al trattato di alleanza pel caso che la
Francia ci attacchi.
— Prenderò gli ordini dell'Imperatore per trattare in via ufficiale
un'alleanza eventuale.
L'ora essendo tarda ed essendo esauriti gli argomenti che dovevo
trattare, mi levai per congedarmi.
— Resterete ancora a Gastein? — chiese il Principe.
— No, Altezza. Ogni permanenza in questi luoghi sarebbe inopportuna.
Non ho dato il mio nome nè all'albergo di Europa a Salisburgo, nè
qui all'albergo Straubingen.
— Allora, arrivederci.
— Arrivederci.
_18 settembre._ — Alle 9 ¾ del mattino lasciai Wildbad-Gastein,
prendendo posto in un carrozzino, il quale in tre ore mi portò a
Lend. Il treno non era ancora giunto e bisognò attendere qualche ora
alla stazione.
Cotesta di Lend è la ferrovia che viene dal Tirolo e conduce in
Germania. Alle 2 p. partimmo; alle 5 p. eravamo a Salisburgo e a
Monaco alla mezzanotte. — Scesi all'albergo delle _Quattro
Stagioni_.
_Monaco di Baviera, 19 settembre._ — È a Monaco un Inviato
straordinario e ministro plenipotenziario del Re d'Italia. In verità
io non comprendo perchè debba tenersi una rappresentanza diplomatica
in Baviera. Dopo la costituzione del grande impero, i principotti
tedeschi non hanno più voce in capitolo nella politica europea. I
trattati si fanno a Berlino ed il Gran Cancelliere pensa ed agisce
nell'interesse di tutti i popoli e di tutti gli Stati tedeschi.
La legazione a Monaco è tenuta dal conte Rati-Opizzoni. Il suo
ufficio è una vera «sine cura». Ancora non ha casa e vive in
albergo, dove lo trovai. Il foglio prediletto che a lui giunge
d'Italia, è l'_Unità Cattolica_.
Da Monaco telegrafai al Re e al presidente del Consiglio i risultati
del mio colloquio col principe di Bismarck.
Al Re, col quale avevo la cifra in francese, scrissi così:
«J'ai parlé avec Bismarck. Il accepte traiter alliance défensive et
offensive dans le cas où la France nous attaque. Il prendra les
ordres de S. M. l'Empereur pour traiter officiellement.
«Je retourne à Berlin, toujours aux ordres de V. M.».
Il dispaccio all'on. Depretis fu nei termini seguenti:
«Ebbi a Gastein conferenza due ore con Bismarck. Accetta trattare
alleanza eventuale, qualora Francia attacchi. Accetta art. 3 Codice
Civile quale dimostrazione politica. Rifiuta trattato eventuale
contro l'Austria. Questione Orientale non tocca interessi Germania.
Prenderà ordini dell'Imperatore onde trattare ufficialmente. —
Scrivimi Berlino».
Alle 3 ¼ p. sono partito da Monaco. Il conte Rati-Opizzoni ebbe la
cortesia di accompagnarmi alla stazione.
_Berlino, 20 settembre._ — Arrivo a Berlino alle 7,45. Trovo una
lettera del dottor Giovanni Valeri, professore di lingua e
letteratura italiana della principessa imperiale Vittoria, moglie
del principe Federico Guglielmo, erede del trono germanico. Il
Valeri, che era venuto personalmente all'albergo nella mia assenza,
mi scrive che avrebbe a parlarmi di qualche cosa d'importante e però
chiede di vedermi. Lascia il suo indirizzo: Deutsch Haus — Potsdam.
Gli telegrafo che poteva venire in giornata, in quella ora che a lui
sarebbe parsa opportuna.
Verso le 11 ant. gli onorevoli Ludwig Loewe e Federico Dernburg,
deputati al Reichstag, vengono a nome dei colleghi e dei membri del
Landtag a manifestare il loro desiderio di tenere un banchetto
parlamentare per me. Consento, lasciando ai medesimi la scelta del
giorno.
Il Loewe è progressista, il Dernburg è del partito
nazionale-liberale.
Il conte di Launay viene a visitarmi e mi reca due telegrammi del
Re. Annunzio al nostro ambasciatore che il principe di Bismarck
aveva accolta favorevolmente la proposta di un trattato che accordi
ai cittadini italiani in Germania l'esercizio dei diritti civili
alle uguali condizioni dei nazionali.
I telegrammi del Re sono uno del 17, in risposta alla mia lettera da
Parigi dell'11 settembre, e l'altro del 20, in risposta al mio
dispaccio da Monaco.
Il primo è così concepito:
«Merci pour votre lettre, qui m'a fait beaucoup de plaisir parce que
je vois que vos idées sont parfaitement d'accord avec les miennes.
Je remarque cependant que vous ne me parlez pas des aspirations
ministerielles.
«Faites moi le plaisir de me télégraphier si je dois écrire quelque
chose au prince de Bismarck, ou si vous ferez de vous-même sans moi.
Je vous souhaite bonne réussite dans tout et je me fie entièrement
dans votre expérience et habileté. Bien des amitiés
VICTOR EMMANUEL.»
Il secondo telegramma è del seguente tenore:
«Je vous remercie. Tachez d'avoir quelque document positif pour
pouvoir traiter.
VICTOR EMMANUEL.»
L'onorevole Depretis non si affrettò a rispondere al mio dispaccio
da Monaco, talchè dovetti sollecitarlo. Ed allora egli, la sera del
20, telegrafò:
«Ricevuto ieri tuo dispaccio».
Gli scrivo la seguente lettera nella quale gli fo una narrazione del
mio colloquio col principe di Bismarck:
«Berlino, 20 settembre 1877.
_Caro Depretis_,
Ieri da Monaco di Baviera ti trasmisi in cifra il seguente dispaccio
telegrafico: «Ebbi a Gastein una conferenza di due ore con Bismarck.
Accetta trattare alleanza eventuale, qualora Francia attacchi.
Accetta art. 3 del Codice Civile quale dimostrazione politica.
Rifiuta trattato eventuale contro Austria. — Questione Orientale non
tocca interessi Germania. — Prenderà ordini dell'Imperatore onde
trattare ufficialmente. — Scrivimi a Berlino».
A S. M. che avevo promesso tenere informato dello stesso argomento,
telegrafai anche in cifre nei termini seguenti: «J'ai parlé avec
Bismarck. Il accepte traiter alliance défensive et offensive dans le
cas où la France nous attaque. Il prendra les ordres de S. M.
l'Empereur pour traiter officiellement. Je retourne à Berlin,
toujours aux ordres de V. M.».
Ti avverto che nulla ho detto a Launay delle nostre pratiche per
l'alleanza, con lui essendomi soltanto limitato a discorrere
dell'art. 3 del Codice Civile.
Eccoti come sono andate le cose:
Giunsi in questa città il 14 alle 7 del mattino. A mezzogiorno fui a
trovare il barone Holstein, al quale manifestai il desiderio di
vedere il principe di Bismarck. Egli affacciò varie obiezioni di
forma e di sostanza.
Il Principe è a Gastein. Una visita colà, essendo una località molto
piccola, salterebbe agli occhi di tutti e darebbe occasione ad ampi
commenti alla stampa europea. Sarebbe più conveniente vederlo qui,
in una grande città molte cose potendo farsi senza che il pubblico
se ne avvegga. Soggiunse che il Principe sarebbe lieto di vedermi e
di parlarmi, essendo già stato avvertito del mio viaggio in
Germania.
Queste erano le obiezioni sulla sostanza.
In quanto alla forma, l'Holstein fu d'avviso che bisognava valersi
dell'opera del barone di Bülow per chiedere una udienza al Principe.
Nel ministero degli esteri havvi disciplina e non si osa fare cosa
alcuna fuori della gerarchia.
— «Del resto il di Bülow, egli concluse, è nella piena confidenza
del Principe, anzi in questi tempi egli è il vero ministro degli
affari esteri in assenza del gran Cancelliere».
Fui introdotto dal sig. di Bülow. È un uomo sui sessant'anni,
gentilissimo, che mi accolse come un vecchio amico.
Egli sapeva che sarei venuto a Berlino, essendone stato informato
dal conte Launay.
Dopo una discussione generica sugli interessi politici della
Germania e dell'Italia, dopo aver convenuto che le due nazioni,
avendo gli stessi principii a sostenere, lo stesso nemico a
combattere, debbano essere unite e concordi, il di Bülow promise che
avrebbe scritto al Principe e che lo avrebbe prevenuto del mio
desiderio di vederlo.
Il 15, di Bülow ed Holstein vennero a cercarmi all'albergo, ma io
era uscito. L'Holstein mi scrisse allora che doveva darmi qualche
notizia.
Andai subito e seppi che il Principe aveva risposto affermativamente
e che mi aspettava a Gastein. Senza metter tempo in mezzo, la sera
alle 8 partii e in 17 ore fui a Monaco, donde mi recai a Salisburgo,
pernottandovi.
Il 17 alle 9,45 del mattino presi la via di Lend, dove arrivato alle
2 p. m. fittai una vettura, la quale in sei ore mi portò a Gastein.
Da Lend salendo la montagna dalla quale si precipita l'Ache, la
strada è difficile ed i cavalli stentano a camminare. Si entra in
una gola detta il _Klamm-Pass_, stretta, scura, fredda, donde poi si
esce nella vallata di Gastein, tortuosa, lunga parecchie miglia. Le
cime del _Klamm-Pass_ ed i monti che chiudono la vallata erano
ricoperti di neve ed io non mi ero provvisto di forti abiti, onde
ripararmi dal freddo.
Giunto a Gastein, che è alla fine della vallata, anzi sotto la cima
del _Reichenberg_, ero stanco e mi sarei volentieri riposato.
Nonostante, trasmisi una mia carta e poscia scrissi un biglietto al
principe di Bismarck, il quale mandò subito il suo segretario per
scusarsi che non poteva venire lui stesso di persona per la sua
malferma salute, ma che mi avrebbe subito ricevuto.
Andai e stemmo insieme dalle 7 ½ alle 10 di sera, discorrendo di
tutto ciò che d'interessante presenta l'Europa e che, per quanto
specialmente ci riguarda, troverai in sunto nei miei precedenti
telegrammi.
Della nostra conferenza avrai una ampia relazione. Per ora ti dirò
che, se per la questione d'Oriente non esiste un trattato scritto
fra i tre imperatori, sono fissate, però, da loro le condizioni
secondo le quali in date evenienze la questione medesima deve esser
sciolta. Se la Russia si avanzerà, l'Austria occuperà la Bosnia e
l'Erzegovina e, in caso d'una ripartizione del territorio turco, se
le annetterà. Avendo io osservato che l'Italia non potrebbe vedere
con indifferenza l'ingrandimento dell'Austria alla sinistra
dell'Adriatico, Bismarck mi rispose:
«_Prendetevi l'Albania_».
Ed avendogli dichiarato che non ci pensavamo punto e che bisognava
ch'egli si frapponesse affinchè ci fosse dato un compenso con una
rettificazione delle frontiere dalla parte delle Alpi, mi osservò
che di ciò non si poteva parlare a Vienna e che la Germania, amica
delle due potenze, doveva desiderare e procurare la pace tra
l'Austria e l'Italia, e che nello stato attuale e finchè l'Austria
non mutasse politica, doveva tenere il silenzio per non suscitare
sospetti.
Ora, io sarei d'avviso che stante gl'insuccessi russi ed in
previsione d'una ripresa d'armi in primavera, convenisse parlar
chiaro e franco a Vienna e Londra, e dir netto il nostro pensiero.
Intanto, bisognerebbe affrettare i nostri armamenti e provare che
anche noi abbiamo tutti gli argomenti per farci ascoltare.
La mia corsa da Berlino a Gastein fu un mistero. A Salisburgo ed a
Gastein agli alberghi non fu rivelato il mio nome.
Di Launay seppe della mia visita a Bismarck, ma secondo le tue
istruzioni gli tacqui il vero scopo della visita.
E qui fo punto per oggi, e cordialmente ti saluto.»
Alle 8 di sera viene il dottor Valeri per dirmi che la Principessa
imperiale desiderava una mia visita.
Risposi che mi sentivo onorato della cortese manifestazione della
nobile Principessa e che lasciavo a S. A. I. di fissare il giorno
che avrei potuto vederla.
Il Valeri disse che la Principessa era invaghita dell'Italia e che
ne seguiva con amore i progressi. Lieta della visita a Berlino del
Presidente della Camera Italiana, S. A. I. avrebbe gradito che egli
si fosse recato a Potsdam.
Pregai il cortese messaggero di ringraziare l'illustre Principessa e
di dirle che sarei stato fortunato di poterle ripetere a voce
l'omaggio della mia devozione.
_Berlino, 21 settembre._ — Il telegramma di ieri dell'on. Depretis
non essendo soddisfacente replicai col seguente:
«Ebbi tuo laconico dispaccio telegrafico. S. M. il Re fu più gentile
di te. Avverti che di Launay ignora trattative alleanza contro
Francia».
Il sig. di Holstein mi scrive:
«_Berlin, 21 sept. 1877._
_Monsieur le Président_,
Pouvant parfaitement imaginer à quel point toute tentative de vous
trouver chez vous serait une pure formalité, je me permets de
m'annoncer d'avance, pas par égard de la personne du soussigné, mais
parce que j'ai quelque chose à communiquer.
J'aurai donc l'honneur de passer chez vous demain samedi vers deux
heures.
Dans le cas où cela viendrait à déranger des combinaisons
antérieures, je vous prie de croire que je serai ici à votre
disposition depuis midi à 5 heures.
Veuillez agréer, monsieur le Président, l'expression de mes
sentiments de très haute considération.
HOLSTEIN.»
All'una pomeridiana vado dal sig. di Holstein; mi dà la notizia che
il principe di Bismarck sarebbe venuto a Berlino.
Mi chiede quale impressione aveva io portato del mio viaggio a
Gastein. Gli rispondo che n'ero contentissimo e che speravo, al
prossimo ritorno del Principe alla capitale, di potermi confermare
in quei convincimenti che avevo tratti dal mio colloquio con S. A.
pel bene delle due nazioni.
Il sig. di Holstein è d'avviso che difficilmente avrei potuto
rivedere il principe di Bismarck. Questa volta S. A. sarà molto
occupato e difficilmente avrà tempo a ricevere. Nulla di meno
potrebbe fare una eccezione.
L'Holstein ha l'incarico di dirmi che S. A. R. e I. la principessa
Vittoria desiderava una mia visita e che facilmente mi avrebbe
invitato a pranzo al palazzo di Potsdam. Egli soggiunge che non
avrei tardato a ricevere l'invito.
Ritornato all'albergo, trovo una lettera del deputato Dernburg che
mi annunzia per domenica, 23, il banchetto parlamentare. La lettera
è così concepita:
«_Berlin, den 21 sept. 77._
_Monsieur le Président_,
Vous avez bien voulu accepter le petit banquet, que les membres du
Reichstag et du Landtag, présents à Berlin, ont eu l'honneur de vous
offrir comme témoignage des leurs sympathies pour vous, Monsieur le
Président, pour vos collègues et pour votre grande et belle patrie.
Puisque vous avez eu la bonté de nous laisser le choix du jour, nous
nous avons proposé le dimanche prochain. Nous nous permettrons de
venir vous chercher à cinq heures moins un quart.
Je suis heureux de pouvoir vous exprimer, au nom de mes collègues et
dans mon nom personnel, le vif plaisir et la grande satisfaction que
votre présence en Allemagne nous inspire. J'en tire les meilleurs
conséquences pour les relations futures des deux peuples déjà si
étroitement unis.
Agréez l'expression de ma considération la plus distinguée avec
laquelle je suis, Monsieur le Président, votre très dévoué
F. DERNBURG
membre du Reichstag et chef rédacteur de la _Nationalzeitung_.»
Rispondo così:
«Kaiserhof, ce 21 7mbre.
_Monsieur et cher collègue_,
En remerciant vous et vos collègues, au Reichstag et au Landtag, de
l'honneur que vous me faites, j'accepte l'invitation et je vous
attendrai à l'hôtel dimanche 23 courant à l'heure que vous m'avez
indiquée. Agréez, monsieur, mes salutations bien cordiales».
Scrivo all'on. Depretis:
«Il conte di Launay, avendo ricevuto un biglietto dal Maresciallo di
Corte, il quale annunziava che la Principessa mi voleva a pranzo la
sera di domenica 23, egli venne ad informarmene.
La coincidenza dei due inviti ci mette in imbarazzo, non sapendo
come svincolarci dall'uno o dall'altro. L'ambasciatore di S. M.
assume l'incarico di trovar modo a risolvere il problema».
La sera, ad ora tarda, ricevo da Roma il seguente dispaccio dell'on.
Depretis in risposta al mio del mattino:
«Mio laconismo solito cresce maggiormente per malattia che mi tiene
da otto giorni obbligato a letto. Ma tu devi dargli interpretazione
come attestato di prudenza che non esamina e riconosce per opera tua
il risultato del colloquio del quale mi hai dato notizia. Lasci in
sospeso una grave quistione e la più urgente. Procura, se non puoi
ottenere altro, di lasciare un addentellato che ci permetta di
ritornarci sopra e d'insistere.[5] Pare a me si dovrebbe comprendere
che nella questione Orientale non è possibile rimanere indifferenti
ad una soluzione che ingrandisce Austria».
[5] Siccome avevo scritto a Depretis, la questione alla quale
allude era stata ampiamente trattata. (Vedi mia lettera del 20
settembre).
Immediatamente risposi telegrafando così:
«Con vivo rincrescimento apprendo tua malattia. Eventuale
ingrandimento Austria fu trattato e può essere ripreso.[6] Bisogna
però trattare a Vienna e Londra la questione».
[6] Nella stessa lettera del 20 settembre parlo delle mie obiezioni
ai proposti acquisti dell'Austria e riferisco le risposte del
principe di Bismarck.
_22 settembre._ — Pel pranzo a Potsdam e pel pranzo parlamentare fu
trovata una conveniente soluzione, grazie a S. A. I. la principessa
Vittoria, che diede la priorità alla rappresentanza nazionale.
Il conte di Launay mi scrive su cotesto argomento:
«Tutto è regolato per lo meglio. In risposta al mio dispaccio al
Maresciallo di Corte, ricevo l'avviso che l'invito a Potsdam è
rimesso a lunedì».
Il signor Federico Goldberg, corrispondente di varii giornali
tedeschi e stranieri, avendomi domandato un colloquio consentii che
fosse venuto a vedermi.
Giunto all'ora indicatagli mi domandò prima di tutto se io fossi qui
con una missione del governo italiano presso quello dell'Imperatore
germanico e se ero contento della mia visita a Berlino. Risposi
ch'ero venuto nella capitale dell'impero germanico senza alcun
incarico officiale, e che ero soddisfatto del mio viaggio, perchè
avevo potuto constatare personalmente le simpatie dei tedeschi per
l'Italia.
Il sig. Goldberg lodò la politica italiana. Disse che nelle
condizioni dell'Europa era molto difficile il mantenimento della
pace e che per la Germania e per tutte le altre nazioni una guerra
avrebbe potuto riuscire disastrosa, perchè non ben definite ma
incerte ancora le alleanze.
Avendomi chiesto che cosa io pensassi della guerra turco-russa,
risposi:
— È un atto di prepotenza alla quale l'Europa assiste impassibile.
Ciò non sarebbe avvenuto senza la dissoluzione delle antiche
alleanze.
— Avete ragione, ma l'impero tedesco non può condursi altrimenti. La
Germania non ha alcun interesse in Oriente, e se prendesse parte per
la Turchia ne avremmo la guerra generale, perchè la Francia avrebbe
facile pretesto per correre sul Reno e vendicarsi delle sconfitte
patite al 1870. Vi assicuro, però, che ai tedeschi non è simpatica
la Russia e che le perdite da essa subite sul Danubio hanno fatto
piacere alla nostra popolazione.
— Non comprendo tutto ciò. Al 1870 la Russia, restando neutrale,
influì ai vostri trionfi. Se la Russia fosse intervenuta anche
diplomaticamente — e il povero Thiers fece tutto il possibile per
riuscirvi — l'esercito tedesco non sarebbe giunto a Parigi. Voi
dovreste in conseguenza essergliene grati.
— È purtroppo così; ma bisogna distinguere i tedeschi dalla Corte
imperiale di Germania, i primi avversarii, l'altra amica della
Russia.
Le frontiere della Russia sono rigorosamente chiuse alle nostre
merci ed ai nostri cittadini. Voi non potete immaginare quante noie
diano la polizia ed i doganieri russi ai tedeschi e quanto sia
difficile viaggiare in Russia.
Ora, coteste voci si ripetono tutti i giorni e tutti i momenti, e
siccome il popolo giudica dai fatti che toccano da vicino i suoi
interessi, così le antipatie aumentano in proporzione del danno che
esso riceve.
— È possibile tutto ciò, ma la Germania ha vincoli politici con la
Russia e bisogna che tutte e due sappiano intendersi e procedere
d'accordo.
La Prussia è interessata come la Russia a mantenere le provincie
acquistate sul finire del secolo XVIII nel riparto della Polonia. Or
bene, a cotesto scopo le Corti di Berlino e di Pietroburgo sono
costrette a fare una eguale politica.
— No, voi v'ingannate. Cotesto è un affare d'interna amministrazione
e la Germania non ha bisogno dell'ausilio degli altri per garentire
i suoi possedimenti nelle provincie dove le popolazioni non sono
tutte tedesche. Nella Prussia occidentale e nel ducato di Posen, i
veri polacchi sono in campagna e questi sono docili, operosi ed
obbedienti. Ivi i signori non hanno una vera influenza.
Le città sono in gran parte germanizzate. A Posen è tedesca metà
della popolazione, e a Danzica se i polacchi sono in maggioranza,
non per questo sono temibili (_ils ne sont pas à craindre pour
cela_). La città fiorisce pei suoi commerci, e la popolazione non ci
guadagnerebbe a separarsi dalla Germania.
Del resto, Danzica ha una forte guarnigione, e una piazza militare
di prim'ordine ed in conseguenza non è facile a prendersi, e
ricordate quello che ci volle al 1813 per farla capitolare.
— Che la Germania nella Prussia occidentale possa in tempi ordinarii
mantenere la sua autorità, non ho ragione di contrastarlo. Dubito,
però, che ciò possa fare in caso di una rivoluzione.
Ricorderete certamente la insurrezione polacca del 1863 e non avrete
dimenticato che, allora, Prussia e Russia credettero necessario un
trattato [7] per cooperare a reprimerla. Le insurrezioni sono
contagiose, massime quando sono animate dal principio di
nazionalità.
[7] Trattato dell'8 febbraio 1863.
— Ma al 1863 non avevamo la Germania.
— Sia pure, ma bisogna anche ricordare che nelle provincie di
origine polacca la popolazione è cattolica ed i cattolici danno
molto da fare. Fra i cattolici, il clero e la popolazione di Posen
sono i più attivi ed i più arditi.
— Questa è tutt'altra cosa. Il partito cattolico è forte in tutta la
Germania; ha danaro, ha giornali, ha una potente organizzazione. Il
partito cattolico però costituisce una vera minoranza in tutto
l'impero. Può dare fastidii, ma non sarà mai temuto. È un partito
come un altro, il quale è obbligato a rispettare le leggi e però può
essere tenuto a freno.
— Permettetemi intanto di farvi osservare che nelle provincie
polacche la questione è del tutto diversa.
Nelle provincie tedesche i cattolici sono tedeschi ed essi non
possono volere la caduta dell'impero. I cattolici polacchi nulla
hanno di comune con la Germania; la loro patria è altrove e nella
lotta religiosa troverebbero anche il modo di rivendicare la loro
nazionalità.
— Convengo con voi sulla gravità della questione, ma il principe di
Bismarck sa il suo mestiere e ne ha dato prove in tutte le
occasioni. A lui non riuscirà difficile tenere i polacchi al posto,
qualora volessero turbare la pubblica pace. Nel novembre 1870, il
clero di Posen, con lo arcivescovo alla testa, prese l'iniziativa
per una agitazione in favore del potere temporale del Papa. Fu un
inutile conato innanzi alla ferrea volontà del Principe. Il
movimento si estese, ma non prese mai forma politica. Vennero le
leggi di maggio col voto di tutti i partiti nazionali e col plauso
di tutta la Germania ed altre leggi verrebbero, se mai fossero
necessarie. Il Principe era interessato a mantenere salda l'amicizia
della Germania coll'Italia, ed i cattolici dovettero cedere ed
obbedire.
— Come italiano io devo essere riconoscente al governo tedesco pel
suo contegno in tutto ciò che possa interessare il mio paese. Ma voi
non avete trovato ragioni sufficienti per convincermi che, nella
questione polacca, la Russia e la Prussia non abbiano bisogno di
procedere d'accordo.
Dopo ciò, mi sono alzato ed il mio interlocutore comprendendo quale
fosse il mio desiderio, si è congedato.
Vedo il di Holstein e lo prego a volermi avvisare se e quando potrei
vedere il principe di Bismarck.
_23 settembre._ — Ricevo la seguente lettera del signor di Holstein.
«_Monsieur le Président_,
Le Prince part dans l'après midi de demain, lundi, plus tôt qu'il
n'en avait eu l'intention. Cependant il espère vous voir encore.
Peut-être aurez vous l'obligeance de venir me trouver un peu avant
une heure. À une heure, le Prince compte être libre. Veuillez
agréer, monsieur le Président, l'expression des mes sentiments de
très haute considération.
Dimanche.
HOLSTEIN.»
Alla mezza mi recai dal sig. di Holstein, nell'ufficio della Grande
Cancelleria. Egli mi annunziò che il Principe era molto occupato e
che non aveva potuto ricevere alcuni ministri esteri. Soggiunse che
mi riceverà domani all'una pomeridiana.
Il sig. Holstein mi disse che il Principe aveva incaricato il dottor
Leonhardt, ministro di Stato, dello studio della tesi sulla
parificazione degli italiani ai tedeschi nell'esercizio dei diritti
civili in Germania. Mi consigliò di andare da Leonhardt e
d'intendermi con lui su cotesto argomento.
Si parlò del banchetto e del pranzo alla Corte di Potsdam. Il
Principe era lieto di coteste manifestazioni.
Alle due e mezza, accompagnato dal conte di Launay vado al Ministero
di Giustizia per rivedere il dottor Leonhardt. Questi è un uomo sui
60 anni: viso aperto, maniere affabili. Entrammo subito in materia.
Dissi come sia oramai giunto il tempo che all'infuori della vita
politica cessi ogni disparità di trattamento tra i cittadini dei
vari Stati. Nella sfera delle relazioni individuali un giure
universale deve garentire gli stessi diritti in ogni paese a tutti
gli uomini, senza distinzione di nazionalità. Ricordai che l'Italia
col suo nuovo Codice aveva dato l'esempio agli altri popoli,
ammettendo gli stranieri al pieno esercizio dei diritti civili.
Osservai essere deplorevole che nessun governo ci avesse seguito in
quella via. Dimostrai la necessità di un trattato tra la Germania e
l'Italia per togliere ogni difformità nelle legislazioni dei due
paesi.
Il Leonhardt si dichiarò favorevole e promise che si sarebbe
adoperato per esaudire i nostri desideri.
_23 settembre._ — Alle 4 ½ giungono al _Kaiserhof_ gli onorevoli
Loewe e Dernburg; e ci rechiamo insieme alla trattoria dell'Europa
(Poppenberg), la quale è sita nella strada _Unter den Linden_ (Sotto
i tigli).
Il banchetto era preparato nella gran sala, con molta semplicità, ma
con vera eleganza.
Vi trovai il conte di Launay, il quale mi aveva preceduto, membri
del _Reichstag_ e delle due Camere del _Landtag_, plenipotenziarii
al Consiglio Federale, direttori ministeriali, e sottosegretari di
Stato, il Borgomastro di Berlino, artisti, scienziati, giornalisti.
Al banchetto era rappresentato ogni partito politico, il nazionale
in maggioranza, il progressista quasi al completo, e per la Destra
era il sig. Grävenitz.
Appena arrivai, il presidente von Bennigsen fece le presentazioni; e
poco dopo ci siam posti a mensa. Il presidente della Camera
Prussiana aveva me alla sua sinistra, il conte di Launay a destra.
Venuta l'ora dei brindisi, il signor de Bennigsen si levò e propose
un evviva a Guglielmo imperatore ed al re Vittorio Emanuele.
Tutti si alzarono entusiasti, acclamando i due sovrani.
Vi fu un momento di pausa; ed il Bennigsen surse nuovamente, e
propose un brindisi in onore del Presidente della Camera italiana.
Egli parlò in francese, ed i brindisi, che poscia seguirono, furono
quasi tutti in francese.[8]
[8] Per motivi facili a comprendersi, ho riassunto il discorso del
Bennigsen dalla _National-Zeitung_.
L'oratore ricordò gli antichi rapporti intellettuali e scientifici
fra l'Italia e la Germania. Parlò delle bellezze artistiche e
naturali della penisola, le quali in ogni tempo attrassero i
tedeschi a visitarla ed esercitarono sui medesimi un predominio
morale.
Accennò di volo alle lotte medioevali, ma subito soggiunse che, alle
guerre di conquista, succedettero i tempi di pace, nei quali il
mutuo affetto fra le due nazioni fu cementato dal vincolo degli
interessi comuni.
«La Germania — egli disse — sente per l'Italia una franca e leale
amicizia. Le due nazioni hanno le medesime aspirazioni e gli stessi
scopi, il mantenimento dell'unità nazionale, lo svolgimento di una
costituzione liberale e parlamentare. Esse devono difendere in
comune cotesti beni, e devono con la loro unione rendersi prospere
all'interno, forti e rispettate all'estero. Così nel presente, come
nell'avvenire, l'Italia e la Germania sono interessate a procedere
d'accordo.
Saranno pochi in questa sala coloro i quali non abbiano visitato
l'Italia, mentre avvien di rado che un italiano giunga fra noi, ed
affronti il nostro clima, forse troppo temuto. Quindi è che ci
dobbiamo tanto più rallegrare della presenza del nostro ospite.
Nel sig. Crispi, noi onoriamo uno dei più valorosi uomini del suo
paese, un uomo animato da un entusiastico amor di patria, eminente
per grande avvedutezza politica e per conoscenza di tutto ciò che
possa meglio giovare alla terra natia.
Vogliate dunque associarvi a me con un evviva all'unione delle due
nazioni, alla gloria ed alla grandezza d'Italia, al Presidente della
Camera dei deputati italiani, uno dei più nobili figli del suo
paese».
Tutti si alzarono ed acclamarono. Fui quindi anch'io obbligato a
parlare e mi dichiarai innanzi tutto dolente di non poter adoperare
la lingua tedesca. Ringraziai in nome dell'Italia e dissi che al di
là delle Alpi viveva per i tedeschi un popolo di fratelli. Il giorno
in cui l'Italia e la Germania si sono rilevate, esse hanno compreso
la solidarietà dei loro interessi. Ricordai lo stato dei due paesi
dal medio-evo al 1815. L'antico impero non ebbe vera grandezza, fu
reazione e dispotismo; il Congresso del 1815 negò all'Italia come
alla Germania ogni esistenza politica nel vecchio continente.
Fortunatamente il movimento nazionale iniziato nel 1848, dopo
infinite prove e sacrifizi, e grazie alle due dinastie che
compresero lo spirito del popolo e le tendenze dei loro tempi, ci ha
condotto alla costituzione di due nazioni le quali, vivificate
all'interno dalla libertà, sono all'estero un pegno di pace per
l'Europa.
Il nuovo impero germanico nulla ha da fare con l'antico, la bandiera
di Ratisbona fu abbassata; la bandiera attuale è segnacolo di
libertà e di unità, e ispira fiducia all'Italia. Conclusi proponendo
un brindisi all'Imperatore, rappresentante dell'unità germanica, e
alla perpetua amicizia della Italia e della Germania.
Parlarono poi Schulze-Delitzsch; l'ambasciatore d'Italia di Launay,
e il borgomastro di Berlino, Dunker, il quale dopo aver ricordato
che l'Italia fu madre di civiltà agli altri popoli, propose un
saluto a Roma, applauditissimo.
_24 settembre._ — Alle 11 visita alle carceri correzionali.
Divisione dei giovani dagli adulti — gli opifici comuni e le nicchie
da letto — la sinagoga e la cappella — le celle ed il lavoro —
trenta mestieri — le scuole — la cucina, l'infermeria — gl'impiegati
— i soldati di guardia alla porta del carcere.
All'una, visita al principe di Bismarck.
Seguendo il consiglio del barone di Holstein salii all'appartamento
del Gran Cancelliere. Appena introdotto, il Principe si levò, ci
siamo stretti affettuosamente la mano, ed io:
— Non volevo lasciar Berlino senza avervi veduto.
— Ed io son venuto apposta a Berlino per darvi la promessa risposta.
Per la reciprocità, fra i due paesi, nel godimento dei diritti
civili, sulla base dell'art. 3 del vostro Codice, noi siamo pronti a
stipulare il trattato.
Mandate la regolare autorizzazione e faremo tutto.
— Non è questo solo che io desidero, e che il mio Re domanda. Che mi
dite del progetto di alleanza tra il regno d'Italia e l'impero
germanico nel caso che l'uno o l'altro o ambedue fossero attaccati
dalla Francia?
— Non ho visto ancora il Re e non è cosa di cui potrò scrivergli.
Bisogna parlargli e riceverne gli ordini a voce.
— Ma in Germania chi più potente di Bismarck? Se siete deciso, se
ritenete che quello che io propongo è utile ai due paesi, il Re non
ha motivo di esservi contrario.
— Io sono pronto a negoziare. Fatevi spedire il mandato e ci
metteremo d'accordo per la stipulazione del trattato.
— Su quali basi? Quali dovranno essere i principii regolatori? E che
faremo per l'Austria?
— Vi dissi, che per la Francia son pronto a trattare: per l'Austria
no. La posizione nostra coi due paesi non è la stessa. Lo stato
attuale della Francia è incerto. Nella lotta tra Mac-Mahon e il
Parlamento non sappiamo chi riuscirà vincitore. Il General
Presidente, col suo proclama elettorale, si è molto compromesso e
non sappiamo se dalle prossime elezioni generali verrà una Camera
monarchica. Un Re non si potrà sostenere che con l'esercito, il
quale vorrà la rivincita....
— Ed io vi soggiungo che si appoggerà anche sul clero, il quale
vorrà la restaurazione del potere temporale del Papa.
— Nissuno di cotesti pericoli possiamo temere dall'Austria, ed a noi
conviene tenercela amica. Vado anche più in là: io non voglio neanco
presumere che possa divenirci nemica. Del resto, se essa cangerà
politica, il che non credo, avremo sempre tempo per intenderci.
— Limitiamoci dunque alla Francia.... Ma su quali basi dovrà essere
il nostro trattato?
— L'alleanza dovrà essere difensiva ed offensiva. Non perchè io
voglia la guerra, che farò tutto il possibile per evitare, ma per la
natura stessa delle cose.
Immaginate, per esempio, che i francesi raccolgano duecento mila
uomini a Lione. Lo scopo è manifesto. Dovremo noi attendere che ci
attacchino?
— Va bene. Riferirò al Re le vostre idee, e manderemo i regolari
mandati per la stipulazione dei due trattati.
— Pel trattato sulla reciprocità nello esercizio dei diritti civili
nei nostri paesi, i poteri potrete mandarli a di Launay, per
l'alleanza preferirei trattare con voi.
— Va bene. Di questo argomento parlerò a S. M. il Re e prenderò gli
ordini suoi.
— Vidi Andrássy, e gli dissi che eravate stato da me, e che il
Governo italiano vuol vivere in una buona amicizia coll'Austria. Ne
fu lieto e mi incaricò di salutarvi.
Ragionando, gli riferii che l'Italia non vorrebbe che l'Austria si
prendesse la Bosnia e l'Erzegovina.
— Gli affari russi vanno male, e quest'anno la campagna è finita.
L'Austria non ha intenzione alcuna di muoversi.
Fareste bene di vedere Andrássy. Troverete in lui un buonissimo
amico.
— Permettetemi, Altezza, che or v'intrattenga di un argomento il
quale è di vitale interesse per l'Italia.
Pio IX è avanzato negli anni e non tarderà quindi a partire da
questo mondo. Avremo forse presto un conclave per la nomina del
successore. È vero, che voi, Governo protestante, non siete nella
posizione dei governi cattolici per preoccuparvi della futura
elezione del romano pontefice, ma nella Germania avete popolazioni
cattoliche e clero cattolico e non potete disinteressarvi di quello
che avverrà nel Vaticano.
— A me importa poco chi possa essere il successore di Pio IX. Un
Papa liberale sarebbe forse peggiore di un reazionario. Il vizio è
nell'istituzione, e l'uomo, chiunque esso sia, qualunque siano le
sue opinioni e le sue tendenze, poco o nulla potrà influire
nell'azione della Santa Sede. In Vaticano quella che domina è la
Curia.
— Purtroppo è così, e voi avete dovuto farne la prova nella acerba
lotta che avete durato dal 1870 in poi col clero cattolico. Noi
italiani ve ne siamo grati.
— Ma io non posso parimenti esser grato al Governo italiano.
Voi avete messo il Papa nella bambagia, e nissuno lo può colpire.[9]
Sin dal marzo 1875 noi avevamo richiamato l'attenzione del governo
italiano sui pericoli che contiene, per le altre Potenze, la legge
sulle guarentigie della Santa Sede.
[9] La frase del Principe fu precisamente questa: «Vous l'avez
emboité dans le coton, et personne peut l'atteindre».
La questione è rimasta aperta.
— Come saprete, io combattei quella legge quando fu discussa in
Parlamento.
Dopo lo scambio d'idee di minor importanza, ci siamo congedati con
un arrivederci.
_24 settembre._ — Alle 8 pranzo a Potsdam — Il fidanzato della
principessa Carlotta — Le fortificazioni di Roma — Principe di
Sassonia-Meiningen.
_25 settembre._ — Pranzo da di Launay — Prima al Municipio.
«Berlino, 25 settembre 1877.
A S. M. IL RE D'ITALIA.
_Sire!_
In esplicazione del mio telegramma del 10 corrente e di quello
d'oggi, sento il dovere di rassegnarle come io abbia adempiuto
presso S. A. il principe di Bismarck alla missione affidatami da V.
M. d'accordo col Presidente del Consiglio dei Ministri.
I temi della missione, i quali furono oggetto dei colloqui avuti il
17 a Gastein ed il 24 a Berlino erano questi:
Alleanza eventuale con la Germania nel caso di una guerra con la
Francia o con l'Austria.
Accordi nella soluzione delle varie questioni che potran sorgere in
conseguenza della guerra turco-russa in Oriente.
Parificazione dei tedeschi e degli italiani nell'esercizio dei
diritti civili in ciascuno dei due Stati.
Il Principe fu assolutamente negativo per un trattato contro
l'Austria. Lo accolse volentieri contro la Francia, quantunque
esprimesse la speranza che quest'ultima Potenza saprà tenersi
tranquilla e non vorrà rompere la pace europea.
Anch'io dichiarai che noi nutrivamo cotesta speranza; ma feci
riflettere — ed il Principe fu del medesimo avviso — che in caso di
un trionfo, nelle prossime elezioni politiche, del partito
reazionario, e della possibile caduta della repubblica, il governo
il quale gli succederebbe avrebbe bisogno di ricorrere alla guerra
per rifarsi delle sconfitte del 1870, e per avere autorità nel suo
paese.
In quanto al contegno dell'Austria verso di noi, il Principe se ne
disse dolente ed espresse il desiderio che fra i due governi si
potesse stabilire un accordo cordiale.
Avendogli intanto fatto osservare, che se dopo il 1866 l'Austria ha
bisogno di pace, essa non potrà dimenticare i danni patiti e
sentirà, in un avvenire più o meno lontano, la necessità di
riprendere la sua posizione in Germania, Sua Altezza rispose voler
credere che ciò non avvenga. Una sola ragione vi potrebbe essere di
dissidio tra i due imperi, e sarebbe quella in cui l'Austria volesse
incoraggiare col suo contegno un movimento in Polonia. L'Austria —
disse il Principe — solletica le ambizioni della nobiltà polacca.
Nulladimeno — soggiunse — le cose non sono al punto da suscitar
pericoli. Lasciatemi aver fede in quel governo. Se venisse il giorno
che le mie previsioni fosser deluse, avremmo sempre tempo per
intenderci, e potremmo allora stipulare un'alleanza.
La mia convinzione è che il Principe vuol tenersi stretto
all'Austria, e parmi poter dedurre dalle sue parole che egli intenda
esser d'accordo col gabinetto di Vienna, e vorrebbe che anche noi lo
seguissimo in cotesta politica. La lontana ipotesi di una rottura
fra i due imperi non mi parve conturbare l'animo di S. A. In quanto
all'Italia mi dichiarò francamente che se Essa rompesse con
l'Austria se ne dorrebbe, ma egli non farebbe la guerra per questo.
Sulle cose d'Oriente il Principe dichiarò che la Germania è
disinteressata e che, in conseguenza, S. A. accetterebbe qualunque
soluzione, la quale non turbasse la pace europea.
Immantinenti risposi, che l'Italia non potrà dirsi disinteressata
anch'essa. Parlai allora delle voci in corso di mutamenti
territoriali e delle proposte russe di far prendere all'Austria la
Bosnia e l'Erzegovina onde averla amica.
Sul proposito ricordai le condizioni in cui ci troviamo dopo il
trattato di pace del 1866 e come ogni aumento di territorio pel
vicino impero sarebbe al nostro paese di danno. Le nostre frontiere,
io dissi, sono aperte ad oriente, e se l'Austria si rinforzasse
nell'Adriatico noi saremmo stretti come da una tenaglia e non
saremmo punto sicuri.
Soggiunsi: «Voi dovreste aiutarci in questa occasione. Noi siamo
fedeli ai trattati e nulla vogliamo dagli altri. Voi dovreste domani
dissuadere il conte Andrássy da ogni desiderio di conquiste nel
territorio ottomano».
Il Principe rispose ch'egli non voleva discorrere con Andrássy di
tutto ciò, cotesti argomenti potendo essere dispiacevoli al Gran
Cancelliere austriaco. Crede però che un accordo sarebbe possibile e
propone, nel caso in cui l'Austria avesse la Bosnia e l'Erzegovina,
che l'Italia si prendesse l'Albania, od altra terra turca
sull'Adriatico.
Nel colloquio di ieri avendo discorso nuovamente delle varie materie
trattate a Gastein, il Principe, mentre ero per congedarmi, mi
dichiarò ch'egli aveva parlato col Cancelliere austriaco della
nostra opposizione a che l'Austria prendesse la Bosnia e
l'Erzegovina. E soggiunse: «Andate a Vienna. Son sicuro che potrete
intendervi col conte Andrássy».
Un viaggio a Vienna è necessario per conoscere meglio le intenzioni
dell'Andrássy sul problema orientale e per vedere se un accordo con
l'Austria sarebbe possibile. Lo farò dopo essere stato a Londra,
dove andrò domani, siccome ho già telegrafato a V. M.
Sulla parificazione dei tedeschi e degli italiani in ciascuno dei
due Stati, nello esercizio dei diritti civili, il Principe non fece
alcuna obbiezione, anzi l'accolse di buon animo. Il Principe mi
parlò di un trattato che la Germania ha con la Svizzera, credo per i
cittadini di Neuchâtel, e vorrebbe che lo prendessimo a base di
quello che dovrebbe essere stipulato tra l'impero di Germania e il
regno d'Italia.
Pel trattato eventuale di alleanza contro la Francia il Principe mi
disse che avrebbe preso gli ordini dall'Imperatore. Per quello
speciale per l'esercizio dei diritti civili, desidera che sia fatto
presto, ed in conseguenza che se ne diano da V. M. i poteri al conte
di Launay.
Altri argomenti di minore importanza furono discussi il 17 e il 24
corrente, ma tralascio di parlarne perchè dovrei estender molto i
limiti di questa lettera. Ne farò una speciale esposizione a V. M.
al mio ritorno in Italia in quella udienza che la M. V. si degnerà
di accordarmi.
Sempre agli ordini di V. M., mi ripeto con tutta devozione e con
affettuoso rispetto, etc.»
_26 settembre._ — Visita di congedo al segretario di Stato Friedberg
e al ministro di Bülow.
_27 settembre._ — Prima di lasciare Berlino invio il seguente
telegramma:
«A S. M. L'IMPERATORE GUGLIELMO.
Baden-Baden.
Essendo sul punto di dire addio alla Germania, sento il vivo
rincrescimento di non aver potuto ossequiare personalmente Vostra
Maestà, e l'obbligo di ringraziare vivamente la M. V. come capo
supremo della grande nazione per le prove di simpatia date
all'Italia dal nobile popolo tedesco.
FRANCESCO CRISPI.»
Parto da Berlino alle 10.45 di sera dalla stazione di Potsdam.
A Potsdam il sonno mi coglie malgrado il freddo intenso.
_27 settembre._ — Mi risveglio a Kreiensen.
Alle 5 pom. siamo ad Ostenda; alle 8 ½ c'imbarchiamo per
l'Inghilterra.
_28 settembre._ — Giungo alla stazione di Connon-Street alle 4 del
mattino.
Il marchese Menabrea — Alla ricerca di Stansfeld — Presentazione
all'Athenaeum Club — Carte da visita allo Speaker, al lord
Chancellor, al lord Chief-Justice, a lord Beaconsfield, a lord
Derby.
«Roma, 26 7.bre 1877.
_Caro Crispi_,
La mia salute s'è guastata a Stradella. Era uno de' soliti attacchi
artritici che fu da me trascurato e mal curato dal medico. Costretto
a recarmi a Roma ove la mia presenza era necessaria, ho inasprito il
mio male colla fatica del viaggio, e a Roma l'attacco artritico si
estese ai visceri. La malattia era nojosa e minacciava d'essere
lunga quantunque non fosse grave. Vinse, però, la mia buona natura e
mediante purganti e senapismi il male si è mitigato. Non posso
ancora reggermi in piedi, ma è affare di qualche giorno. Fra tre o
quattro giorni sarò intieramente libero considerandomi adesso in
piena convalescenza.
Il tuo viaggio avrà questo notevole risultato: la diplomazia ha
cominciato a conoscerci, a renderci giustizia, a trattare
apertamente con noi. Fummo lungamente cospiratori per l'unità del
nostro paese, siamo stati rispettati come deputati di parte
liberale, ora otterremo di essere apprezzati come uomini di governo.
Quando sarai qui c'intenderemo per rendere fruttuoso e sicuro il
risultato della tua missione.
Ora eccoti alcune notizie che è bene tu sappia per regolare l'epoca
del tuo ritorno a Roma.
E prima delle cose interne.
Zanardelli aveva offerto le sue dimissioni perchè gli avevo
telegrafato che il ritardo nella stipulazione delle convenzioni era
una calamità. Risposi con moderazione ed ottenni il suo assenso a
proseguire i negoziati. Spero dunque ancora di conchiudere senza
attraversare una crisi.
Da Mancini spero poco perchè non spero che la sua salute si
ripristini completamente. Sarà uno dei nostri più grossi fastidj.
Ma vi è un altro guajo.
Venne a Roma Cialdini e si mostrò molto malcontento di Mezzacapo per
le giubilazioni nell'esercito, e di Nicotera pei settanta
commendatori, e parlò della sua dimissione non immediata, ma fra
breve. La dimissione di Cialdini ci farebbe molto male ed è perciò
che se ritornando in Italia passi da Parigi faresti bene a vederlo
ed a persuaderlo di non toglierci il suo appoggio. Egli mi disse di
averti parlato e che tu gli hai detto che un allargamento dei quadri
sarebbe stato accettato dalla Camera. Io non so se la cosa sarebbe
passata facilmente, e non voglio sostenere che nelle disposizioni
date da Mezzacapo non ce ne siano di sbagliate, ma il certo si è che
qualche cosa bisognava fare, e che adesso bisogna ad ogni costo
impedire che il generale Cialdini si dimetta. Sai che il partito ha
accolto bene i provvedimenti di Mezzacapo e che un atto ostile
contro di lui ferirebbe e partito e ministero e forse aprirebbe una
breccia per la quale potrebbero entrare i nostri avversarii
politici.
Venendo alle cose estere, è bene che sappi che di Launay ha scritto
a Melegari della tua visita a [Bismarck][10] e fece notare le parole
che [Bismarck] disse ad [Andrássy]. Quelle parole sono però
diventate per noi un programma, all'attuazione del quale è d'uopo
adoperarci. Purtroppo non conosciamo la risposta di [Andrássy] e
certo a [Vienna] le nostre esigenze incontreranno opposizioni
vivissime; ci vorrà da parte nostra molta abilità, molta fermezza,
ed anche un po' di fortuna per riuscire.
[10] Le parole entro parentesi sono cifrate nell'originale.
_(N. d. C.)_
Le osservazioni che a questo proposito tu hai fatte a [Bismarck]
bisognerà che le faccia con prudenza a [Derby]. Colla [Inghilterra]
noi abbiamo molti interessi comuni, nessun interesse contrario.
Vivissimo è il nostro desiderio di mantenerci con essa in perfetto
accordo. E questo è anche il nostro interesse, poichè quando fossimo
involti in una guerra l'amicizia del [Inghilterra] è la sicurezza
delle nostre [piazze], cioè delle nostre grandi città.
Tu parlando con gli uomini di Stato [Inglesi] potrai toccare un
argomento delicato e che non devesi sviluppare se non si presenta
occasione propizia e sempre adoperando molta prudenza.
In questi ultimi tempi fummo male giudicati da una parte della
stampa inglese. Vi fu chi sospettò un'alleanza dell'Italia con
l'Austria, alleanza che non ha mai esistito nel pensiero di nessuno.
Ultimamente il _Foreign Office_ pubblicò un manifesto sui passaporti
che i sudditi inglesi erano invitati a ritirare quando volessero
recarsi in Italia. Quell'annunzio era un'offesa immeritata
all'Italia e al suo Governo che sempre ha accolto, ed accoglierà
sempre i sudditi britannici colla più grande simpatia. E non siamo
noi gli avversarj del papato, che è il più antico nemico
dell'Inghilterra? — Ora, molti credono in Italia che questi umori
dipendono in gran parte da una sola persona. Noi non godiamo le
simpatie dell'attuale Ambasciatore britannico a Roma, che è un amico
intimo dei nostri avversarj politici.
Su questo punto, ed anche perchè ne dica una parola al nostro
Ambasciatore, io mi rimetto alla tua prudenza.
Io ti sarò molto grato se vorrai telegrafarmi da Londra quello che
vi si pensa sul risultato delle prossime elezioni in Francia. Questi
pronostici mi saranno utili anche dal punto di vista finanziario.
E ti prego ancora di telegrafarmi il tuo itinerario per mia norma, e
il giorno in cui speri di poterti trovare a Roma. La situazione
parlamentare io la spero buona perchè la situazione delle finanze è
buona: ma questo non è che un lato del problema che dobbiamo
risolvere, e per consolidare al potere il partito liberale occorre
ancora studio e lavoro non poco e fatica molta.
Credimi sempre
l'aff.mo tuo
A. DEPRETIS.
_P.S._ Telegrafa la ricevuta di questa per mia quiete.»
«Londra R 1 / 10
dº dº
_(Telegramma)._
Ho tua lettera.
Telegraferò mio ritorno, dopo che avrò visto Derby.
CRISPI.»
«Londra, 3 ottobre 1877.
_Caro Depretis_,
Ebbi ieri la tua lettera.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Vedrò Cialdini al mio passaggio da Parigi, e se affretterò il mio
ritorno tenterò di vederlo in Italia.
Parlammo con lui dell'esercito e della difesa del paese.
Non si mostrò contento delle disposizioni date da Mezzacapo. Ma
venendo ai particolari convenne che molti dei giubilati erano ferri
vecchi, e che quei messi in disponibilità o trascurati potrebbero
alla prima occasione essere rimessi onorevolmente a posto.
In verità, al Ministero della Guerra si fu poco rispettosi degli
elementi che venivano dalla rivoluzione, mentre si usarono tutti i
riguardi a coloro che fino al 1860 furono nemici nostri. Che ti pare
di Pianell, il quale comanda Verona, alle porte d'Italia, a pochi
passi dal Tirolo? Ed aggiungi, che è una fortezza, cotesta, che
avrebbe dovuto esser distrutta, e che gli austriaci ambiscono, che
riprenderebbero alla prima occasione, e che facilmente muterebbero a
nostra offesa. In Germania mi dicevano che non si è voluto
atterrarla per non dispiacere al Pianell.
Comunque sia, coteste son cose che accomoderemo.
Cialdini se ne persuaderà ed io metterò tutta l'opera mia, perchè
egli non proceda ad un atto che sarebbe interpretato a nostro danno.
Io non poteva nascondere a di Launay ch'ero stato con Bismarck.
Siccome ti telegrafai, tenni a lui solamente segrete le trattative
per l'alleanza contro la Francia. Egli però mi portò sempre a
leggere le lettere ed i telegrammi, prima che fossero spediti. E
voglio credere che tu li abbia letti tutti.
Bisogna assolutamente andare a Vienna e vedere Andrássy. Colà il
partito militare è deciso, appena glie se ne offrirà l'occasione, di
occupare la Bosnia.
Il Governo germanico non si oppone, ma non ha dichiarato che lo
permetta. Anche qui non erano contrarii, a quanto me ne dice
Menabrea, ma quando seppero che noi non potevamo permetterlo senza
compenso territoriale alle Alpi, finirono per darci ragione.
In tale stato di cose un linguaggio franco e risoluto, una
dichiarazione che li assicuri del nostro consenso e del nostro aiuto
a condizioni nettamente determinate, ci dovrà giovare, e non potrà
nuocere.
Io mi sento la potenza di farlo cotesto discorso e se tu consenti
prenderò la via di Vienna. Se pensi altrimenti farò subito ritorno
in Italia. Su questo attendo un tuo cenno col telegrafo, all'arrivo
della presente.
Disraeli è malato. Derby è a Liverpool ed attendo un suo avviso per
sapere il giorno in cui ci potremo vedere. Farò a lui le
osservazioni opportune sull'argomento di cui più innanzi ti ho
intrattenuto, e non dubito della favorevole di lui risposta. Mi
verrà agevole discorrere di tutto ciò, dopo che so ch'egli è ben
disposto.
La stampa inglese non ci è stata amica, e ne siete colpa un po' voi,
perchè non l'avete curata e l'avete lasciata in balìa dei moderati.
Ed in questo paese i giornali sono potentissimi, e bisogna saperne
far conto. E vedi in proposito di ciò qualche cosa che mi riguarda.
Ieri il Times pubblicò un telegramma del suo corrispondente romano,
nel quale si dice che il mondo officiale e diplomatico di costà è
male impressionato dei miei discorsi in Berlino e del mio telegramma
all'imperatore Guglielmo. Cotesto è un eco di alcune parole
dell'_Opinione_ del 29, che i vostri giornali lasciarono passare.
I miei discorsi a Berlino furono costituzionalissimi e corretti.
Nelle alte sfere ne furono contentissimi e me n'espressero la loro
approvazione.
Del mio telegramma all'Imperatore ne parlai al ministro Bülow ed al
barone Holstein, e non solo nulla mi osservarono sulla forma, ma si
compiacquero che io abbia fatto risalire all'Imperatore il merito
delle dimostrazioni fatte a me ed all'Italia dalla rappresentanza
del popolo tedesco.
Ed aggiungi che questa volta anche l'etichetta di Corte fu messa da
parte. Appena la Principessa Imperiale mi seppe a Berlino, mandò
persona sua per manifestarmi il desiderio di una mia visita. E
siccome l'Imperatore ed il Principe erano al campo delle manovre,
essa tenne per me un pranzo alla residenza di Potsdam. A me
personalmente tutto ciò poco importa, ma io ne son lieto pel mio
paese e pel mio partito.
Farò al _Foreign Office_ le tue dichiarazioni, e vedrò anche
d'interessarne Menabrea, perchè possa anche lui togliere la cattiva
impressione prodotta per l'affare dei passaporti. Non trascurerò
cotesto argomento quando vedrò il conte Derby.
Avrai le notizie che mi chiedi sulle elezioni generali di Francia. E
saprai il mio itinerario appena mi avrai telegrafato alla ricezione
di questa mia.
Godo che lo stato delle finanze sia buono. Con la buona finanza
potremo fare delle grandi cose. Pel resto, lascia a me la cura. Alla
Camera tutto procederà in regola.
Ed ora lascia che ti stringa cordialmente la mano.
L'aff.mo tuo
F. CRISPI.»
_4 ottobre._ — Visita a Woolwich.
Telegrafo a Depretis: «Derby verrà domattina dalla campagna apposta
per ricevermi. Sabato vedrò Gladstone. Domenica partirò pel
Continente. Alla City ritengono sicuro il successo del partito
repubblicano nelle elezioni generali francesi; all'Ambasciata
francese non lo contrastano, ma credono che Mac-Mahon guadagnerà
voti e governerà col Centro Sinistro».
[Illustrazione: Autografo riprodotto fotograficamente: lettera di
Gladstone a Crispi.]
Howarden Castle
Chester
Oct 2. 77.
Dear Sir
I am truly sorry that a short visit paid by me to London last week
should have failed by a day or two to coincide with your stay there.
Sir James Lacaita assures me that you might not be indisposed to
take the trouble of visiting me here.
This I could hardly have been bold enough to ask; but if he is right
I shall deem it an honour and pleasure to see you on any day this
week. Our stations are Chester 7 miles off, Brompton Hall &
Queensferry each 2 ½ but with fewer opportunities. We dine at 8. You
would I hope be able to stay at least for a night or two if you
cannot be more liberal,
I remain dear Sir,
with high consideration
Faithfully yours
W Gladstone
S. E.
Il Cavaliere Crispi
I regret to have no company to offer you beyond members of my own
family during this week.
_5 ottobre._ — All'una colloquio con lord Derby. Il mio viaggio in
Germania — Convenzione per la reciprocità dei diritti civili — Mutue
simpatie — Francia e Germania: mutua diffidenza. Mi chiede
l'opinione di Bismarck: dico che non farà la guerra se non
trascinatovi — La Francia: alleati — Statu-quo territoriale —
Mutamenti nell'Oriente: appello alla giustizia delle Potenze. Derby:
«prendete l'Albania». — Nostra condizione rispetto all'Austria,
potenza finitima.
Telegrafo al re: «J'ai été avec le ministre des affaires étrangères.
Il a trouvé justes nos observations contre la occupation de la part
de l'Autriche d'une province ottomane et le cas échéant il en
tiendra compte. Il n'a pas fait aucune objection lorsque je lui ai
dit que dans ce cas nous aurions droit à prétendre une compensation
aux Alpes».
Telegrafo a Depretis: «Fui con Derby, soddisfatto della
conversazione con lui. Accetta trattare per articolo 3 Codice Civile
e terrà presenti nostre obiezioni circa evenienza ingrandimento
Austria nello Adriatico».
Alle 8 partenza per Chester.
_6 ottobre._ — Parto da Chester alle 9 ¾ e giungo ad Howarden-Castle
alle 10 ½. Coloro che non conoscono la Gran Brettagna restano
meravigliati vedendo queste campagne tutte popolate e tutte
coltivate.
Howarden-Castle è nella contea di Flint, nel paese di Galles, quasi
alla frontiera dell'Inghilterra, alla quale fu annessa sotto Arrigo
VIII.
La proprietà di Gladstone è proprio nel luogo in cui era il castello
di Eduardo I.
Il castello è su di una collina e domina tutta la pianura. In cima
al medesimo è issata la bandiera britannica a indicare la presenza
di Gladstone.
La casa, in cui questi abita, è a pochi passi dal parco. È di stile
gotico; fu costruita 60 anni addietro. Entrandovi si vedono libri da
per tutto.
Il signor Gladstone mi ricevette come un amico di antica data. Mi
espresse la contentezza di avermi con lui ed io gli manifestai la
soddisfazione di stringere la mano ad un fedele amico d'Italia. Mi
presentò la sua signora, gentilissima e cordiale donna, la quale,
sentendo che io aveva interesse a ripartire subito per Londra, ebbe
la cortesia di mostrarsene contrariata.
Il signore e la signora Gladstone desideravano che io rimanessi un
paio di giorni con loro.
Il signor Gladstone, cui pel primo dichiarai che non potevo restare
al di là di una giornata, esclamò: _ma io vedo un baule con voi_,
quasi per dirmi: «_non siete certo venuto per restare poche ore con
me_».
Cominciò subito la conversazione sulle cose del giorno e
specialmente sulla guerra d'Oriente e sulle sue conseguenze.
Il signor Gladstone fu d'avviso che i russi finiranno per vincere.
Egli dubita che vi possa essere una campagna d'inverno; ma non crede
che i turchi ne usciranno vincitori.
— Ai turchi toccherà come ai sudisti d'America — egli disse. — Fin
oggi hanno potuto resistere ed avere anche dei successi, perchè
meglio armati dei russi, ma il numero trionferà, un impero di 80
milioni avendo maggiori mezzi d'un impero di 26. È una disgrazia che
la questione orientale debba sciogliersi colle armi, ma non avvi
altro mezzo. Per la Russia oggi trattasi di vita o di morte.
Richiamai l'attenzione del signor Gladstone sul malumore, e direi
sulla malevolenza della stampa inglese per l'Italia.
— È difficile trovarne il motivo, perchè realmente non ce n'è.
Bisogna cercarlo nella russofobia, la quale è giunta a tal punto che
è proprio ridicola. Siccome l'Italia è amica della Germania e questa
è amica della Russia, si suppone che voi partecipiate alla stessa
amicizia. Ma anche questo sentimento non è nel popolo, è nella
classe alta. Ora la classe alta fra noi è alla coda ed il popolo è
alla testa. Fortunatamente non havvi più una questione italiana, nè
ce ne può essere; ma se sorgesse, voi vedreste tutto il paese
sollevarsi per voi.
— Io godo di quello che mi dite e non lo dimenticherò. Noi siamo
amici della Germania, perchè abbiamo interessi identici ed abbiamo
gli stessi nemici, ma non per questo abbiamo le relazioni politiche
e le amicizie della Germania. Anche con voi siamo amici per motivi
quasi identici.
Il colloquio si estese sul papato e sulla questione orientale, su
l'Austria e su la Francia.
— L'Italia è in condizioni tali da potere essere per voi un buon
alleato alla vece dell'Austria e della Francia, a cui non potete
ricorrere.
— Avete ragione, ma vi assicuro che nel popolo inglese tutte le
simpatie sono per voi e non dovete dare importanza a qualche
articolo di giornale, che è l'effetto della russofobia, e non
esprime il sentimento nazionale.
Viene la signora — Passeggiata al Castello — Camera — Merenda —
Passeggiata nel parco — La parrocchia.
Lord Derby debole, ma senza pregiudizii per lo straniero. In fondo è
liberale.
L'elezione dei parroci — Il papato — Il nuovo Papa — i candidati —
Il cardinale Simeoni — il cardinale Antonelli — Le sue figlie — Il
processo.
Il castello di Howarden fu assediato e distrutto dai parlamentarli
ai tempi di Carlo I.
La parrocchia di Howarden conta seimila abitanti — è del secolo XVI
— fu bruciata alcuni anni fa e non ne rimasero che le mura.
Il parroco vive con le decime.
Il pranzo — La partenza.
_7 ottobre._ — Ricevo il seguente telegramma dal Re: «Je vous
remercie de votre dépêche. Je vous souhaite que les espérances
ministerielles se réalisent. Je vous prie de me dire quand vous
serez de retour.
VITTORIO EMANUELE».
Rispondo: «Je serai de retour le 22 ou 24 courant. Je vais partir
pour Vienne où j'attends les ordres de V. M.».
_8 ottobre._ — Partenza da Londra alle 8 ½ pom.
_9 ottobre._ — Arrivo a Parigi alle 6 ½ del mattino — Gambetta.
_11 ottobre._ — Partenza da Parigi alle 9,20 del mattino.
_12 ottobre._ — Arrivo a Vienna alle 9 ½ di sera.
_13 ottobre._ — L'ambasciatore, generale Robilant, mi scrive di
mettersi a mia disposizione; alle 12.30 vado a visitarlo — M'informa
— Telegrafo a Depretis: «Ho tua lettera. Andrássy è in campagna.
Sarà a Pesth il 20. Qui posizione molto difficile. Scriverò
domattina. Fa' smentire notizia che io fui al discorso elettorale di
Gambetta».
_14 ottobre._ — Ricevo da Depretis il seguente telegramma: «Attendo
tua lettera. Intanto è necessario ti faccia conoscere che qui è
giunta raccomandazione vivissima del di Launay, affinchè a Vienna si
usi la più grande circospezione. Se ti riesce parlare con Andrássy,
procura di stare sulle generalità esprimendo la nostra simpatia, ma
restando nella maggiore riserva in ogni quistione che possa sorgere
fra i due Stati. Noi desideriamo nella questione orientale poter
procedere di accordo. Procura a questo titolo di affrettare tuo
ritorno qui. Le cose si fanno gravi e la tua presenza qui è
assolutamente necessaria».
Visita al ministro Glaser — Articolo 3.º del Codice Civile. —
Procedura — Questioni che vi si rannodano. Accordo per una
convenzione internazionale.
Visita al signor Or['c]zy — Articolo 3 — Trattato di commercio.
Visita a Schönbrunn.
«_Caro Crispi_,
Ti scrivo da Stradella ove ho potuto arrestarmi per alcune ore: non
ebbi in questi tre giorni un minuto di libertà. Dopo aver assistito
all'inaugurazione delle nuove ferrovie venete mi recai a Brescia, o
per dir meglio in una campagna nelle vicinanze di Brescia, per veder
Zanardelli: ebbi con lui un lungo colloquio, si mostrò decisamente
avverso all'esercizio governativo e parvemi disposto ad
assecondarmi. Io non gli tacqui la mia determinazione di non
presentarmi alla Camera che con le convenzioni stipulate: fra pochi
giorni Zanardelli, oramai guarito, verrà a Roma ed ivi la questione
sarà risolta, essendo io in grado di conchiudere da un giorno
all'altro. Bisognerà però che tu pure ti trovi a Roma giacchè se mai
nascesse dissenso fra me e Zanardelli la posizione diventerebbe
gravissima.
Venendo allo speciale argomento di questa mia lettera che ti ho
annunciata nel telegramma che ti ho inviato da Padova, non occorre
che ti preghi che a [Vienna] non bisogna parlare delle tue
[conferenze] con [Bismarck] ed usare la più grande [riserva]. Il
[partito] [cattolico] è a [Vienna] numeroso e potente e non mancherà
di stare attento ad ogni tuo passo e di pesare e raccogliere ogni
tua [parola] per divulgarla. La stampa dei nostri [avversarii] cerca
di spargere tutte le più [maligne] [supposizioni] e sarebbe felice
di trovare [nuovi] [pretesti].
Riguardo alla [conferenza] che avrai con [Andrássy] oltre l'art. 3
verrà certamente in discussione il [trattato] di [commercio] ed il
possibile [ingrandimento] dell'[Austria] coll'[annessione] della
[Bosnia].
Sul [trattato] di [commercio] basterà esprimere il nostro
[desiderio] di riprendere e [condurre] a [termine] i [negoziati]; se
non si può conchiudere con un [trattato] a lunga [durata] si veda
almeno di mettersi d'accordo sopra un modus vivendi o [trattato] a
breve [scadenza] ed in via di esperimento. Le basi del [trattato]
definitivo furono da noi indicate ad [Haymerle] in un memoriale
consegnatogli, nel quale abbiamo esposto che ad alcune dimande
fatteci nei precedenti [negoziati] per esempio l'abolizione del
dazio d'entrata in Italia sui [cereali] noi non possiamo consentire
per gravi ragioni di [finanza]. Procura però di persuadere
[Andrássy] che noi desideriamo vivamente di metterci d'accordo su
altri [punti] che interessano il [governo] d['Austria.]
Vedi poi di spiegare la [posizione] del nostro [governo] nella
questione della 9145 [?]
L'[Italia] ha bisogno di [pace] desidera conservare relazioni
[amichevoli] coi paesi vicini; le nostre [simpatie] sono per
[Andrássy] e pel suo [ministero] e pel [partito] liberale che lo
sostiene, siamo disposti a fare ogni [sforzo] per mantenere le
[buone relazioni] con lui, ma che non saremmo [capaci] di [dominare]
la [opinione] in [Italia] in faccia ad un [ingrandimento]
dell'[Austria] senza [compenso]. Questa è la verità. Quello poi che
avverrà in [Italia] è difficile prevedere, ma è evidente che il
[ministero] attuale non potrebbe restare al suo posto.
Converrà, mio caro Crispi, che tu usi molta [moderazione] di
linguaggio sia per un riguardo alla grande [suscettibilità] di
[Robilant] sia per non dar ragione al [partito] [cattolico e
militare] di destare [apprensione] che importa assaissimo di
evitare: le tue parole siano la [espressione] della franca tua
[opinione personale]. Quello che ti dirà [Andrássy] ci servirà di
norma.
Eccoti, mio caro Crispi, riassunta la mia maniera di vedere che ti
espongo per debito di coscienza e che forse reputerai [superflua] ma
tu devi essermi [indulgente] perchè sono ispirato dalla gravità
della situazione attuale e dal desiderio di nulla trascurare che
possa riuscire utile al nostro paese.
Credimi sempre
Tuo aff.mo
DEPRETIS.
Stradella 10 8bre 1877.»
«Vienna, 15 ottobre 1877.
_Caro Depretis,_
Siccome ti telegrafai la sera del 13, qui la posizione è molto
difficile. La stampa, gli uomini politici, il Ministero, la Corte,
tutti ci sono avversarii. Chi ci abbia creato queste antipatie non
te lo saprei dire: constato un fatto, il quale è della massima
importanza.
Robilant, il quale me ne ha fatto il ritratto, mi diceva che gli
austriaci ritengono noi causa di tutte le loro sventure. Noi
destammo lo spirito di nazionalità in queste contrade, e noi lo
teniam desto con le nostre pretese sull'Illiria e sul Trentino.
Senza di noi non sarebbe avvenuta la guerra del 1866, il cui
risultato fu di escludere l'Austria dalla Confederazione germanica.
Noi potremmo esser causa e dar principio allo sfasciamento
dell'Impero se insistiamo nel volere il territorio italiano che
l'impero possiede al di là delle Alpi.
Io non ho bisogno di rivelarti l'ingiustizia di cotesta accusa.
Quando si dà corso al sentimento d'interessi inopportuni, i giudizii
non possono esser sani.
Così stando le cose, il mio primo ufficio ha dovuto essere di
calmare le ire e di riconquistare all'Italia le simpatie dei
liberali austriaci.
Son venuti a visitarmi i redattori di vari giornali, tra cui il
proprietario della _Neue freie Presse_ e quello del _Tagblatt_, che
hanno la più estesa pubblicità qui e fuori. A tutti chiesi il motivo
pel quale han fatto da due anni la guerra al nostro Ministero.
Quello della _Presse_ mi rispose che il motivo era perchè il
Melegari non ha una politica chiara nella questione d'Oriente, anzi
dal suo contegno appare che noi parteggiamo per la Russia. Tutti
poi, dicendosi amici d'Italia e desiderosi di mantenere con noi
buoni ed amichevoli rapporti, han fatto comprendere che diffidano di
noi.
Per la questione orientale ho detto che noi siamo stati e siamo in
una perfetta neutralità, che non parteggiamo per alcuno dei
belligeranti, ma siamo dolenti della peggiorata condizione delle
popolazioni che si vorrebbero redimere. In quanto all'Austria ho
soggiunto che siamo suoi amici e che vogliamo mantenerci con essa
d'accordo in tutto ciò che possa giovare ai comuni interessi. Su
cotesto argomento ho voluto estendermi un poco, ed ho sostenuto la
tesi del necessario mantenimento e del consolidamento dell'Impero
dell'Austria, la quale noi riteniamo esser elemento di civiltà verso
l'Oriente.
Il proprietario della _Neue freie Presse_ mi promise che ci
ritornerebbe amico. Con quello del _Tagblatt_ ebbi poco da fare,
perchè venendo a trovarmi portò con sè un numero del suo giornale
con un articolo lusinghiero sul conto mio, quantunque storicamente
non sempre esatto.
Quando ieri sera mi giunse il tuo telegramma, io era stato dal
ministro di Giustizia e dal barone Or['c]zy, quest'ultimo il braccio
destro del conte Andrássy ed il suo rappresentante al Ministero
degli Affari esteri. Quasi indovinando il tuo pensiero mi ero
condotto con loro siccome desideravi. Il Robilant, che fu presente
alla mia conversazione col sig. Or['c]zy, non potè fare a meno di
esprimermi la sua completa approvazione.
Il conte Andrássy è nelle sue terre di Ungheria. Alcuni dicono che
aveva prorogato di 24 ore la sua partenza, aspettando il mio arrivo;
altri, al contrario, che aveva anticipato la partenza per evitarmi.
Il conte Robilant è di avviso che nessuna delle due versioni sia
esatta.
Il conte Andrássy sarà a Pesth dopo il 17, ed io andando in quella
città facilmente potrò vederlo. Avendo annunziato il mio divisamento
di fare cotesto viaggio ed avendone scritto ad amici di colà, i
quali me ne avevan domandato, non posso cangiar di proposito senza
suscitar sospetti e dar pretesto a malevoli congetture. Ti assicuro
però che il mio contegno sarà riservato e che non comprometterò
punto la nostra politica.
Immediatamente dopo la gita a Pesth ritornerò in Italia.
Niente altro che stringerti la mano.
Il tuo aff.mo
F. CRISPI.»
_15 ottobre._ — Visita del ministro Glaser. Si ritorna a discorrere
lungamente della convenzione pel godimento dei diritti civili nei
due Stati. Esecuzione dei giudicati. — Sequestro e questioni di
merito — Limiti — La deliberazione senza il contraddittorio.
Carta da visita al Presidente della Camera.
Alle 7 pom. all'_Opera_ con Robilant.
_16 ottobre._ — Il Presidente della Camera viene a visitarmi — Si
discorre della procedura parlamentare.
A mezzogiorno vado alla Camera. Il vice-presidente Vidulich,
istriano, m'accompagna. Sopraggiunge il Presidente.
Visita alle prigioni, alla Corte d'Assise e al Tribunale.
Alle 4 ½ pom. visita al ministro del Commercio.
_17 ottobre._ — Viene il vice-presidente Vidulich — I comuni in
Austria — Sistema elettivo — Il Consiglio comunale — La deputazione
comunale e il podestà elettivo. Tre ordini di elettori secondo il
censo. Nei comuni con statuti proprii il podestà o borgomastro
proposto dal Consiglio Comunale ed approvato dall'Imperatore. Le
Diete provinciali — Potestà legislativa per l'amministrazione locale
— da essa dipende la circoscrizione territoriale.
_18 ottobre._ — Parto da Vienna alle 8 ½ ant. Arrivo a Pesth alle 5
½ pom.
_19 ottobre._ — Visita alle due Camere ungheresi e al Museo.
_20 ottobre._ — Alle 4.30 pom. visita a Buda al Presidente del
Consiglio ungherese, signor Tisza.
— V. E. ha fatto un lungo viaggio. Andrà in Oriente?
— No, non ho motivo di andarvi. Vienna e Pesth sono le ultime tappe
del mio viaggio. Avevo così stabilito partendo dal mio paese.
Prima tesi: Convenzione internazionale pel godimento dei diritti
civili degli austro-ungheresi in Italia, e degli italiani in
Austria-Ungheria. In principio non rifiuta, ma senza affermarsi su
alcuna delle questioni che vi si riferiscono.
Seconda tesi: Trattato di commercio. Prorogando l'attuale si
vorrebbero delle facilitazioni per i vini ungheresi. Avendo io
osservato che iniziandosi una discussione, la proroga potrebbe non
approdare, Tisza dichiara di voler questa brevissima.
Terza tesi: Accordo tra i due paesi. Risposta: non tutti la pensano
come voi nel vostro paese. Osservo che il paese è rappresentato dal
Parlamento e dal Governo. Il Parlamento è interprete legale della
pubblica opinione. Serietà del regime costituzionale. Tutto in
Italia si tratta alla luce del sole: questioni militari e
internazionali. Potremo essere attaccati, non attaccheremo mai — I
tre imperatori — Questione Orientale — Al 1854 il Piemonte profuse
sangue e danari.
— Non fu una cattiva politica.
— Poichè lo riconoscete, dovete comprendere che non ce ne
allontaneremo. Del resto, non fu tale quella dell'Austria.
Dichiarazioni di simpatia per l'Italia.
Mi congedo alle 5 meno un quarto.
Il Tisza sembra un presbiteriano. Ha un viso impassibile. Grandi
lenti gli nascondono gli occhi. Non discute, sentenzia. Delle
questioni di diritto civile si comprende che capisce poco o nulla.
Vorrebbe un trattato internazionale europeo. Buono, se fosse
possibile; ma è posto innanzi perchè non si concluda nulla.
Alle 5 ricevo la visita del ministro di Giustizia e del suo
sottosegretario di Stato. Il Ministro mi dice:
«Nous ne voulions pas que vous quittiez Pesth sans que vous reste
une bonne impression de nous».
Pranzo dal Presidente Ghyczy; v'intervengono deputati dei varii
partiti e varii ex-ministri: Szlávy (Jórsef) già ministro-presidente
— Gorosc, già ministro del Commercio, ora presidente del Club della
Destra — Simonyi, già ministro del Commercio — Szapáry, già ministro
dell'Interno — Bittò (István), già ministro-presidente — Eber,
deputato — Wahermann Mór, deputato — Csernátory, deputato e
direttore dell'_Ellenor_ — Falk, deputato e direttore del _Pester
Lloyd_ — Zsedénzi, presidente della Commissione di Finanza —
Pulszky, direttore del Museo — Kállay Beni, deputato di estrema
destra — Hélfy Ignáez, deputato di estrema sinistra, ecc.
Telegrafo al Re: «Conto essere a Torino il 24. Prego V. M. di
volermi telegrafare il giorno e il luogo dove potrò vederla. Agli
ordini di V. M., ecc.».
Visita ad Andrássy alle 12 e mezza.
Questione dei diritti civili — Trattato di commercio.
— Non mi sono allarmato del vostro viaggio a Gastein ed ho lasciato
dire ai giornali.
— Non avreste avuto ragione di allarmarvene perchè il principe di
Bismarck ve ne parlò e vi disse quali erano le mie idee. Nulla dissi
di cui potreste lagnarvi.
Mi parla della sua politica con l'Italia — Ultramontanismo — vecchie
opinioni — non sono nell'interesse dell'Austria-Ungheria. Se fosse
stato italiano, avrebbe fatto lo stesso. Necessità ora di tenersi
amici e di non turbare l'accordo con esigenze praticamente non
attuabili. Non crede ai giornali, convinto della nostra buona
volontà. Soggiunge:
— Non sempre il principio di nazionalità è applicabile in tutti i
luoghi, nè è norma la lingua a stabilire la nazionalità; non si fa
la politica con la grammatica. La nazionalità è stabilita da varii
elementi: precede innanzi tutto la topografia, e seguono le
condizioni economiche che valgono ad alimentare la vita delle
popolazioni. Prendetevi Trieste, se pur noi ve la dessimo, e voi non
potreste starvi un giorno: sareste maledetti. Ho una nota su tale
argomento, che vi farei leggere se avessi qui, nella quale svolgo
questi concetti. E poi, bisogna parlar franco: volete altre terre?
Ditelo; è una politica che comprendo. È questione....
— Accordo nei principî. La lingua non è da sola argomento di
nazionalità, e se noi la prendessimo a norma dovremmo inimicarci
molti Stati e far la guerra. Ora, la nostra è politica di pace.
Vogliamo star bene coi vicini, stabilire accordi sulla base
degl'interessi e rispettare i trattati. — Non attaccheremo; ci
difenderemmo se fossimo attaccati. Fummo rivoluzionarli per fare
l'Italia; siamo conservatori per mantenerla. Voi solo potete
comprenderci, perchè anche voi foste rivoluzionario.
— Fui impiccato in effigie.[11]
[11] Il conte Giulio Andrássy per avere negli anni 1848-49 preso
parte alla rivoluzione dell'Ungheria, sua patria, fu condannato a
morte dai tribunali di guerra austriaci ed impiccato in effigie il
22 settembre 1851. _(N. d. C.)_
— Orbene, voi sapete che quando l'indipendenza e la libertà di un
paese furono acquistate con sacrificii, chi li ha fatti cotesti
sacrificii non può con audaci avventure mettere in pericolo i beni
raggiunti. — Fiume — ridicola imputazione; i porti sono sbocchi
necessarii al commercio; chi li ha, deve possedere il territorio
donde vengono i prodotti. Di Fiume che potremmo farcene?
L'opinione pubblica è interpretata dal Parlamento e dal Governo.
Avete da lagnarvi del loro contegno? È necessario che i due Stati
siano amici, e i governi d'accordo.
— Ho fatto sempre cotesta politica e nei sei anni che fui ministro,
e nei cinque dacchè son Cancelliere — Non mi curo dei giornali, nè
dei parlamenti — Sfido l'impopolarità, so quello che è necessario
nell'interesse dell'impero. Una politica di ostilità con voi è
contraria agl'interessi dell'Austria-Ungheria — Finchè sarò ministro
non me ne distaccherò.
— Concludiamo da tutto questo. Trattato di commercio, relazioni
civili.
— Adagio. La politica ha poco da fare con le relazioni commerciali.
Sviluppo di questa tesi — Esempio con la Germania.
— Penso anch'io così; ma guardiamo alle conseguenze. Non dico che il
trattato di commercio debba farsi ad occhi chiusi. Penso che
convenga cominciare a trattare per venire ad una conclusione. La
sospensione delle trattative farebbe cattiva impressione.
— Così va bene.
— Accordo sulla questione orientale?...
— Guerra russo-turca; come finirà. Questione di nazionalità anche
qui; come scioglierla. Autonomia dei bulgari: fin dove — ai Balcani.
E degli altri? Questo se vincono i russi — Ma se vince la Turchia?
Bisogna dunque attendere la fine della guerra.
— Ma giusto allora dobbiamo già esser d'accordo.
Denari e uomini spesi — Questione rinascente periodicamente —
necessità di scioglierla per sempre — Impossibile determinare il
come e se quello che convenga stabilire è lo _statu-quo_
territoriale.
— Ed anche su questo nulla può essere assoluto; bisogna attendere il
giorno in cui le Potenze si riuniranno a congresso.
— Va bene. Vorreste però dare un territorio alla Russia?
— Questo no, ma per ogni altro riordinamento bisogna rimettersi al
giorno opportuno.
— Benissimo. Anche su questo desideriamo esser d'accordo con voi.
Alle 3.30 da Helfy.
Ricevo questo telegramma, in risposta al mio di stamane:
«Je vous prie de venir loger à mon palais à Turin. Mercredi je vous
ferai dire heure que j'aurai le plaisir vous voir. Bien des amitiés.
VICTOR EMMANUEL.»
Alle 9.30 partenza per Vienna.
_22 ottobre._ — Arrivo a Vienna alle 6 del mattino. Alle 9 pom. sono
alla frontiera.
_23 ottobre._ — Alle 7 a Verona.
A Torino. Conferenza col Re.
«Napoli, 30 ottobre 1877.
_Caro Depretis_,
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Spero che non avremo la guerra, ma siccome non possiamo noi
arrestare il corso degli avvenimenti europei, ed abbiamo bisogno che
l'Europa ci ritenga essere abbastanza potenti da far valere la
nostra forza in caso di complicazioni in conseguenza della guerra
d'Oriente, è giuocoforza tenersi pronti ad entrare anche noi in
campagna. Su questo, amico mio, non ho parole per ripeterti che
l'Italia deve, con qualunque sacrifizio, compiere i suoi armamenti.
All'estero siamo considerati quale popolo prudente e savio, ma non
tutti ci credono forti abbastanza.
A me Andrássy non lo accennò, ma Robilant mi disse che ragionando
col Cancelliere austro-ungarico, questi in tutte le questioni
territoriali avrebbe sempre risposto che l'Impero era pronto a farle
decidere con le armi.
È quindi interesse di patria di tenerci in condizioni da poter dire
anche noi di poter ricorrere alle armi se tale debba essere la sorte
cui ci spinge l'avversario.
È il solo modo con cui potremo evitare la guerra.
Quando rifletto che fino dal 1870 io chiedeva al Ministero di destra
di armare la nazione in previsione di grandi avvenimenti, e che non
fui ascoltato, ne sento doppio dolore.
Ma oggi siamo noi al governo, e se qualche disgrazia avvenisse, i
nostri avversarii direbbero subito che non abbiamo saputo fare il
debito nostro. Mettiamoci dunque con ogni zelo all'opera, facendo
tutto ciò che possa essere necessario.
Prego di telegrafarmi, e ti assicuro che mi avrai sempre con te in
tutto ciò che possa fare il bene del nostro paese.
Spero che con Zanardelli finirai per metterti d'accordo.
Quella delle ferrovie è una quistione anche essa capitale, e che
bisogna in un modo qualunque risolver presto.
In caso di guerra bisogna aver riordinato le grandi linee di
comunicazione tra le varie parti d'Italia. Zanardelli è un gran
patriota e deve comprendere quale responsabilità pesi su lui. Non
deve passare il mese di dicembre senza essersi ricostituito questo
ramo di pubblico servizio. È impossibile lasciare più a lungo le
ferrovie dell'Alta Italia in potere della Südbahn. Quantunque il
Direttore sia di tua fiducia, esso è costretto ad ubbidire ad una
Società non amica. La quistione, a mio modo di vedere, non è
solamente finanziaria, ma eminentemente politica.
Se tu parlando col ministro dei Lavori pubblici, toccherai questa
corda, son sicuro che riuscirai.
Il tuo aff.mo
F. CRISPI.»
CAPITOLO SECONDO.
La politica estera dell'Italia dal 1878 alla Triplice Alleanza.
Il conte Corti respinge la proposta di accordi segreti con
l'Inghilterra alla vigilia del Congresso di Berlino. — Come
la Francia ottiene _carte blanche_ per Tunisi. — La
politica dell'isolamento. — Causa l'irredentismo l'Austria
minaccia di passare la frontiera. — La francofilia di
Benedetto Cairoli non evita l'occupazione francese della
Tunisia. — Storia documentata dell'impresa tunisina e del
disinteressamento dell'Inghilterra. — L'Italia avrebbe
allora potuto occupare la Tripolitania. — Disillusi della
Francia, ci rivolgiamo alla Germania. — Prodromi della
Triplice Alleanza. — Il conte Maffei. — Il trattato del 20
maggio 1882.
Il viaggio dell'on. Crispi se fu salutato con grande fervore in
Germania, insospettì il governo francese e la sua stampa, che videro
profilarsi sull'orizzonte un'alleanza italo-germanica. Il _Figaro_
faceva rilevare in un suo articolo “M. Crispi à Berlin„ le accoglienze
straordinarie fatte all'uomo di Stato italiano, le frasi più
significative dette dal presidente Bennigsen nel suo discorso al pranzo
parlamentare del 23 settembre; e tra le altre sottolineava quella che “i
due popoli — italiano e tedesco — avevano gli stessi nemici da
combattere„. Anche in Italia la stampa del partito moderato si propose
di togliere valore alle manifestazioni di Crispi; il quale, sebbene
presidente della Camera dei deputati, — scriveva la _Gazzetta d'Italia_
— non rappresentava che questa, cioè una impercettibile minoranza: “la
Camera è eletta da 300 mila elettori e gl'italiani sono 27 milioni!„ E
l'_Opinione_, il più autorevole giornale dei moderati, giungeva (3
ottobre) a rimproverare al governo italiano di mantenere buone relazioni
col gabinetto di Berlino “a spese della nostra dignità„! Del qual
giudizio si risentiva il buon ambasciatore di Launay, che scriveva a
Crispi: “Questa poi è troppo forte. Il rimprovero ricade in parte sul
rappresentante in Germania di questa politica.... Scrissi al Melegari di
fare ribattere con energia quelle accuse„.
In verità, l'on. Crispi in quella sua escursione attraverso l'Europa
aveva perorato efficacemente per i diritti d'Italia, ravvivato simpatie
e gettate le basi di una politica la quale, se fosse stata seguita con
diligenza e lealtà, avrebbe evitato al nostro paese i danni e le offese
che raccolse dappoi da ogni lato. Trovò la vecchia Austria ancora viva,
e arcigna; e comprese esser lontano il giorno di una amicizia
italo-austriaca sincera e duratura. Ma in Germania quello era il momento
per un'alleanza coll'Italia: l'opinione pubblica ben disposta e il
principe di Bismarck ancora senza altri impegni. Egli voleva procedere
d'accordo con l'Austria; ma ad un'alleanza con essa non pensò che dopo
il Congresso di Berlino per rispondere alle minacce dei panslavisti, e
non vi giunse che nel 1879, dopo molti sforzi per convincere
l'imperatore Guglielmo.[12] A prescindere da ogni altro vantaggio
morale, politico ed economico, l'alleanza italo-germanica ci avrebbe
garantito al Congresso di Berlino; non avrebbe impedito probabilmente
l'alleanza austro-germanica, ma l'Austria, non l'Italia, sarebbe entrata
terza nel sistema di alleanze della Germania, e avremmo evitato la
mortificazione che nel 1882 ci fu imposta di passare da Vienna per
giungere a Berlino; infine, la Francia non avrebbe avuto nel 1878 _carte
blanche_ per occupare Tunisi e non avrebbe osato infliggerci quella
umiliazione abusando del diritto del più forte.
[12] Cfr. _Les Mémoires de Bismarck_ recueillis par MAURICE BUSCH.
Tome second, Chapitre VII. Paris, librairie Charpentier et
Fasquelle.
Il Re e il Presidente del Consiglio convennero nel nuovo indirizzo a
darsi alla politica internazionale dell'Italia; il 29 dicembre 1877
l'on. Crispi entrava nel Ministero Depretis, come ministro dell'Interno.
Ma, sventuratamente, Vittorio Emanuele si ammalava di lì a pochi giorni,
e moriva il 9 gennaio. I funerali del primo re d'Italia, i primi atti
del re Umberto, poi la morte del papa Pio IX e il Conclave di Leone XIII
assorbirono l'attività ministeriale. Quando si avvicinava il momento di
rivolgere la mente agli accordi presi a Gastein col principe di
Bismarck, l'on. Crispi cadeva vittima di un turpe complotto, che, in
nome della morale, uomini di pochi scrupoli morali nella vita pubblica
come nella privata, architettarono con grande abilità trovando facile
credito nel pubblico politico, avido in tutti i tempi di scandali e di
esecuzioni. L'on. Crispi, il quale, toccando l'accusa intime sue
circostanze famigliari, si limitò a difendersi dinanzi al magistrato —
ottenendo da esso il riconoscimento della legalità della sua condotta —
dovette rinunziare con indicibile dolore a rendere alla patria i servigi
ch'era sicuro di poterle rendere.
E il cruccio per il male che i suoi nemici irrimediabilmente avevano
fatto più all'Italia che a lui, non lo abbandonò mai. Da un suo diario
del 1896, nel quale è riferito un colloquio avuto il 26 ottobre col
presidente del Senato, Domenico Farini, trascriviamo:
_(Crispi al suo interlocutore)_
— «Siccome sai, al 1878 fu stabilita la convocazione di un Congresso
a Berlino, e l'Italia dovette mandarvi il suo rappresentante.
Allora, come oggi, ero maltrattato dai miei avversarii. Gli attacchi
personali, però, non mi fecero dimenticare gl'interessi della patria
nostra. Vidi Bertani, e parlandogli del mio viaggio nei vari Stati
d'Europa, e della nostra situazione all'estero, lo pregai di veder
Cairoli e di consigliargli a leggere la mia corrispondenza
epistolare e telegrafica, e poscia di avere un colloquio con me.
Nelle cose internazionali non tutto si scrive, e però molto avrei
potuto aggiungere allo scritto. Lo crederesti? _Cairoli non volle
leggere la mia corrispondenza, nè avere un colloquio con me!_
Bertani, indignato, se ne partì, ed a Berlino invece di combattere
la proposta occupazione della Bosnia e della Erzegovina da parte
dell'Austria, la favorirono.»
Le dichiarazioni fatte nel colloquio del 5 ottobre da Crispi a lord
Derby in nome dell'Italia, furono seme gettato in terreno propizio. Non
supponendo il governo britannico che la politica estera in Italia fosse
mutevole come giuochi di fanciulli, nei primi giorni del marzo 1878 lord
Derby offriva uno scambio di idee sugli interessi comuni anglo-italiani
nel Mediterraneo. L'onorevole Depretis accettò con premura l'offerta,
tanto che il generale Menabrea, ambasciatore a Londra, gli telegrafava
il 9 marzo:
«Conformemente al telegramma di V. E. in data di ieri, ho
incominciato a intrattenere Derby su gli affari di Egitto, di
Tripoli e di Tunisi. Egli mi ha detto essere evidente che l'Italia e
l'Inghilterra avevano interessi comuni nel Mediterraneo, e che
desiderava su tale argomento uno scambio di idee, riservandosi di
riparlarne.»
Il 13 marzo Menabrea telegrafava nuovamente:
«... Derby mi ha ripetuto che desiderava intendersi con l'Italia
sulle questioni relative al Mediterraneo e che aveva incaricato
Paget [ambasciatore britannico a Roma] di fare su tale oggetto delle
aperture a V. E.»
Il 16 marzo il gen. Menabrea insisteva:
«... Il conte Derby sembra fare assegnamento sull'Italia per
difendere gli interessi comuni nel Mediterraneo e nel Mar Nero. Egli
mi disse di avere dato incarico a sir A. Paget di fare delle
aperture in quel senso all'E. V. stessa, come l'E. V. lo suggeriva
col suo telegramma dell'8 marzo corrente.»
Il ministero degli Affari Esteri taceva dal giorno 8. Depretis si era
dimesso il 9; la crisi ministeriale si chiuse il 24 con la nomina di
Benedetto Cairoli alla presidenza del Consiglio. Finalmente Roma
rispose. Il conte Corti, preso possesso dell'ufficio di Ministro degli
Affari Esteri il 26, due giorni dopo non esitava a respingere la mano
offertaci dall'Inghilterra, con la seguente incredibile lettera nella
quale, non si comprende perchè, limitava al mar Nero e agli Stretti il
campo degli accordi proposti anche per il Mediterraneo:
«Roma, 28 marzo 1878.
_Signor ambasciatore,_
È venuto oggi da me l'ambasciatore d'Inghilterra, e, per incarico
avutone dal suo governo, mi ha fatto la comunicazione che già V. E.
aveva annunciato.
In previsione dei mutamenti che la presente guerra può arrecare
nell'equilibrio di forze finora mantenutosi in ordine alle
comunicazioni tra il Mediterraneo e il Mar Nero, i governi più
immediatamente interessati in quelle acque dovrebbero, secondo il
pensiero del governo della Regina, essere concordi nel considerare
la preservazione, per tale rispetto, dei loro interessi commerciali
e politici, nel Mar Nero e negli Stretti, e, in conseguenza,
qualsiasi atto che miri a violare quegli interessi, siccome
questione di generale portata; e però di tempo in tempo, per quanto
la cosa riesca praticamente possibile, dovrebbero procedere ad
accordi circa le misure che fossero per essere necessarie per la
preservazione di quegli interessi.
Ho risposto a sir Augustus Paget che il governo del Re annette molto
pregio a tenersi col governo Britannico nelle più cordiali e intime
relazioni; che senza dubbio l'Inghilterra e l'Italia hanno, in
materia di commerci, degli interessi comuni per ciò che concerne il
regime degli Stretti e del Mar Nero; che saremo quindi sempre lieti
di ricevere e di prendere nella più seria considerazione le
comunicazioni e le avvertenze che il governo della Regina fosse per
farci pervenire in proposito; che, però, il governo di Sua Maestà
non stimerebbe di poter prendere, a tale riguardo, degli impegni che
possano condurlo ad una azione.
Della comunicazione fattami dall'ambasciatore britannico e della mia
risposta, mi giova pigliar nota in questo mio dispaccio destinato a
personale informazione dell'E. V. Gradisca ecc.
L. CORTI.»
Dinanzi alla inconsistenza della politica italiana, lord Derby — il
quale aveva probabilmente fatto assegnamento sull'Italia per la riuscita
del suo piano diplomatico, dove, secondo la promessa fatta all'on.
Crispi, era certamente la garanzia degli interessi italiani dinanzi al
ventilato ingrandimento dell'Austria, — dovette pensare molto male dei
“nipoti di Machiavelli„, e si affrettò a dimostrarsi zelante degli
interessi... austriaci. Tantocchè al Congresso riunitosi il 13 giugno di
quell'anno 1878 in Berlino, nella seduta del 28 giugno fu uno dei
plenipotenziarii inglesi, lord Salisbury, quello che “esaminata la
gravità delle condizioni della Bosnia e dell'Erzegovina, e
l'impossibilità nella Turchia di farvi fronte„, propose che “quelle
due provincie fossero occupate militarmente e amministrate
dall'Austria-Ungheria„.
E il principe di Bismarck — che forse aveva invano atteso chi gli
continuasse i discorsi fattigli in nome del Re d'Italia dall'on. Crispi
a Gastein e a Berlino — si affrettò ad associarsi, in nome della
Germania, alla proposta del marchese di Salisbury.
L'Italia era assente; e il conte Corti che la rappresentava al
Congresso, non seppe neppure tacere. Chiese al plenipotenziario
austriaco, Giulio Andrássy, “se era in grado di fornire sulla
combinazione proposta qualche ulteriore spiegazione dal punto di vista
dell'interesse generale dell'Europa„. E lo Andrássy non rispose alla
vana domanda, ma disse semplicemente “essere convinto che il punto di
vista europeo, che aveva ispirato il governo austro-ungarico, sarebbe
stato apprezzato dal gabinetto italiano, come era stato apprezzato dagli
altri gabinetti„.
Non mancò neppure l'adesione della Francia. Il primo plenipotenziario di
quella potenza, il signor Waddington, espresse l'opinione che “la
combinazione indicata dal gabinetto inglese era la sola che assicurasse
un'esistenza tranquilla alle popolazioni della Bosnia e della
Erzegovina, e che l'intervento dell'Austria-Ungheria dovesse
considerarsi come una misura di polizia europea„.
Quest'adesione non poteva mancare. Come l'Inghilterra ebbe l'isola di
Cipro — con una convenzione stipulata con la Turchia precedentemente al
Congresso (4 giugno) — la Germania cercò il suo vantaggio nel
salvaguardare gl'interessi della Russia e accaparrarsene la riconoscenza
— e l'Austria-Ungheria ebbe la Bosnia e l'Erzegovina, — così la Francia,
negli accordi del retroscena, ebbe concessa la facoltà di occupare la
Tunisia quando avesse voluto.
La concessione di questa facoltà — la quale spiega l'ambigua condotta
tenuta nella questione tunisina dal gabinetto inglese, dinanzi alle
rimostranze dell'Italia — è stata per molti anni affermata e negata. Ma
dubitare di essa non si può più.
Il Gambetta — lo scrisse il gen. Cialdini il 26 giugno 1880 — “rammentò
come all'indomani del trattato di Berlino la Francia fosse consigliata
dal principe di Bismarck, fosse spinta, eccitata da lord Beaconsfield, a
prendersi Tunisi, senza che la Germania e l'Inghilterra si
preoccupassero punto nè poco delle aspirazioni e delle convenienze
italiane„.
Il Waddington stesso ebbe cura di vantarsi di quella concessione, come
di un grande successo della sua carriera. Ciò è ben messo in luce nella
lettera che segue dell'ambasciatore Tornielli all'on. Crispi:
«Londra, 9 gennaio 1894.
Nella campagna elettorale che riuscì sfortunata per il sig.
Waddington, questi, giustificando l'operosità sua a prò della
Francia nel servizio diplomatico, addusse in una lettera pubblicata
nei giornali, fra gli altri titoli di merito, lo aver egli durante
il Congresso di Berlino e mediante una segreta stipulazione con
l'Inghilterra, ottenuto per la Francia «carte blanche» a Tunisi,
sicchè potè essere più tardi stabilito il protettorato francese
senza che occorresse alcun incidente europeo.
Mentre era al governo lord Salisbury, quando io, in obbedienza alle
insistenti istruzioni del R. governo, dovetti ripetutamente urtarmi
contro le evasive sue risposte alle nostre comunicazioni intese a
conseguire che il Gabinetto di Londra s'interessasse al par di noi
nella questione di Biserta, non mancai di riferire che, a parer mio,
questo ministro britannico che era stato plenipotenziario al
Congresso di Berlino, doveva essere trattenuto in questa questione
dai personali impegni colà presi appunto col sig. Waddington. Quelle
che erano supposizioni, suggerite dal singolare contegno di lord
Salisbury, divennero in me quasi una certezza durante un colloquio
avuto con lord Rosebery nel luglio 1893, quando incidentalmente S.
S. affermavami che l'occupazione della Tunisia per parte della
Francia era stata, tra questa e le altre potenze, regolata all'epoca
del Congresso di Berlino.
La lettera recente del sig. Waddington ai suoi elettori toglie di
mezzo ogni incertezza. Non è l'antico ambasciatore francese a Londra
persona tale da equivocare nell'uso di parole delle quali
perfettamente conosce il proprio significato ed il valore. Non ho
veduto il testo francese del suo scritto, ma ne ho sotto gli occhi
la versione inglese data dal _Times_: «Finally, by a secret
stipulation with England, I obtained _carte blanche_ for France in
Tunis, which later on permitted us to establish there our
protectorate without the occurrence of any european incident». Se il
sig. Waddington ha scritto che una stipulazione segreta ha avuto
luogo con l'Inghilterra, ciò vuol dire che un impegno scritto
esiste. E le ultime parole da lui adoperate indicherebbero che altre
Potenze dovrebbero averne avuta notizia senza muovere contro la
medesima alcuna obiezione. Questa interpretazione sarebbe conforme a
ciò che lord Rosebery ebbe a dirmi occasionalmente.»
È da notarsi che i plenipotenziarii italiani a Berlino ebbero un vago
sospetto di accordi altrui relativi alla Tunisia, stipulati o in via di
stipulazione. Infatti il 18 luglio 1878, cinque giorni dopo la firma del
trattato, l'ambasciatore di Launay telegrafava a Roma:
«Il serait prudent d'avoir l'œil ouvert à Paris relativement à
des combinaisons éventuelles se rattachant à Tunis.»
Questo avvertimento, trasmesso all'ambasciatore a Parigi, irritò questi,
ch'era il general Cialdini, il quale rispose il 18:
«En réponse à votre télégramme d'avant-hier soir concernant la
question de Tunis, j'envoie aujourd'hui à V. E. nouveau rapport
aussi rassurant que possible. Je prie de faire savoir à S. E.
l'ambassadeur de S. M. à Berlin qu'il serait prudent d'avoir
l'œil ouvert sur le prince de Bismarck relativement à des
combinaisons éventuelles se rattachant à la Hollande.»
L'ironia del gen. Cialdini era fuor di luogo, perchè la combinazione
relativa alla Tunisia era un fatto reale; ma non a Parigi bisognava
tener gli occhi aperti, siccome consigliava il di Launay: sarebbe stato,
invece, più opportuno averli tenuti aperti a Berlino.
Il conte di Launay, il quale, se non un'aquila, era un diplomatico
zelante, cercò di approfondire il mistero. Le informazioni, però, a lui
fornite dai suoi colleghi, glielo resero impenetrabile.
L'ambasciatore inglese, lord Odo Russell, gli disse che “le idee della
Francia per una presa di possesso della Tunisia, o almeno per un
protettorato, avevano fatto notevoli progressi, e che bisognava badare a
non lasciarsi sorprendere dagli avvenimenti„; il sig. Radowitz espresse
l'opinione che delle “insinuazioni„ fossero state fatte al sig.
Waddington, il quale aveva “_décliné d'entrer en pourparlers, même
académiques_„. Cosicchè, facendo delle ipotesi per non potersi fondare
sul sodo di notizie sicure, il di Launay argomentava che dal suo stesso
punto di vista l'Inghilterra doveva desiderare che l'Italia, a
preferenza della Francia, si rafforzasse nel Mediterraneo, e che
eziandio la Germania avrebbe preferito che la Tunisia cadesse in mani
italiane, anzichè in mani francesi. Quindi, niente paura. “È evidente —
concludeva — che noi non potremmo consentire che la Reggenza divenisse
provincia francese per essere all'occorrenza base d'operazione, sia ad
organizzare insurrezioni nel nostro territorio, sia per paralizzare, in
caso di guerra, i nostri movimenti nel Mediterraneo. La Francia ci
stringe di già abbastanza con la Savoia, Nizza, l'Alto Delfinato, la
Corsica, ecc., perchè possiamo consentire a farle prendere altre
posizioni strategiche a nostro danno„.
La politica seguita dall'on. Benedetto Cairoli — che fu presidente del
Consiglio quasi ininterrottamente dal marzo 1878 al maggio 1881 —
mantenne l'Italia nell'isolamento. Le simpatie del Cairoli volgevano
verso la Francia; ma mentre egli non otteneva ufficialmente che il
governo di quel paese tenesse in equa considerazione gl'interessi
italiani, mantenendo intelligenze e avendo quasi degli occulti
compromessi con le individualità più spiccate del partito repubblicano
_non al potere_, faceva gran conto di costoro, che facilmente, appunto
perchè senza responsabilità pubblica, largheggiavano in proteste di
amicizia. Di fronte all'Austria, egli, appartenente a famiglia lombarda
nobilissima per patriottismo, non seppe, salendo al ministero,
spogliarsi dei ricordi delle lotte passate e considerare l'ufficio con
la serenità fredda e obbiettiva dell'uomo di Stato. Non risulta che egli
facesse dell'irredentismo stando al governo; ma molti, i quali
pubblicamente gli si dicevano amici, erano irredentisti militanti, e il
complesso della sua azione accennava per lo meno a tolleranza verso le
agitazioni anti-austriache, mentre il partito costituzionale e la stampa
sua non reagivano con un vigore apprezzabile.
Quelle agitazioni, invero, fecero all'Italia molto male; e non erano
serie, sia che gli irredentisti pensassero alla possibilità di strappare
all'Austria le Provincie italiane con le armi in pugno, sia che
immaginassero di rivendicarle coi clamori. Ci fecero molto male anche
perchè popolarizzarono in Austria il concetto che la lotta
all'irredentismo italiano si identificava con la difesa dei principii
sui quali poggia la saldezza dell'Impero, e resero, quindi, più
difficile una futura consensuale rettifica delle frontiere, che ogni
patriota italiano deve desiderare.
Crispi pensò sempre che l'Italia avesse sommo interesse ad ottenere le
sue frontiere naturali; ma ritenne che incombesse alla diplomazia il
definire la questione, e che gl'irredentisti non ottenessero altro scopo
che quello di rinviare all'infinito tale definizione.
Fu denunziato più volte a Vienna e a Berlino che l'irredentismo in
Italia, come certe manifestazioni panslaviste in Russia, erano macchine
da guerra montate dal partito d'azione francese, — delle quali le
polizie austriaca e tedesca pretesero di aver sorpreso le fila, tese
specialmente nelle nostre loggie massoniche — allo scopo d'inimicare
l'Italia all'Austria e alla Germania, anche suscitando in Italia un
movimento repubblicano con tendenze irredentiste per paralizzare
l'Austria e renderne l'alleanza inutile alla Germania. Per una strana e
infelice coincidenza, quella denunziata propaganda in Italia del partito
d'azione francese si svolgeva mentre la politica della Consulta sembrava
considerasse l'Austria come una nemica naturale nostra e delle
subnazionalità del Danubio e dei Balcani. E le diffidenze del governo di
Vienna non poterono mancare. Esse dettero giorni molto amari alla
Consulta. In settembre 1879 il colonnello Haymerle, già addetto militare
all'ambasciata austriaca presso il Quirinale retta da suo fratello,
espose in un opuscolo intitolato «Italicae res» gli argomenti secondo i
quali, dal punto di vista austriaco, l'irredentismo era fondato
sull'errore e doveva avere l'Austria irremovibilmente avversa. Questa
pubblicazione suscitò polemiche senza fine. Poco dopo, nei primi del
1880, irritò grandemente l'Austria il fatto che ai funerali del generale
Avezzana, presidente dell'_Irredenta_, due ministri e un segretario
generale avevano retto i cordoni del feretro insieme al sig. Matteo
Imbriani, fanatico irredentista. Non soddisfatto delle spiegazioni date
dall'on. Cairoli, il governo austriaco assunse un'attitudine minacciosa.
Il 31 marzo il Comando del III Corpo d'Armata a Verona informava il
ministero di truppe raccolte alla frontiera sotto il comando
dell'arciduca Alberto; ve ne erano a Bezzecca, a Pieve di Ledro e a
Riva; l'arciduca era ad Arco col suo Stato Maggiore. Il 10 aprile
l'ambasciatore a Vienna, conte di Robilant, avvertiva che
l'avvicinamento delle truppe austriache nel Tirolo doveva considerarsi
come una minaccia.
Gl'incidenti sollevati ad ogni momento continuarono a tenere accesi gli
animi per tutto il 1880 e oltre. Il 14 aprile il deputato Cavallotti fu
espulso da Trieste; in giugno l'Austria disapprovava la conversione dei
beni del Collegio di _Propaganda Fide_, ritenendo questo come
un'associazione internazionale; in agosto si opponeva alla concessione
di decorazioni italiane a cittadini del Tirolo e di Trieste; in ottobre
protestava contro la deliberazione del Comitato dell'Esposizione
Nazionale di Milano pel 1881, di ammettere espositori delle provincie di
lingua italiana appartenenti all'Impero. E altri incidenti che non giova
ricordare si verificarono finchè l'on. Cairoli tenne la direzione del
Governo e della politica estera, cioè sino alla fine di maggio 1881.
L'on. Cairoli cadde dal potere in seguito al protettorato imposto dalla
Francia alla Tunisia; la sua inabilità, che poteva condurci ad una
guerra contro l'Austria, ci condusse, invece, ad un disastro morale e
politico nel campo ch'egli prediligeva.
La spinta data alla Francia a rivolgere la sua attività verso la
Tunisia, fu molto abile; fatalmente, il principe di Bismarck allontanava
dall'Europa lo spirito ambizioso dei francesi. I quali, nonostante
considerassero dapprima l'offerta come un inganno, e come un delitto il
distrarre energie e pensare ad altro che non fosse la rivendicazione
dell'Alsazia e della Lorena, si compiacquero poco alla volta di trovare
in Africa un compenso materiale e un temporaneo conforto morale alle
sconfitte subite; e forse qualcuno, chissà? pensò alle nuove forze che
la Francia avrebbe trovate nell'Africa da gettare un giorno sulla
bilancia dei destini d'Europa. In un rapporto del 18 luglio 1878,
l'ambasciatore Cialdini scriveva:
«Conviene riconoscere essere divenuto un dogma repubblicano (almeno
per ora) che la Francia non debba permettersi conquista od
annessione alcuna, prima di avere rivendicate e ricondotte alla
repubblica le perdute Provincie dell'Alsazia e della Lorena.»
Se la Francia avesse badato soltanto a non offendere le suscettibilità e
gl'interessi italiani, la Tunisia sarebbe ancora aperta alla libera
attività delle due nazioni. Ma alla Francia premevano sopratutto le
ragioni della sua efficenza internazionale e della sua potenza. Che
pretendeva l'Italia, isolata ed inerme? Che la Francia ansiosa di
dominio, vedendo la via libera da ostacoli materiali, si astenesse per
considerazioni di equità e di simpatia verso un giovine Stato sorto
inopportunamente, che si atteggiava a suo rivale? Questo potè pensarlo
chi della politica internazionale aveva un concetto puerile. Spettava al
governo italiano, il quale vide nascere il pericolo e potè seguire,
sulle diligenti informazioni del generale Cialdini, l'evoluzione
dell'opinione francese circa l'utilità di quell'impresa, di prevenirla,
di assicurare lo _statu quo_ del Mediterraneo mediante le alleanze alle
quali ricorse troppo tardi.
L'on. Cairoli non ha scusa poichè dal 1878 al 1881 fu tenuto esattamente
al corrente delle intenzioni del gabinetto francese rispetto a Tunisi.
In un primo periodo fu riconosciuto formalmente dalla Francia il diritto
dell'Italia a non essere chiusa nel suo mare, e il Cialdini riferiva il
19 agosto 1878 le seguenti dichiarazioni del signor Waddington, ministro
degli Affari esteri e di Gambetta:
«Che la questione di Tunisi non era mai stata posta sul tappeto e
che non se n'era nemmeno parlato a guisa di passeggera conversazione
nel Consiglio di ministri. Aggiunse che se in seguito alla posizione
fatta alle Potenze mediterranee dal Congresso di Berlino e
sovratutto dal trattato anglo-turco, sorgesse la necessità o la
convenienza di prendere qualche misura di precauzione nel bacino del
Mediterraneo a tutela degli interessi francesi, non si farebbe
nulla, assolutamente nulla, senza previo e completo accordo con
l'Italia. Aggiunse che a parer suo, si perde sovente in profondità
ed in forza ciò che si guadagna in estensione e superficie; che
Algeri è un inciampo, un peso, una debolezza per la Francia; quindi
essere egli personalmente contrario all'acquisto di Tunisi.
Pur tuttavia — seguitò — l'avviso altrui potrebbe prevalere, ma io
vi dò la parola d'onore che sino a quando io farò parte del governo
francese, nulla di simile sarà tentato, nessuna occupazione avrà
luogo di Tunisi o di altro punto, senza andare di concerto con voi,
senza prima riconoscere il diritto che avrebbe l'Italia di occupare
un altro punto d'importanza relativa e proporzionata.
Ieri al tardi venne da me il sig. Gambetta, al quale io desiderava
parlare nuovamente su questo argomento. Egli mi rinnovò con maggior
calore ed espansione le assicurazioni già datemi tempo addietro, che
il governo francese attualmente al potere ed il partito repubblicano
che lo sostiene, non avevano pensato mai all'occupazione di Tunisi;
cosa che non entrava punto nelle loro viste. E se mai arrivasse
giorno in cui fossero condotti ad occuparsi di un simile progetto,
essi si porrebbero anzitutto d'accordo coll'Italia, non potendo
convenire alla Francia di farsene una nemica irreconciliabile; mi
pregò di dire al governo del Re che, a parer suo, fra i vari
risultati del Congresso di Berlino spicca la necessità di unirsi
sempre più, massime poi sulle questioni orientale e mediterranea.
Le dichiarazioni somigliantissime di questi due uomini politici mi
sembrano rassicuranti, perchè mi sembrano sincere.»
In un secondo periodo ferve a Tunisi la lotta d'influenza; due consoli
bellicosi, Roustan e Macciò, si disputano il terreno. Col gen. Cialdini,
il 26 giugno 1880 il presidente della Repubblica, Grévy, deplorava che
la questione di Tunisi — la quale, secondo lui, non valeva un sigaro da
due soldi — potesse divenire cagione di dissidio; e il ministro
Freycinet si augurava di poter conciliare i desideri italiani con
gl'interessi della Francia. Ma Leone Gambetta “forse più franco,
certamente più chiaro„, diceva l'Italia non dovere contrastare
l'influenza francese in Tunisia. Non voleva essa tener conto della
prudenza e della moderazione di cui la Francia dava prova astenendosi
dal prendersi un paese offertole da tutte le Potenze?
L'on. Cairoli credette che a trattenere la Francia, sulla via nella
quale ora non più involontariamente procedeva, bastassero le
dichiarazioni sentimentali sulla fratellanza dei due popoli, le proteste
delle sue pure intenzioni, la minaccia di mutare indirizzo politico.
Codesti argomenti verbali non fecero alcuna impressione; ma la
sollecitudine, invece, dimostrata dal Cairoli per il tronco di ferrovia
Tunisi-Goletta e per il cavo telegrafico Sicilia-Tunisi, cioè per due
iniziative non private, ma in realtà del governo italiano e tali quindi
da dare a questo una maggiore influenza politica, quella sì che fece
impressione, anzi allarmò la Francia, la quale andava abituandosi a
considerare prevalenti i propri interessi nella Reggenza. E così il
Freycinet, il 9 luglio 1880, modificò le dichiarazioni fatte il 19
agosto 1878 da Waddington: “La Francia non pensa ora ad occupare Tunisi,
ma l'avvenire _sta nelle mani di Dio_„. E rifiutò di consentire alla
concessione da parte del Bey della posa di un cavo diretto indipendente
tra Tunisi e la Sicilia.
La esclusività dell'influenza francese divenne nel terzo periodo lo
scopo del gabinetto di Parigi. Si era ancora lontani dalla decisione di
un'azione militare, ma era entrata in azione una gran forza, l'opinione
pubblica; la quale, aizzata dalla stampa, finì con l'esercitare
un'azione determinante sul Governo. Gli speculatori non mancarono di
ispirare i sentimenti che dividono e furono denunziati anche alla Camera
francese; si disse anche che individualità spiccate, le quali
circondavano il Gambetta, si preoccupassero di far denaro. Pochi
pubblicisti, come Mad. Adam, tentarono a Parigi di opporsi alla
corrente, non riuscendo ad altro che a farsi accusare di poco
patriottismo.
Prevedendo che un giorno o l'altro sarebbe stato spinto ad occupare la
Tunisia, il Freycinet si preoccupava naturalmente delle conseguenze di
tal fatto. Il 25 luglio 1880 il nostro ambasciatore era in visita presso
di lui, quando ad un tratto il Freycinet gli disse:
«Ma perchè vi ostinate a pensare a Tunisi, dove la vostra
concorrenza può turbare un giorno o l'altro i nostri buoni rapporti,
perchè non volgereste piuttosto gli occhi su Tripoli, nel qual luogo
non avreste a lottare con noi, nè con altri?»
Queste parole — osservava il Cialdini — mi ricordarono una frase
analoga sfuggita al duca Decazes, e dovetti convincermi sempre più
che esiste un pensiero politico permanente, tradizionale rispetto
alla costa mediterranea dell'Africa, pensiero a cui tutti i partiti
si mostrano ossequenti e si studiano di custodire, trasmettere e
sviluppare.
Risposi che una simile indicazione mi rammentava il consiglio dato
da Bismarck a Napoleone III di prendersi il Belgio e lasciare la
provincia Renana in pace; che noi non aspiravamo a Tripoli più che a
Tunisi, ma desideravamo soltanto che codeste Reggenze fossero
mantenute in _statu-quo_. Aggiunsi che di Tripoli non occorreva
parlare neanche a titolo di compenso, se mai la Francia occupasse
Tunisi un giorno, a meno che Tripoli non cessasse di far parte
dell'impero turco.
L'avvenire è nelle mani di Dio (frase prediletta del sig. Freycinet)
e potrebbe darsi, seguitò egli a dire, che un giorno, senza dubbio
lontano, la Francia fosse condotta dalla forza delle cose ad
occupare e ad annettersi la Reggenza di Tunisi. Noi non vorremmo che
ciò avvenisse, se pur deve avvenire, a prezzo dell'amicizia che ci
lega all'Italia e che desideriamo sinceramente di conservare. Voi
partite ed io pure partirò in breve. Ci rivedremo ai primi di
ottobre e ripiglieremo allora a parlare di questo argomento nella
certezza che gli animi si saranno calmati in Italia ed in Francia e
che potremo ragionare tranquillamente. Io potrò dichiararvi che la
Francia non pensa punto nè poco all'occupazione di Tunisi; ma
siccome l'avvenire è nelle mani di Dio e potendo accadere, in tempo
più o meno remoto, che la Francia fosse proprio spinta dalla
necessità d'una situazione qualsiasi ad occupare la Tunisia, io vi
dichiarerò in pari tempo che, se un caso simile si presentasse,
_l'Italia ne sarebbe avvertita con ogni possibile anticipazione, ed
ajutata dalla nostra influenza cordiale ad ottenere nel bacino del
Mediterraneo un compenso proporzionato e sufficiente, affine di
conservare l'equilibrio della rispettiva preponderanza.»_
Appariva manifesto che l'occupazione della Reggenza da parte della
Francia era questione di tempo; il Cialdini avvertì che l'unica via per
impedirla era di “promuovere altre combinazioni„.
Alla fine di settembre assunse la direzione del Quai d'Orsay il sig.
Barthélemy di Saint-Hilaire (ministero Ferry), e il Cairoli, sebbene ne
fosse evidente l'inopportunità, ordinò al Cialdini di insistere affinchè
il Gabinetto di Parigi non contrastasse la concessione del filo
telegrafico diretto e indipendente dalla rete telegrafica francese. Il
Cialdini, sebbene riluttante, obbedì e non ottenne nulla:
«Non si tratta — scriveva il 20 novembre — di buone ragioni.... ma
semplicemente di un programma politico che la Francia ha adottato e
non abbandonerà più. L'influenza francese, cacciata dall'Europa dal
principe di Bismarck, s'è abbattuta sull'Africa, dove non teme di
urtarsi con la Germania. Noi non riusciremo ad ottenere alcuna
concessione dalla Francia con dei ragionamenti e delle mosse
diplomatiche. È questa, da molto tempo, la mia convinzione. La
Repubblica sa bene che questa politica ci ferisce e allontana — e
bisogna riconoscere che di ciò essa non si preoccupa.»
Il 1.º febbraio 1881 il console italiano a Tunisi, Macciò, telegrafa a
Roma:
«Oggi il Console francese ha informato il Bey che, considerate le
condizioni attuali della Tunisia, la Sublime Porta ha deciso di
destituirlo e di mandare Keredine ad amministrare il paese. La
Francia essendo a ciò assolutamente contraria, era obbligata a fare
una dimostrazione navale, e poichè questa avrebbe dato luogo
nell'assemblea a interpellanze spiacevoli, era opportuno che Sua
Altezza chiedesse l'invio di una squadra alla Goletta. Il Bey ha
risposto che si rifiutava di credere al prospetto attribuito alla
Sublime Porta, che non stimava di dover esprimere alla Francia il
desiderio della dimostrazione navale, nè aveva da dare consigli su
tale argomento.
È il Bey stesso il quale ha desiderato che io v'informassi di quanto
precede.»
Interrogato sulla verità del fatto denunziato dal Macciò — che sarebbe
stato un tentativo per ottenere dal Bey stesso la domanda di
protettorato — il signor Barthélemy rispose che si trattava di una
favola; ma il Cialdini, pur prestando fede allora alla sincerità del
Ministro, non escludeva che a Tunisi il console Roustan obbedisse a
ordini di persone più potenti del ministro degli affari esteri, appunto
in quei giorni combattuto aspramente sui giornali devoti al Gambetta.
Il Bey, informato che a Parigi smentiscono la pressione tentata su di
lui dal console francese, fa trascrivere il discorso tenutogli da
quest'ultimo, e manda a Roma copia autentica del protocollo relativo.
Messo il documento sotto gli occhi del Barthélemy, questi dichiara di
non credere alla sua veridicità. Però, informazioni raccolte dal gen.
Cialdini anche presso il suo collega d'Inghilterra, assodano che il
Barthélemy aveva lui stesso consigliato la mossa al Roustan e che per
aiutarne la riuscita aveva mandato due navi da guerra nelle acque
tunisine.
Fallito questo piano, si diffonde la voce che la _potente_ tribù dei
Krumiri aveva fatto incursioni sul territorio algerino, e minacciava il
tronco ferroviario francese Bona-Guelma; s'insinua anche la possibilità
di una esplosione del fanatismo religioso in Algeria. La stampa francese
s'impadronisce del tema e commuove l'opinione pubblica: il governo fa
partire da Tolone navi e truppe “per non sguarnire l'Algeria in
circostanze così gravi„!
Grande emozione in Italia; il Ministero Cairoli è in pericolo e domanda
spiegazioni. Il Barthélemy, il 6 aprile, assicura il gen. Cialdini che
l'invio di un considerevole corpo di truppe non ha altro scopo che di
punire le tribù alla frontiera algerina — e che il governo francese “non
pensa punto ad un'occupazione militare permanente e meno ancora
all'annessione della Tunisia„. L'indomani le stesse spiegazioni sono
rinnovate con questa aggiunta, che “ingaggiata la lotta non poteva
prevedersi quello che sarebbe stato necessario di fare„. Intanto la
Camera francese votava quel giorno stesso, 7 aprile, un credito di lire
5,695,000 per la spedizione militare.
Varcata la frontiera tunisina senza incontrare alcuno ostacolo, facendo,
come fu detto a Parigi, al Palazzo Borbone, “une promenade militaire„,
le truppe della Repubblica si avvicinano a Tunisi e le navi da guerra
sbarcano soldati a Biserta. L'11 maggio il ministro Barthélemy informa
l'ambasciatore Cialdini che le truppe non entreranno in Tunisi se il Bey
firmerà il trattato che gli verrà sottoposto; che l'occupazione militare
cesserà appena avuta la prova della buona fede del Bey e del suo
rispetto al trattato, e che anche Biserta sarebbe stata evacuata subito
dopo.
Il trattato, così detto di garenzia, fu firmato l'indomani, 12 maggio,
dal Bey e dal generale comandante le truppe invadenti. Il Bey, che
invano si era rivolto alle Potenze, accettò tutto quello che
gl'imposero, consenti anche l'occupazione militare come gliela chiesero,
cioè ristretta a taluni punti, _sino al ristabilimento dell'ordine_.
La Francia non si arrestò al trattato. L'agitazione naturalmente sorta
nella Tunisia per l'invasione straniera, dette argomento a estendere le
operazioni di guerra. Un nuovo credito di 14 milioni fu approvato dal
Parlamento; il 12 luglio la squadra francese occupava Sfax, il 24 luglio
Gabes; il 9 ottobre le truppe repubblicane entravano a Tunisi.
Così la Francia conquistò la Reggenza.
Tutte le promesse fatte al gen. Cialdini dai tre ministri che trattarono
la questione, Waddington, Freycinet, Barthélemy, furono, una dopo
l'altra, violate, e l'ingenua fiducia del Cairoli fu molto male
ricompensata. Alla Camera italiana il Cairoli, prima che l'azione
francese raggiungesse i fini propostisi, si difese mettendo innanzi la
sua buona fede — innegabile come la sua incapacità — e si fece garante
che i francesi si sarebbero ritirati dalla Reggenza appena vinti i
Krumiri; ma Crispi lo ammonì: “Bisogna aver dimenticato la storia, per
credere che l'esercito francese, dopo punite le tribù ribelli, uscirà
dalla Tunisia„.
Il Cairoli dichiarò, altresì, in Parlamento, di avere con l'Inghilterra
“una identità di idee nell'apprezzare la questione di Tunisi„, e volle
così smentire quelli che affermavano “immaginarii isolamenti„.
Non si comprende perchè un uomo probo come il Cairoli affermasse cosa
talmente lontana dal vero. Bisogna supporre che egli non leggesse i
documenti, o che, letti, li dimenticasse; perchè i documenti della
Consulta contenevano la prova del contrario.
Il 7 gennaio 1879 conversando col marchese Menabrea, ambasciatore
d'Italia a Londra, il ministro Salisbury, interrogato sulle voci dei
giornali, secondo le quali anche il governo della Regina spingeva la
Francia ad annettere la Reggenza di Tunisi all'Algeria, rispose ch'egli
“stava neutro nella questione„, cioè si asteneva, e che aveva dichiarato
alla Francia “che scorgendo l'Italia contraria ad un tale divisamento,
lasciava che quelle due Potenze se la intendessero fra loro„. Il 13
febbraio dello stesso anno il Menabrea, avendo domandato al Salisbury
che l'Inghilterra facesse una dichiarazione di voler mantenere lo _statu
quo_ in Tunisia, il Salisbury “si astenne da nulla promettere circa la
dichiarazione dianzi suggerita„. L'11 luglio 1880 lo stesso Menabrea
riferiva aver il ministro conte Granville dichiarato “che la Tunisia
essendo uno Stato indipendente, salvo i diritti della Sublime Porta,
l'Inghilterra non poteva intervenire in quelle questioni che si
riferiscono al governo interno della Reggenza„. Il 22 di quel mese il
Cairoli ritenendo che l'atteggiamento inglese potesse mutarsi,
insisteva: “A noi non sembra ammissibile.... che le altre Potenze,
l'Inghilterra in specie, vogliano accogliere una teoria [cioè che la
Tunisia dovesse considerarsi come un'appendice dell'Algeria] che già fin
d'ora turberebbe l'equilibrio delle forze nel Mediterraneo„. Ma il
Granville rispondeva il 29 luglio “che l'Inghilterra non avendo che
interessi secondarii nella Tunisia, non voleva intervenire nei dissensi
insorti tra noi e la Francia, a meno di esservi direttamente invitata„ —
e non occorre avvertire che il nobile lord era sicuro di non ricevere un
invito simile dalla Francia!
Naturalmente, le cose non mutarono quando la crisi fu prossima; il 17
febbraio 1881 toccò a lord Lyons, ambasciatore britannico a Parigi, di
avvertire il generale Cialdini che l'Inghilterra “teneva molto a non far
nulla che possa dispiacere alla Francia„.
Alla Consulta si presumeva allora di sapere quale fosse la politica che
nel Mediterraneo convenisse all'Inghilterra; e su tale presunzione si
fondava. Anche dappoi abbiamo vissuto di illusioni su questo argomento,
perchè in realtà, tranne durante un periodo del quale ci occuperemo più
avanti, l'Inghilterra ha trovato sempre il suo interesse nell'intendersi
con la Francia.
Può darsi che al 1878 i ministri inglesi avessero sull'avvenire della
Tunisia le idee che loro attribuiva uno scrittore francese, il Constant
d'Estournelle:[13]
[13] _La politique française en Tunisie — Le Protectorat et ses
origines_ (1854-1891) par P. H. X. — Paris, Librairie Plon, pagg.
79-80.
“Du jour où le gouvernement anglais constate que la Tunisie est
condamnée et qu'une intervention étrangère y est inévitable, entre
quelles mains doit-il souhaiter de la voir tomber? les notres ou celles
de l'Italie? Entre les notres sans aucun doute. De deux maux on choisit
le moindre. Il a tout intérêt à ne pas abandonner à l'Italie la garde du
vaste goulet qui met en communication les deux bassins de la
Méditerranée. Son action en 1871 auprès du cabinet de Florence en était
déjà une preuve. Or l'Italie serait maîtresse de ce passage, dans le cas
où le promontoire tunisien qui s'avance vers la Sicile lui
appartiendrait. Possédant, avec la Sardaigne et l'îlot de Pantellaria,
la pointe du cap Bon, le sommets de Carthage, Bizerte, on peut dire
qu'elle commanderait les communications maritimes de l'Europe avec
l'Orient et qu'elle pourrait, au besoin, sinon les arrêter tout à fait,
du moins les gêner considérablement. Il est clair que ce n'est pas
l'Angleterre qui favorisera jamais la création d'une pareille entrave et
qui s'exposera à faciliter l'interception de la grande route que
sillonnent aujourd'hui librement par milliers ses bâtiments. Elle a tout
avantage, au contraire, à ce que les deux côtes du passage appartiennent
à deux puissances différentes: c'est pour elle le plus sûr moyen d'en
assurer la neutralité„.
La conquista francese di Tunisi non fu discussa alla Camera italiana; il
ministero Cairoli si ritirò il 14 maggio, appena potè apprezzare
l'effetto prodotto in tutta l'Italia dalla notizia del trattato del
Bardo. L'on. Crispi che aveva diretto gli oppositori con moderazione,
era in predicato di succedergli; ma i capi della Sinistra furono
concordi, come sempre, nel volerlo lontano dal governo. Dissero che il
nome di Crispi suonava guerra alla Francia, e non era prudente. In
realtà, Crispi aveva, pochi giorni prima, ripetuto alla Camera che “un
conflitto tra la Francia e l'Italia sarebbe una guerra civile„ e aveva
deplorato che le buone relazioni tra i due paesi fossero state
compromesse da una politica imprevidente e leggera. Non può infatti
negarsi che se i diritti dell'Italia fossero stati validamente difesi,
il governo francese non avrebbe potuto con l'impresa di Tunisi alzare
una barriera tra i due Stati.
Quell'impresa ci offese dippiù pel modo onde fu compiuta e per
l'alterigia con la quale ci si trattò. Eravamo isolati, deboli, con le
finanze in disordine, in conflitto con l'Austria; e la Francia non
soltanto profittò di tali circostanze per cacciarci da un paese
vicinissimo al nostro e dove avevamo interessi maggiori dei suoi; ma
s'irritò delle nostre naturali e legittime proteste, e aggiunse
all'azione prepotente le minacce, e colpì col disprezzo l'ira nostra
impotente.
È vero — come si affermò — che se l'Italia avesse risposto al
protettorato francese sulla Tunisia con l'occupazione della
Tripolitania, avrebbe trovato le grandi Potenze neutrali e l'appoggio
dell'Inghilterra?
Un giornale inglese, lo _Standard_, pubblicò (22 o 23 maggio 1881) un
documento diplomatico sin allora inedito, nel quale si affermava che in
una conversazione tra i signori Waddington, Corti e lord Salisbury era
stato convenuto che l'Italia potesse occupare la Tripolitania, se la
Francia si fosse annessa la Tunisia.
Il conte Corti — che era in quei giorni ambasciatore a Costantinopoli —
si affrettò a mandare una smentita con la fretta che avrebbe posta nel
respingere una insinuazione ingiuriosa:
«Siffatta conversazione — egli scriveva il 24 maggio — non è mai
seguìta, nè a Berlino, nè altrove. I plenipotenziari d'Italia non
avevano missione di trattare della distribuzione di territori
appartenenti ad altre potenze, all'infuori di quelli che
costituivano le conseguenze immediate della guerra.
Il documento diplomatico cui si riferisce il telegramma è dunque
apocrifo, oppure contiene la relazione d'un colloquio non avvenuto.
Per lo che mi presi la libertà di pregare l'E. V. di far smentire
l'asserzione del giornale inglese.»
La mentalità del conte Corti è tutta rispecchiata in questa smentita. È
chiaro che come diplomatico egli era un pesce fuori d'acqua. Forse
sarebbe stato un buon prete.
Il marchese Menabrea, al quale fu telegrafato da Roma il desiderio del
Corti, rispose il 31 maggio:
Nel medesimo giorno io telegrafavo _in chiaro_ a codesto ministero
nei termini seguenti:
«Le _Times_ publie aujourd'hui un télégramme de Rome informant que
M. Corti dément la conversation avec lord Salisbury qu'on lui
attribue, pour faire donner Tripoli à l'Italie, dans le cas où Tunis
serait annexé à la France. Cette question a provoqué une
interrogation de M. Arnold, dans la dernière séance de la Chambre
des communes. Sir Charles Dilke a répondu qu'il n'y avait pas eu, au
sujet de Tripoli, d'échange de correspondance entre les deux
gouvernements anglais et italien. D'autres interrogations ont
également eu lieu sur Tunis; elles n'ont amené aucune résolution. —
MENABREA.»
La sera stessa del giorno 25, in cui erano stati ricevuti e spediti
i telegrammi anzidetti, io incontrai, al ballo di Corte, il
sotto-segretario di Stato per gli Affari esteri, sir Charles Dilke,
che, fermandosi, mi disse spontaneamente di essere stato sorpreso
della smentita data dal conte Corti, imperocchè esistevano al
_Foreign Office_ prove, o documenti che fossero, che si riferivano
alla sovraccennata conversazione. Egli soggiunse che questa doveva
essere, all'indomani, oggetto di una nuova interrogazione nella
Camera dei Comuni, ma che egli eviterebbe di entrare in discussione
in proposito, rifiutando di dare ulteriori spiegazioni.
Infatti, nella seduta del 26 corrente, ebbe luogo nella Camera
l'interrogazione annunziata. Traduco dal _Times_ del 27 maggio il
resoconto che vi si riferisce:
«_Tripoli e Tunisi_ — Il sig. Arturo Arnold chiede se vi sia qualche
documento della conversazione tenuta da lord Salisbury,
relativamente all'occupazione di Tripoli per parte dell'Italia, in
compenso dell'ingresso della Francia a Tunisi. Sir Charles Dilke
risponde: «Tutte le informazioni che il governo di Sua Maestà è in
grado di somministrare sono contenute nei documenti che sono stati
deposti sulla tavola della Camera; ed io non sono disposto (_I am
unwilling_) ad essere trascinato, rispondendo all'interpellanza del
mio onorevole amico, in una discussione sopra quell'argomento.»
Una tale risposta essendomi sembrata alquanto equivoca, mi recai
l'indomani, 27 corrente, dal conte Granville, al quale domandai
qualche spiegazione esplicita in proposito, affine di non lasciare
pesare un dubbio sopra un fatto pubblicamente smentito.
Il nobile lord mi rispose che non v'era stato scambio di
corrispondenza fra i due governi a proposito di Tripoli; che non vi
erano documenti ufficiali relativi a quell'argomento; ma nello
stesso tempo, mi dichiarò, confidenzialmente, che non poteva
rispondermi, nè dirmene di più.
Nel congedarmi dal conte Granville, io gli dissi ridendo:
«Je vois que V. E. fait comme un de nos anciens ministres, le
commandeur Galvagno, qui, pressé de donner à la Chambre des
explications sur des faits qu'il ne croyait pas devoir discuter, se
débarrassa des interpellations en disant ces mots restés célèbres:
Je réponds que je ne réponds pas.»
Il nobile lord si mise a ridere dicendomi in francese: _Anch'io
rispondo che non rispondo_.
Io vidi di nuovo il conte Granville l'indomani, 28 corrente, alla
serata data nel _Foreign Office_, in onore del giorno onomastico
della Regina. Egli mi prese a parte e mi disse con molto garbo:
«Ieri le ho parlato confidenzialmente sulla questione tripolitana,
ma mi accorgo che quella mia riserva è inutile, ed Ella è padrone di
scrivere che _ho risposto ch'io non rispondeva_ alle di Lei
interrogazioni».
Questi fatti mi hanno lasciato l'impressione che, presso il _Foreign
Office_ esiste il convincimento che la quistione della cessione di
Tripoli all'Italia, in compenso dell'abbandono di Tunisi alla
Francia, venne ventilata in qualche conversazione al Congresso di
Berlino.
Ho creduto dover mio di riferire questo fatto all'E. V., sia per
rispondere adeguatamente al telegramma sopra trascritto di codesto
Regio ministero, sia per metterla in grado di apprezzare quale
influenza abbiano potuto avere certi incidenti sullo svolgimento
della quistione tunisina.»
L'impressione del generale Menabrea era esatta; infatti la cessione di
Tripoli all'Italia venne ventilata a Berlino in una conversazione
ch'ebbe luogo tra lord Salisbury e il secondo dei plenipotenziarii
italiani a quel Congresso, conte di Launay. E questi ne aveva riferito
l'11 agosto 1878. Ma alla Consulta non leggevano i documenti?
Il di Launay aveva scritto:
«.... tout récemment, j'ai eu à ce sujet un entretien avec mon
collègue d'Angleterre. Je lui parlais des conversations que j'avais
eues dans les derniers jours du Congrès avec lord Salisbury, auquel
j'exprimais le regret que le Gouvernement anglais ne nous eut au
moins pas épargné la surprise d'apprendre par la simple voie des
journaux la nouvelle de la convention relative à l'occupation de
l'île de Cypre. Le chef du _Foreign Office_ expliquait la chose de
son mieux, et laissait entendre à mots couverts _que l'Italie à son
tour pourrait songer à un agrandissement vers Tripoli ou Tunis_. Je
n'etais pas autorisé à aborder une discussion à ce sujet.»
Dunque è indiscutibile che lord Salisbury ritenne che un compenso
spettasse all'Italia, e se il suo pensiero fu manifestato in maniera che
non parve chiaro al di Launay — e si comprende giacchè il ministro
inglese non voleva rivelare l'accordo con la Francia — il “velame delli
versi strani„ avrebbe dovuto stracciarsi nel 1881, quando la Francia
andò a Tunisi.
La violenza adoperata dalla Francia per escludere dalla Tunisia
l'influenza italiana, ebbe virtù di determinare in Italia un mutamento
radicale nella pubblica opinione. Delusa della Repubblica francese — che
la nostra democrazia aveva esaltato in confronto del caduto Impero —
essa non vide scampo, per garentirsi da ulteriori sgraffi della sorella
latina, che in un ritorno all'alleanza con la Germania.
Per la verità storica è opportuno ricordare che già nel 1880 il conte
Maffei, segretario generale del ministero degli Affari esteri,
autorizzato dall'on. Cairoli, aveva esplorato ufficiosamente il terreno
a Berlino “circa la convenienza di dare ai rapporti fra l'Italia e la
Germania un carattere più intimo, e avviarsi ad una vera e propria
alleanza„. Il principe di Bismarck gli aveva fatto rispondere “che la
via per arrivare a Berlino era quella di Vienna, e che anche colà
dovevamo stabilire ottime relazioni se volevamo rinnovare gli antichi
legami con la Germania„.
Ministro dell'Interno sotto la presidenza del Cairoli era l'onorevole
Depretis, ed è probabile che per consiglio di questi — memore della
missione Crispi — il Maffei fosse abilitato a interrogare l'oracolo di
Berlino. Ma quando fu conosciuta la risposta del Bismarck, anche il
Depretis, il quale divideva gli scrupoli e le esitazioni del Cairoli ad
entrare in una via che ci allontanava decisamente dalla Francia, si
dichiarò avverso ad un'alleanza con l'Austria.
Tuttavia, il Maffei — così egli raccontava a Crispi — insistette
vivamente affinchè non si lasciassero cadere le probabilità offertesi di
giungere ad una intelligenza intima con la Germania, sia pure trattando
con Vienna.
Era allora Cancelliere austro-ungarico il barone Haymerle,
ex-ambasciatore a Roma, che aveva dato prove di concilianti disposizioni
in momenti gravi. Ambasciatore in Italia della Germania era il Keudell,
il quale, tornando dal congedo, esternò il parere, che protestava esser
suo personale, che a Berlino produrrebbe ottimo effetto la stipulazione
d'un accordo segreto tra i due capi del governo italiano e
dell'austriaco, a' termini del quale entrambi s'impegnassero a mantener
la pace fra i loro rispettivi paesi, rinnovando il patto d'anno in anno.
Appena questo fosse conchiuso, la Germania ci avrebbe formulato delle
proposte circa il miglior modo di stabilire con noi un'alleanza per la
reciproca tutela dei nostri interessi.
«Suggerii allora all'on. Cairoli di lasciarmi tastare il terreno in
via riservatissima e direi quasi personale, servendomi dell'agente
che il barone Haymerle designato m'avea come un intermediario di sua
intera fiducia. L'opportunità d'impiegar un tal mezzo fu poco dopo
riconosciuta. Inutile osservare che il sig. Keudell veniva spesso a
interrogarmi sul risultato delle mie istanze, di cui era tenuto
sempre a giorno. Egli approvava il divisamento di condurre le prime
trattative in forma strettamente confidenziale. Ho il convincimento
eziandio che il barone Haymerle era da Berlino posto al corrente di
tutto questo, che vi faceva plauso, e aspettava con impazienza il
noto messo. Autorizzatovi alfine, io lo mandavo a Vienna nel gennaio
1881. Non gli davo nulla in iscritto: le mie istruzioni furono
verbali. Il patto pacifico da stabilirsi era tal quale lo aveva
indicato il principe di Bismarck, per bocca del sig. Keudell, e se
io prendevo necessariamente per base il rispetto dei trattati
esistenti, mi avvantaggiavo anche di questo argomento per esigere
che l'Austria egualmente ammettesse nel modo più solenne l'obbligo
suo di non violare le stipulazioni di Berlino con una eventuale
maggiore espansione nella penisola balcanica, a danno dell'Italia, e
in ispecie per ciò che concerne il littorale adriatico.
«Io dicevo, in sostanza, all'uomo di fiducia del bar. Haymerle:
l'Italia vuole bensì essere amica dell'Austria e osservare i suoi
doveri, ma a condizione che l'Austria faccia altrettanto. Bisogna
che il governo imperiale s'immedesimi dei nostri interessi, della
nostra situazione; che tenga conto del nostro sentimento pubblico,
il quale si rivolterebbe se un allargamento dell'Austria ancora
avvenisse in prossimità del mare Adriatico. Su questo particolare io
non potevo essere nè più preciso, nè più esigente, e ne feci uno dei
cardini del negoziato.»
L'agente del barone Haymerle andò a Vienna, fece le comunicazioni delle
quali il Maffei lo aveva incaricato, e il 17 febbraio 1881, ritornato in
Roma, partecipava che il barone Haymerle e il suo _ad latus_, barone
Teckenberg, ritenevano facile l'accordo per un trattato di reciproca
neutralità:
«Fatta naturalmente astrazione della Bosnia e dell'Erzegovina, da un
eventuale cambiamento del diritto di Stato e di Sovranità, e delle
relative pratiche col Sultano riguardo all'avvenire di quei paesi,
l'Austria-Ungheria dichiara di rispettare scrupolosamente lo
_statu-quo_ in Oriente e di non aver nessunissima idea di
oltrepassare menomamente la linea tracciata da detto trattato.
Oltre i sovraccennati eventuali, e per ora poco probabili
cambiamenti del diritto di Stato e di Sovranità nella Bosnia e
nell'Erzegovina, i quali potrebbero eventualmente compiersi senza
violare menomamente lo _statu quo_ dell'Oriente e le determinazioni
del trattato di Berlino, e restano perciò fuori di discussione,
l'_Austria-Ungheria non intende menomamente seguire una politica
d'espansione in Oriente; non pensa menomamente ad avanzarsi a
Salonicco o in Albania e mantiene scrupolosamente lo_ statu-quo
_territoriale. In questo riguardo si è pronti a dare tutte le
assicurazioni necessarie per dimostrare il fermo proposito
dell'Austria-Ungheria di rispettare scrupolosamente i limiti
assegnatile dal trattato di Berlino, e di astenersi da ogni politica
espansione_.
Le relative dichiarazioni del ministro e del suo _alter ego_ non
lasciano nulla a desiderare, a mio parere, in lucidità e decisione,
e la base di ulteriori negoziati per la conclusione di un trattato
di neutralità sarebbe perciò, secondo me, trovata.
I baroni Haymerle e Teckenberg credono che le circostanze generali
non offrano alcuna seria difficoltà di natura a opporsi alla
conclusione d'una sincera ed intima amicizia fra l'Italia e
l'Austria-Ungheria.
L'Austria-Ungheria fu ed è sempre pronta ad apprezzare i legittimi
interessi dell'Italia come potenza grande e marittima, e segue con
simpatia i suoi passi; perciò non metterà verun ostacolo, anzi vedrà
con simpatia l'accrescimento della sfera dei poteri dell'Italia nel
Mediterraneo, ben inteso che resti intatto lo _statu quo_
nell'Adriatico, e che questo non diventi un lago italiano.
Guidata da questo punto di vista, l'Austria-Ungheria accetterà
volentieri ogni accomodamento favorevole agli interessi italiani per
la quistione tunisina ed eventualmente per l'acquisto di Tripoli.
Ispirandosi allo stesso punto di vista d'un accrescimento dei
legittimi interessi dell'Italia nel Mediterraneo, l'Austria-Ungheria
ha respinto la proposta russa di compensare la Grecia con l'isola di
Candia, l'idea dell'Austria-Ungheria essendo, senza naturalmente
assumere sin d'ora decise garanzie in proposito, che Candia potrebbe
essere data all'Italia, precisamente per rafforzare la sua posizione
nel Mediterraneo.
I baroni Haymerle e Teckenberg conchiusero colle più vive proteste
di simpatia per l'Italia e il suo governo, e sarebbero felici di
addivenire ad un accordo che guarentisse l'imperturbata coltivazione
d'una vera ed intima amicizia fra i due paesi. Essi attendono,
dunque, le ulteriori proposte della S. V. I., e lasciano libera a
Lei la scelta, se per i futuri negoziati debba venire qualcheduno da
Vienna a Roma o s'Ella creda preferibile di legare a Vienna una
persona di sua fiducia.»
L'on. Cairoli esitò o non volle seguire il suo collaboratore.
Sopraggiunsero gli avvenimenti tunisini, i quali naturalmente
indebolirono il prestigio dell'Italia. Quando l'on. Mancini, nuovo
ministro degli Affari esteri (dal 29 maggio), iniziò risolutamente la
politica di ravvicinamento all'Austria e alla Germania, e alla fine di
ottobre mandò il re d'Italia in visita a Vienna, i primi passi si
risentirono della situazione peggiorata a nostro danno. E se ne ebbe una
testimonianza clamorosa nelle Delegazioni del novembre, dove uomini in
vista, come l'ex-Cancelliere Andrássy e il Kallay, interpretarono
sconvenientemente i motivi del recente viaggio a Vienna del re Umberto.
Le trattative per l'alleanza, cominciate a Vienna, furono continuate fra
i tre gabinetti; l'Austria e la Germania erano già legate sin dal 7
ottobre 1879 col trattato perpetuo che fu reso pubblico il 3 febbraio
1888. L'accessione dell'Italia, con speciali condizioni che sono un
segreto di Stato, fu firmata il 20 maggio 1882; è noto soltanto che
anzichè un patto di reciproca neutralità, come voleva dapprima
l'Austria, esso contiene una guarentigia dell'integrità territoriale
delle tre Potenze.[14]
[14] F. Crispi, Discorso di Firenze, 8 ottobre 1890.
“Era un primo passo ad uscire dall'isolamento — disse l'on. Crispi — a
stornare gl'incombenti pericoli di guerra. L'opinione pubblica ne fu
soddisfatta.... Ma nei primi anni il trattato non diede frutto. A Vienna
e a Berlino non erano dissipati i dubbi che i precedenti avevano
destato; nè ancora l'insieme della politica italiana, interna ed
internazionale, era tale da riuscirvi; la sincerità nostra, nella
esecuzione degli impegni assunti, parea discutibile ancora. Sicchè i
patti rimanevano scritti, pel giorno della prova suprema; ma il nostro
paese rimaneva ancor solo, a difesa degli interessi suoi esclusivi.
La fiducia nasceva nel secondo periodo dell'alleanza, e incominciava a
giovarci....„.[15]
[15] F. Crispi, Discorso di Firenze, 8 ottobre 1890.
Ma prima d'intrattenerci sull'opera compiuta da Crispi per rendere la
triplice “accordo sinceramente cordiale„, la cui influenza si esercitò
“su tutte le questioni internazionali dove eravamo impegnati„, conviene
ricordare come, sebbene la direzione della politica estera fosse passata
in mani più abili, l'Italia perdette, temendo di osare, una eccellente
occasione per rifarsi in parte del danno di Tunisi.
CAPITOLO TERZO.
La questione Egiziana nel 1882.
L'Italia, invitata a intervenire in Egitto con
l'Inghilterra, rifiuta. — Viaggio di Crispi a Berlino e a
Londra. — Colloquii col conte Hatzfeldt e con lord
Granville. — Nove lettere di Crispi sulla convenienza per
l'Italia di accettare la proposta inglese.
Quando la questione d'Egitto uscì, in seguito al “pronunciamento„ di
Arabì (sett. 1881), dal torpore nel quale si trascinava da anni,
l'Italia non esercitava influenza alcuna nelle cose interne di quel
paese, del quale l'Inghilterra e la Francia si disputavano l'egemonia.
Minacciata l'autorità del Kedive, quelle due Potenze stimarono opportuno
di fortificarla dandole pubblicamente l'assicurazione della loro
simpatia. Questa simpatia avrebbe potuto determinare l'intervento
militare anglo-francese? Forse sì, se Gambetta fosse rimasto al Governo.
Ma cadutone questi il 26 gennaio 1882 e succedutogli il Freycinet, gli
avvenimenti si svolsero in maniera che la Francia, astenutasi
dall'azione, rimase tagliata fuori dal dominio. D'onde la lotta tenace
combattuta per lungo tempo di poi affinchè il leone britannico
abbandonasse la preda egiziana, e le molteplici condiscendenze di esso,
intese a disarmare la sua avversaria, sino alla Convenzione 8 aprile
1904 che consacrò lo _statu quo_, ossia l'occupazione inglese
indefinita.
L'on. Mancini prese subito partito per escludere l'azione isolata di
ogni Potenza, e, data la posizione dell'Italia in quel momento, sembra
che non potesse seguire indirizzo migliore. Ma il concerto europeo non
agì: tranne l'Inghilterra e la Francia nessuna Potenza mostrò
d'interessarsi agli affari egiziani.
Adunati il 23 giugno in Conferenza, su proposta del Gabinetto di Parigi,
gli ambasciatori a Costantinopoli delle grandi Potenze non compirono
altra funzione positiva che quella di mettere allo scoperto la doppiezza
della politica turca e di giustificare l'intervento europeo. Dapprima la
Sublime Porta non volle prender parte alla Conferenza; v'intervenne alla
decima seduta (24 luglio), dopo avere ricevuto una Nota collettiva con
la quale le Potenze rappresentate la invitavano a mandare senza indugio
in Egitto forze sufficienti “per ristabilire l'ordine, abbattere la
fazione usurpatrice, porre termine alla grave situazione che affligge
quel paese ed ha cagionato lo spargimento di sangue, la rovina e la fuga
di migliaia di famiglie europee e musulmane, ed ha compromesso
gl'interessi nazionali e stranieri„.
Il governo inglese sapeva che, nonostante dicesse altrimenti, il Sultano
non avrebbe mandato truppe in Egitto; e si preparò quindi a sostituire
l'intervento ottomano. Il Canale di Suez correva pericolo, e lord
Granville si accordò con la Francia per la protezione di esso, e chiese
il concorso dell'Italia. L'on. Mancini rispose che essendo tale
questione sottoposta alla Conferenza, preferiva attendere la decisione
di questa. Però a Costantinopoli la proposta italiana “di organizzare
per la libera navigazione del Canale di Suez un servizio puramente
navale di polizia e sorveglianza al quale tutte le Potenze sarebbero
chiamate a partecipare„ fu accettata da tutti, ma con riserve tali che
la rendevano vana. L'ambasciatore inglese riservò “i casi di necessità„
nei quali ogni Potenza avrebbe potuto sbarcare truppe ed occupare alcuni
punti necessarii alla sicurezza del Canale; e dichiarò altresì che
l'Inghilterra riservava “tutta la sua libertà d'azione per la
cooperazione militare, avendo in vista il ristabilimento dell'Autorità
del Kedive„.
Quando il governo inglese ritenne giunto il momento di agire per la
salvaguardia de' suoi grandi interessi, il Mancini avrebbe dovuto
essersi accorto che la Conferenza di Costantinopoli era stata una
lustra, e che conveniva profittare della inattività della Francia per
prendere in Egitto, a fianco dell'Inghilterra, quella posizione che sino
allora era stata negata all'Italia.
I termini nei quali fu fatta all'Italia, e rifiutata, l'offerta di
cooperare con l'Inghilterra a ristabilire l'autorità del Kedive,
risultano dai seguenti documenti:
_Sir A. Paget al conte Granville._
Roma, 28 luglio 1882.
Mi recai quest'oggi dal sig. Mancini in conformità degli ordini di
V. S. contenuti nel telegramma del 25 volgente. Ho cominciato il
colloquio col dire ch'io riteneva essere S. E. oramai preparata dal
generale Menabrea alla comunicazione che stavo per farle, la quale
si riduceva a questo; che mentre il governo di S. M. vedrebbe
volentieri l'Italia associarsi all'Inghilterra e alla Francia per
garentire la sicurezza del Canale di Suez, sarebbe pur lieto che
essa cooperasse ad un'azione diretta all'interno, che non potrebbe
essere differita ulteriormente e per la quale il governo di S. M.
stava attivamente preparandosi, sebbene il governo francese non si
mostri disposto a parteciparvi.
Il sig. Mancini, dopo avermi pregato di manifestare a V. S. i
ringraziamenti del governo italiano per questa nuova prova di
fiducia e di amicizia, dissemi aver già avuto contezza di tale
comunicazione dal generale Menabrea, che egli aveva tosto incaricato
(ritengo la notte scorsa) di manifestare la sua supposizione che
ella non conoscesse ancora in quella data la risposta della Porta
alla Nota collettiva (del 15 luglio).
Risposi aver io ragione di credere che così fosse, ma trovarmi nello
stesso tempo in grado di riferire a S. E. che a me constava come
tale risposta non abbia in guisa alcuna mutate le intenzioni del
governo di S. M., o fatto ad esso supporre l'impiego delle forze
britanniche meno necessario di prima.
Chiesi come fosse possibile aver fiducia nel tardo consenso della
Porta alle domande dell'Europa. Potrebbe esser vero bensì che
all'undecima ora si facciano preparativi per l'invio di forze turche
in Egitto, ma chi potrebbe garentire che quelle truppe, una volta
colà giunte, sarebbero impiegate allo scopo desiderato? La politica
della Porta in tutto l'affare egiziano ha avuto l'impronta di tanta
tergiversazione da non potersi per l'avvenire fare sopra di essa il
benchè menomo assegnamento. Per citare un esempio dissi che,
allorquando nell'ultima riunione della Conferenza fu da lord
Dufferin presentata la proposta, appoggiata da tutti i colleghi, che
il Sultano dichiarasse ribelle Arabì-pascià, il commissario turco
l'accolse con una delle sue mozioni dilatorie. Aggiunsi che
recentemente un agente segreto di Arabì, arrestato dalle autorità
inglesi in Alessandria, al suo ritorno da Costantinopoli, e trovato
possessore di documenti assai compromettenti, aveva fatto
confessioni comprovanti la complicità fra Costantinopoli e il capo
dei ribelli.
Laonde io faceva appello al signor Mancini per sapere da lui se la
sfiducia del governo della Regina nelle intenzioni del Sultano non
fosse giustificata al pari delle misure atte a sventarne tutti i
malvagi disegni. E dissi che ritenevo il governo della Regina
avrebbe accettato la cooperazione della Turchia, continuando però a
recare ad effetto i provvedimenti già stabiliti.
Il signor Mancini, senza contestare alcuno dei fatti enumeratigli,
nè la logica deduzione che ne avevo tratta, replicò che, quali si
fossero le ragioni di sfiducia esistenti rispetto alla Porta,
sembrerebbe una contraddizione che quando essa ha accettato senza
riserva tutte le condizioni di una Nota a cui Italia e Inghilterra
avevano partecipato, queste due Potenze assumessero impegni per un
altro modo d'intervento. Il tempo avrebbe in ogni caso permesso, a
suo avviso, di accertare la buona fede con la quale i turchi ora
agivano. Se vi fossero prove che non adempissero lealmente il
programma che avevano accettato dalle Potenze, e se alcun indice vi
fosse della loro parzialità a favore del partito ribelle o della
loro poca energia d'azione per sopprimerlo, il complesso delle cose
muterebbe e le nuove condizioni sarebbero allora prese in esame
dalle Potenze.
S. E. tuttavia ammise essere la posizione dell'Inghilterra diversa
da quella dell'Italia e delle altre Potenze. L'Inghilterra aveva già
mandato le sue truppe in Egitto ed egli pienamente comprendeva che
fosse suo intendimento di avere colà forze sufficienti per
controllare la condotta dei turchi. Ma l'adesione dell'Italia
all'accordo suggeritole, sarebbe stato un punto di partenza non
giustificato dalle circostanze. Devesi — egli aggiunse — aspettare
il corso degli avvenimenti, nonchè la risposta che V. S. darà al
gen. Menabrea e le pubbliche dichiarazioni che saranno fatte dai
ministri della Regina in relazione a questa nuova fase della
questione, prima che il governo italiano sia in grado di rispondere
positivamente all'attuale proposta.
A ciò rispondendo espressi la speranza che la proposta fatta al
governo italiano non sarebbe dimenticata, onde il governo della
Regina non possa in alcun tempo essere accusato di aver seguito una
politica esclusiva.
A. PAGET.
_Il conte Granville a sir A. Paget._
Foreign Office, 29 luglio '82.
In un abboccamento avuto oggi col gen. Menabrea, S. E. dichiarava
che il signor Mancini pareva ritenere che il governo di S. M.
ignorasse la formale e completa accettazione per parte del Sultano
della richiesta fattagli dalla Conferenza di spedire truppe in
Egitto, allorchè esso fece la proposta che l'Italia prendesse parte
alle operazioni nell'interno di quel paese. Il Sultano aveva ora
deciso di mandare truppe in Egitto, acconsentendo per tal modo al
desiderio espresso dalle sei Potenze. Il gen. Menabrea osservava che
in vista di queste circostanze il governo italiano si esporrebbe ad
una accusa di contradizione se negoziasse nel senso di un intervento
di altra Potenza, e che solo rimanevagli di esprimere i suoi
ringraziamenti al gabinetto inglese per avere nutrita l'idea che
l'amicizia dell'Italia per l'Inghilterra potesse assumere la forma
di una attiva cooperazione.
Risposi che rimpiangevo che l'Italia avesse declinato di cooperare
nel modo indicato, ma che non avevo eccezione a muovere circa un
argomento che era nella competenza del governo italiano. Ero ciò
nonostante lieto dell'occasione offerta al governo della Regina dal
presente stato di cose, di dare all'Italia una prova della sua
amicizia.
GRANVILLE.
_Il generale Menabrea all'on. Mancini._
Londra, 29 luglio '82.
Ho comunicato oggi verbalmente a lord Granville la risposta
contenuta nel telegramma dell'E. V. in data di ieri, alla proposta
che egli aveva fatta all'Italia di prendere parte alla spedizione di
Egitto. Mi sono strettamente attenuto alla riserva raccomandatami da
V. E. Il conte Granville ha preso atto di questa risposta, come
anche dei sentimenti amichevoli espressi dall'E. V. verso
l'Inghilterra, la quale, dissemi, _aveva creduto di dare all'Italia
una prova d'amicizia, offrendole l'occasione di prendere parte ad
una azione che avrebbe potuto tornare a suo vantaggio._
Nel mio colloquio mi limitai ad insistere presso lord Granville
sulla assennatezza delle considerazioni addotte dall'E. V. in
seguito all'inaspettato e oramai risoluto intervento della Turchia
in Egitto. Il conte Granville fu con me parco assai di parole, prese
nota delle mie dichiarazioni modellate sul telegramma di V. E.,
riconobbe la di lei risposta non conforme ai suoi desideri, e
terminò col dirmi in termini sempre benevoli, che col proporci di
concorrere con l'Inghilterra al ripristinamento dell'ordine in
Egitto, il gabinetto britannico aveva creduto di dar prova di
amicizia all'Italia, invitandola a prendere parte ad un'opera che
sarebbe tornata di sua utilità.
MENABREA.
L'on. Mancini partecipò ai gabinetti di Berlino e di Vienna — cioè agli
alleati — il rifiuto opposto all'offerta inglese. Attendeva forse un
caloroso elogio; ma l'Hatzfeldt ringraziò della comunicazione
l'ambasciatore italiano, evitando “con la massima cura tutto ciò che
avesse potuto rassomigliare ad un'opinione favorevole o sfavorevole alla
proposta britannica„; e il conte Kálnoky “trovò molto corretti e
appropriati„ gli argomenti del Mancini!
Nella prima metà di luglio l'on. Crispi partiva da Roma per un viaggio
all'estero. Andò prima a salutare alla Consulta il suo vecchio amico P.
S. Mancini ed ebbe da lui una lettera di presentazione agli agenti
diplomatici e consolari nella quale era detto: “Il patriottismo di
questo nostro illustre Concittadino ed i meriti che egli ha acquistati
verso il Paese sono certo sufficienti ad assicurargli presso tutti i
Rappresentanti del governo all'estero una premurosa accoglienza. Ho
tuttavia desiderato ch'egli fosse munito di una mia speciale
commendatizia, e sarò particolarmente grato alla S. V. per tutte quelle
cortesie che vorrà usare a questo insigne Rappresentante della Nazione„.
Insieme alla commendatizia l'on. Mancini inviava augurii: “Buon viaggio,
e raccogli notizie e impressioni utili al tuo paese, a cui entrambi
consacriamo i primi nostri pensieri„.
L'on. Crispi si recò difilato a Berlino, dove giunto, il 17, chiese per
mezzo di una sua antica conoscenza, il barone Holstein, di vedere il
conte Hatzfeldt. Di un suo colloquio con l'Holstein, troviamo queste
note:
Alle 9,15 è venuto: si è discorso lungamente. La Germania nessun
interesse diretto nell'Egitto. Nessun bisogno di colonizzazioni, o
per lo meno non venuto ancora il tempo di pensare a stabilire
colonie. In ogni caso, non sceglierebbe mai l'Egitto.
Il principe di Bismarck con la nevralgia; i medici gli hanno
consigliato riposo — Hatzfeldt depositario delle sue idee.
L'indomani, colloquio con l'Hatzfeldt. Crispi ne prese nota così:
18 luglio 1882.
Il numero 136 della Koeniggraetzerstrasse segna la terza casa a
diritta della strada andando a Voss-Strasse. La casa è in fondo a un
giardino.
Il conte Hatzfeldt era nel suo gabinetto all'una pomeridiana e mi ha
intrattenuto sino alle due.
Parlando dei casi del giorno si mostrò disinteressato nella
soluzione del problema egiziano. Disse che accettò la Conferenza per
non dare pretesto alle Potenze di dire che la Germania con la sua
assenza impedisse una soluzione; ma senza alcuna fede nei suoi
lavori. La Germania non ha alcun interesse diretto. Nulla da
proporre, perchè non vuole assumere responsabilità. Non spenderà un
soldo, nè un soldato per l'Egitto. Chi si è messo nell'imbroglio, se
ne liberi. Non ha approvato, nè disapprovato il contegno degli
inglesi. Nel canale di Suez non sarà contrastato loro il libero
passaggio.
Alla Conferenza vogliono mantenuto lo _statu-quo_. Quale? Quello
anteriore al movimento militare? Quello anteriore al giugno 1879? La
frase è elastica — dice molto e dice nulla.
L'Italia ha interessi diretti — Spagna, Olanda, vogliono
intervenire.
Lasciare la dinastia? Tewfick senza autorità. Prendere Halim? Buono,
bravo, conosciuto per il buon caffè che si prendeva da lui — non
altro.
La posizione finanziaria, peggiorata dopo il 1879, ma hanno
interesse a vederci coloro che ne son causa.
La Germania accetterà qualunque soluzione che le Potenze troveranno
a proporre d'accordo, e per il ristabilimento dell'ordine e per un
governo egiziano. L'Egitto col Parlamento non può reggersi. Questa è
una istituzione che colà non può allignare. Ma per governare ci
vuole un principe di autorità ed energia. Noi non vogliamo far
quello che faceva l'Impero Napoleonico; non ci mischieremo finchè i
nostri interessi non siano lesi.
— _Io:_ I francesi vollero imitare i romani, ma ne seguono i vizi,
non le virtù. La repubblica e l'impero dei romani durarono molti
secoli; le repubbliche e gl'imperi francesi appena due decine di
anni.
— _Lui:_ I romani avevano di fronte genti barbare. Oggi le
condizioni dell'Europa sono diverse, e la Francia ha grandi e civili
Potenze attorno a sè. È quello che i francesi non vogliono capire.
Il conte Hatzfeldt mi parla del principe di Bismarck e della sua
infermità che gli impedisce di prendere parte agli affari. Tutto è
sulle spalle del Conte, il quale se ne duole sopratutto per le
grandi responsabilità che ha dovuto e deve assumere nella politica
estera.
Da Berlino l'on. Crispi passò a Londra, dove si decidevano i destini
dell'Egitto, e, per mezzo del suo amico Giacomo Lacaita, chiese di far
visita a lord Granville, ministro degli Affari esteri. Lord Granville
non soltanto si disse lieto di conoscere personalmente l'antico
rivoluzionario italiano, ma lo fece pregare di andare al _lunch_ da lui.
Ed ecco quello che Crispi scrisse dell'accoglienza ricevuta e delle cose
discorse:
29 luglio.
Lord Granville dimora nel palazzo di num. 18 a Carlton House
Terrace.
La riunione era fissata alle 2 pom.; all'1 ¾ Lacaita ed io siam
partiti dall'Athenaeum, e qualche minuto prima delle 2 siamo giunti
alla casa del Conte.
Appena entrati, il cameriere ci disse che il nobile ministro era
alla Camera e che ci pregava di aspettarlo. Fummo introdotti nella
biblioteca. Non appena seduti, udiamo uno strascico di vesti di seta
e ci appaiono di fronte lady Granville e le due figlie; lord
Granville entra dalla parte opposta. Fatte le debite presentazioni,
le dame procedono per la sala da pranzo e noi dopo pochi minuti le
seguiamo.
Lord Granville disse che vi era consiglio di ministri e che aveva
lasciato i suoi colleghi per trovarsi con me.
La sala da pranzo a Carlton House è grandissima.
Sedemmo: lady Granville in mezzo a Lacaita e alla sua figlia minore;
lord Granville aveva me a sinistra e la figlia maggiore a destra. In
mezzo alle due figlie era il suo segretario particolare ed appresso
un nipote del Conte; un altro nipote del Conte era alla mia
sinistra, cioè tra me e Lacaita.
Nei pochi minuti che fummo nella biblioteca e nei principii del
pranzo il discorso si versò sulla stampa italiana, sul ministero
francese e sul probabile voto della Camera francese.
Avendo io detto che Freycinet avrebbe avuto un voto contrario e che
probabilmente vi sarebbe stata una crisi, il Conte mi domandò:
— Quali uomini credete voi che andranno al potere!
— Un ministero di mezze figure.
— Anch'io sono del vostro avviso.
— Gambetta non può ritornare per ora. Egli significa la guerra, e la
Francia non vuole, nè può farla. Gambetta si è troppo presto
svelato, ed in Germania il suo nome accenna ad una levata d'armi.
— È vero.
— Freycinet è una garanzia di pace per la Germania.
— Egli ha lanciato la Francia in grandi spese con le sue leggi per
opere pubbliche.
— È un uomo tecnico, non un uomo politico.
— Avete ragione.
— I francesi non hanno che due vie: o chiudersi entro le loro
frontiere, sviluppare le loro ricchezze, assicurare il loro
benessere materiale, o far la guerra. In questi ultimi tempi si sono
chiariti contrarli alla guerra.
— E non potrebbero neanche farla. L'esercito francese non è in buone
condizioni, gli uffiziali non tutti buoni, i soldati indisciplinati.
Del vostro esercito, al contrario, ho avute ottime informazioni;
avete buoni soldati e buoni ufficiali.
— Piccolo esercito, ma buono. Potremmo triplicare le nostre forze,
facendo uno sforzo finanziario.
— Siete stato a Parigi?
— No, milord.
— A Berlino?
— Sì.
— E che dicono colà delle cose del giorno?
— Che nulla loro interessa della questione egiziana. E che
lasceranno scioglierla a coloro che vi hanno interessi diretti. A
Berlino non si pensa che alla Francia e alla Russia; sono le due
sole Potenze delle quali si preoccupano e dalle quali temono possa
sorgere la guerra. Pertanto il principe di Bismarck cerca di far
forte la Turchia e di aiutare la China nel riordinamento delle sue
forze.
— È pur troppo così; ma la Russia per ora non può dar fastidii
all'Europa.
— Lo comprendo, ma non sarà così in avvenire.
— Avete visto il general Menabrea?
— Sì, milord.
— E che umori ha egli in questi momenti?
— Mi disse che si sente risvegliare i suoi spiriti militari.
Lord Granville si pose a ridere: e la merenda (_lunch_) essendo
esaurita, lady Granville, le figlie, i nipoti, il segretario
particolare del Conte si sono alzati e andati via. Lord Granville ed
io siamo rimasti soli.
Avevo dimenticato di ricordare che pochi minuti prima che la merenda
terminasse, Lacaita si era congedato, dovendo andar fuori di Londra,
e l'ora incalzandolo. Sarebbe ritornato lunedì. Siamo rimasti soli
nella sala da pranzo. Il Conte avvicinò una sedia, feci altrettanto
e ci siamo di nuovo seduti.
— Dunque non volete esser con noi in Egitto?
— Da parte mia non perderei un momento di tempo per unirmi a voi.
— Ma il signor Mancini ha declinato il nostro invito.
— Me ne duole; e se ci fosse ancor tempo, e se fossi in Italia,
farei il mio possibile per persuadere il ministro ad intervenire con
l'Inghilterra in Egitto. Non potreste riprendere le pratiche?
— Noi, no. Il governo italiano lo potrebbe. Ma sapreste dirmi le
ragioni per cui il governo italiano si rifiuta?
— Potrei supporlo; non ho visto il ministro Mancini, e non so quali
sieno le sue idee. Forse il Mancini non crede di poter sostenere
innanzi le Camere lo scopo del nostro intervento in Egitto.
Voi ricorderete, milord, il modo come siamo stati trattati al 1879
da lord Salisbury e dal signor Waddington.
— Noi non ci entriamo nei fatti del 1879. E questa volta ci siamo
rivolti di preferenza all'Italia per darle una prova della nostra
amicizia. I nostri uffiziali avevano accolto con gioia la notizia di
una possibile alleanza con l'Italia; e sarebbero stati lietissimi di
battersi accanto ai vostri.
— Al 1879 l'Italia fu indegnamente cacciata dalla Francia e
dall'Inghilterra. Voi siete i primi pei commerci in Egitto, ma noi
non siamo gli ultimi.
— E la vostra popolazione in Egitto è superiore a tutte le altre.
— Sul debito egiziano il numero dei creditori italiani è
importantissimo. Io comprendo che mettendoci con voi, noi
riprenderemmo la posizione che ci fu tolta al 1879.
— Certamente.
— Il ministro Mancini avrebbe voluto qualche assicurazione su ciò,
per poterlo dire al Parlamento.
— Ma noi non vogliamo mercanteggiare. Vi assicuro soltanto che noi
non ci dogliamo del rifiuto dell'Italia e che le nostre relazioni
con voi resteranno amichevoli e cordiali come per lo innanzi.
La proposta fu da noi fatta al governo italiano con sincerità, con
cordialità. Avremmo voluto, vorremmo procedere d'accordo con esso.
— Potreste però riprendere le pratiche.
— Ma noi non possiamo metterci a ginocchi. L'Inghilterra è
abbastanza forte, e può anche fare da sè.
— Quali forze credete, milord, che sieno necessarie per l'impresa di
Egitto?
— I francesi sono di opinione che ci vogliono 40 mila uomini; ma noi
crediamo che 20 o 25 mila uomini basterebbero.
La guerra non può essere lunga. I pascià non sono d'accordo, e
bisogna contare sui loro dissidi. Arabì-pascià ha poca istruzione e
poco ingegno; e devo credere che nelle sue operazioni egli sia
aiutato da qualche europeo.
Che tempo vi bisogna per mobilizzare il vostro esercito?
— In un mese potremmo averlo pronto.
— È troppo.
— Forse m'ingannerò. Ma in Egitto non si può andar subito.
Nell'estate il clima non è favorevole agli europei.
— Ma non si possono lasciar le cose ancor lungamente nello stato in
cui sono.
— Credete voi che la Francia interverrà?
— Per ora la Francia si vuole limitare alla tutela del Canale di
Suez. Non sappiamo, qualora il ministero Freycinet cada, quello che
penserà fare il suo successore.
Si stette pochi minuti in silenzio, e ciascuno di noi pendeva dagli
occhi dell'altro. Allora il Conte:
— La nostra conversazione non ha nulla d'ufficiale. Forse non avrei
dovuto dirvi che il signor Mancini ha rifiutato l'invito.
— Milord, io sono un privato cittadino, e considero voi in questo
momento non come il ministro della regina d'Inghilterra, ma come un
amico d'Italia il quale parla ad un patriota italiano. Del resto, io
non dimenticherò che voi siete stati amici nostri quando l'Italia
non esisteva.
Alzatomi e salutatolo, egli riprese:
— Spero che ci rivedremo prima che partiate.
— Milord, siccome è mio dovere, verrò a congedarmi.
— Voi parlate l'inglese?
— Milord, non oso. E poi non lo comprendo bene. Il signor Gladstone
mi ha male avvezzato, perchè parla benissimo l'italiano.
Durante la conversazione venne un cameriere con un cassettino
bislungo. Il conte chiese il permesso di aprirlo; l'aprì, e prese e
lesse alcuni dispacci telegrafici.
— Voi avete i portafogli. Noi ci serviamo dei cassettini.
Si alzò, scrisse e consegnò tutto al cameriere.
Lord Granville è di statura ordinaria; barba all'inglese, occhi
cerulei, una faccia tutta bontà. Riservato e cauteloso, egli
parlando mette tutta la cordialità e vi ispira fiducia.
Le seguenti lettere, inviate in quei giorni a Roma,[16] rendono conto
dei giudizi di Crispi sulla questione egiziana e degli sforzi che fece
affinchè il Mancini accettasse l'invito dell'Inghilterra:
[16] A Primo Levi, direttore della _Riforma_. _(N. d. C.)_
Londra, 25 luglio 1882.
Ero partito d'Italia col pensiero di fare un viaggio di piacere; ma
mutai proposito pensando che valeva meglio un viaggio d'istruzione.
Mi recai dunque pel Gottardo a Berlino, dove rimasi sette giorni. Da
Berlino, per la via di Bruxelles e Ostenda, venni a Londra, dove
starò questi giorni di luglio.
Quali sono le mie impressioni? Non confortanti per il nostro paese;
se il Governo non saprà svegliarsi in tempo, avremo nuovi danni dopo
quello di Tunisi.
La Germania è completamente disinteressata nelle cose africane, e
lascia fare a coloro che vi hanno o credono avervi interessi
diretti. Bisogna dunque affrettarsi a prendere una parte attiva
senza scrupoli, nè timori.
L'accordo europeo è una commedia, e la Conferenza di Costantinopoli
un giuoco da fanciulli. Le Potenze si sono riunite, perchè non vi
era altro da fare. La nessuna importanza della riunione, è provata
dal fatto di chi la presiede.[17] Chiunque intervenga in Egitto,
sarà tollerato; non verrà una guerra da ciò. E chi interverrà
acconcerà le cose a modo suo.
[17] Sino al 24 luglio fu presieduta dal conte Corti, ambasciatore
d'Italia a Costantinopoli, quale decano di quel corpo diplomatico.
_(N. d. C.)_
Bismarck pensa all'Impero, e la sua politica ha un solo scopo: che
l'Impero stia e si consolidi. Contro l'Impero non vede che due soli
nemici: la Russia e la Francia. Le sue alleanze sono combinate in
vista di una guerra che gli potesse venire da coteste due Potenze.
Si è legata indissolubilmente l'Austria, e lavora a riordinare un
forte esercito in Turchia. Poco si cura dell'Italia; sa che in caso
di guerra non può esserle nemica....[18] Se fossimo armati, la
nostra posizione in Europa sarebbe tutt'altra. Avrebbero necessità
di noi e nulla farebbero senza di noi. In fatto d'armamenti voi non
potete immaginare con quale impulso febbrile si proceda qui....
[18] L'on. Crispi evidentemente ignorava, quando scrisse questa
lettera, il trattato della Triplice Alleanza stipulato pochi mesi
prima. _(N. d. C.)_
Il Mancini si consola della sua politica — e ne ha ragione, perchè
eravamo caduti troppo in basso con Cairoli. — Ma ancora non ha
portato alcun benefizio reale, e non può portarne. Non abbiamo
nemici, ma non abbiamo amici, quantunque tutti ci desiderino come
tali. Ma siccome non si fidano, e nulla noi facciamo per metterci
davanti ed agire, tutti procedono nel loro interesse senza curarsi
di noi, e ci lasciano indietro.
Ormai bisogna intervenire in Egitto. La Germania non si opporrebbe e
ci resterebbe amica; l'Inghilterra lo desidera, e ci accoglierebbe
di buon grado. Intervenendo, nulla si farebbe nell'Africa senza di
noi; e sopratutto s'impedirebbe che altri agisse a danno nostro. Se
resteremo inerti, la Francia si consoliderà nella Tunisia e sarà in
pericolo la Tripolitania. Il Mediterraneo ci sarà tolto per sempre.
A proposito della Tunisia ho sentito tali cose sul contegno dei
nostri a Berlino nel 1878, da far trasecolare. Fummo giuocati in un
modo indegno per la imperizia di chi ci rappresentava.
A Corte qui son dolenti della stampa italiana, e non sanno
comprendere il motivo dei nostri risentimenti. Il principe di Galles
se ne dispiacque e soggiunse che l'Italia farebbe male a lasciar
passare anche questa occasione di prender parte all'intervento. E
qui piacerebbe, perchè noi saremmo di contrappeso alla Francia, che
non è amata.
Se per mezzo di Fabrizj volete far leggere questa mia a Mancini,
fatelo. Ma conservatela, perchè non me ne resta copia, e un giorno
potrebbe essere un documento.
Londra, 26 luglio 1882.
L'Inghilterra ha bisogno di un'alleata militare nella impresa di
Egitto. E sarebbe lieta se questa alleata fosse l'Italia. So che
l'invito formale è stato fatto al nostro Ministero; Dio voglia che
il Mancini non risponda siccome fece Corti al 1878; e le conseguenze
miserande le conoscete.
In Francia, per le incertezze del Freycinet, si prepara una
coalizione contro di lui, e non è difficile che fra due o tre giorni
avremo colà una crisi. Allora Francia e Inghilterra si combineranno,
e noi resteremo esclusi. Bisogna dunque non perdere tempo ed
accettare immediatamente l'invito che ci viene fatto.
L'Inghilterra è pronta a tutto perchè al dramma egiziano sia data
una soluzione conforme ai suoi interessi. Stamattina il _Times_
parlava della necessità di un governo in Egitto sotto il
protettorato Inglese. Se l'Italia ricusa, l'Inghilterra farà
qualunque concessione alla Francia. Allora avverrà quello che io vi
scrissi ieri: la Francia, consolidata in Tunisia, forse col permesso
di aggredire la Tripolitania. Il Mediterraneo ci sarebbe chiuso.
Non è difficile che la Germania, prevedendo tutto ciò e volendo
aiutare la Turchia, persuada questa ad intervenire. In effetto,
stamattina si dava come certo la Porta avere risposto che
interverrebbe; e rimetteva ad altro giorno di dirne le condizioni.
Come comprendete, sarebbe cotesta una nuova dilatoria per impedire,
o per lo meno ritardare l'intervento delle Potenze mediterranee.
La Francia però non vuol sentir della Turchia perchè non vuole che
essa si avvicini ai suoi possedimenti africani. E l'Inghilterra non
se ne fida, perchè vede la mano turca in tutto l'imbroglio egiziano.
Il nostro intervento non sarebbe avversato dalla Germania, anzi
sarebbe bene accolto. Parrebbe al gran Cancelliere che in tal modo
si dissiperebbero i malumori per l'intrigo di Tunisi. Certamente non
lo proporrebbe, nè c'inviterebbe, perchè non è suo interesse ed egli
preferisce lavarsene le mani.
Londra, 27 luglio 1882.
.... La questione è grave e l'Italia è molto interessata nel
Mediterraneo, perchè non si lasci sfuggire l'occasione che le si
offre. Riprendo quindi la penna per parlarvene un'altra volta.
Si è censurato l'invio delle navi da guerra e il bombardamento
d'Alessandria come un attacco alla indipendenza di un governo e di
un popolo straniero. Oggi le cose sono mutate. Tewfick non è più con
Arabì, e questo, separandosi dal suo principe e servendosi delle
truppe sulle quali non ha legittima autorità, è un ribelle contro il
governo legale del suo paese. Perchè l'opera sua sia legittimata,
bisogna che sia coronata dal successo, cioè che vinca, atterri il
principe, costituisca un governo nazionale. Per ora, siccome il
successo è ipotetico, egli è un ribelle.
Che vogliono le Potenze mediterranee, cioè l'Inghilterra e le
Potenze che a lei si associerebbero? Il ristabilimento dell'autorità
del Kedive, e però il ritorno di un governo che assicuri l'ordine
all'interno e dia garanzie all'Europa. Pertanto Gladstone ieri,
rispondendo all'on. Lawson, diceva che non era necessaria una
dichiarazione di guerra, le truppe inglesi scendendo in Egitto quali
amiche del capo dello Stato e per ristabilirne, d'accordo,
l'autorità manomessa.
Ciò posto il nostro intervento in Egitto non sarebbe un'offesa ai
principii di nazionalità ed all'autonomia di un altro paese. Noi vi
andremmo per riprendere, quando dovrà riordinarsi il governo, quella
influenza che ci compete, insieme alle altre Potenze che hanno
interessi diretti in quel paese. La nostra presenza è una necessità
per noi e per l'Egitto una garanzia, poichè sotto la nostra bandiera
non sarebbe permesso alcun atto di conquista. Anche intervenendo in
tre — appunto perchè tre — nessuno potrebbe restarvi, e tutti
dovrebbero andar via dopo ristabilito l'ordine.
Perchè l'Italia aderì alla Conferenza e chiese l'accordo europeo?
Per rompere l'accordo anglo-francese. Soli, eravamo impotenti, e
perchè soli e male avveduti al 1879 fummo sacrificati. L'accordo
anglo-francese non esiste più. Le parole dei Ministri francesi e
quelle degli inglesi che parlano di cotesto accordo, sono una
simulazione. I due paesi hanno conflitto d'interessi in Egitto, e
scopi diversi a raggiungere. Da ciò lo invito che a noi viene
dall'Inghilterra, la quale ama unirsi ad una Potenza come l'Italia,
che non sogna l'Impero africano. Mancato lo scopo della Conferenza e
noi avendo ottenuto quello che desideravamo con l'accordo europeo,
non ci resta che provvedere ai nostri interessi nel Mediterraneo.
Qual'è la posizione degli europei in Egitto, in ordine di
popolazione e quanto ai commerci? In ordine di popolazione —
eccettuata la Grecia — noi siamo i primi; poi viene la Francia, poi
l'Inghilterra, poi l'Austria, ultima la Germania. E dico esser noi i
primi perchè della popolazione detta francese, appena una metà è di
naturali, il resto essendo protetti. In ordine ai commerci noi siamo
la quarta Potenza; ci segue l'Austria; ultima è la Russia. Della
Germania non se ne parla. Le quattro Potenze che primeggiano vanno
così collocate: Inghilterra, Francia, Olanda, Italia.
Quali sono le nazioni prospicienti sul Mediterraneo? La Spagna, la
Francia, l'Italia, la Grecia. E le tradizioni, il passato? Italia e
Grecia precedono.
Raccogliendo codesti dati e valutando gl'interessi diretti in Egitto
e nel Mediterraneo che non possono lasciarsi vincere, è chiaro che
primeggiano l'Inghilterra, l'Italia e la Francia. Escludo la Spagna,
l'Olanda e la Grecia, perchè la prima non ha importanza in Egitto,
nè per la popolazione, nè per i commerci; la seconda se l'ha per i
commerci, non l'ha per la popolazione; tutte e tre sono Potenze di
secondo ordine e non siedono in Costantinopoli.
Se coteste circostanze ci obbligano a prendere ed a tenere la nostra
posizione, ci spiegano anche i motivi pei quali la Germania se ne
lava le mani e l'Austria non si riscalda. In Berlino dicevano: «La
questione egiziana se la risolvano coloro che vi hanno interessi
diretti; non trarremo la spada per essa».
E dopo ciò parmi aver detto abbastanza per indicare quale dovrebbe
essere il nostro contegno, per determinare i nostri diritti e i
nostri doveri. In Egitto si scioglie la questione del dominio nel
Mediterraneo, e possiamo rifarci delle sconfitte tunisine.
«Londra, 29 luglio 1882.
_Mio caro Mancini_,
Sono dolentissimo che hai declinato l'invito che ti fu fatto
dall'Inghilterra di intervenire in Egitto. Voglia Iddio che il tuo
rifiuto non sia causa di nuovi danni all'Italia nel Mediterraneo.
Bisognava accettare senza esitazione. Quando Cavour ebbe fatta
l'offerta di unirsi alle Potenze occidentali per andare in Crimea,
non vi pensò un istante. Il governo del piccolo Piemonte ebbe quel
coraggio che oggi manca al governo d'Italia.
Il tuo aff.mo
F. CRISPI.»
Londra, 29 luglio 1882.
Stamattina, stizzito, vi acclusi lettera per Mancini col
proponimento di non parlarvi più di politica. La stampa italiana fa
troppo la sentimentale e concorre col governo a far perdere
all'Italia l'occasione che la fortuna ha messo in nostre mani.
Ricevo ora il vostro telegramma che m'informa Mancini desiderare il
mio pronto ritorno. Vi risposi telegraficamente.
È bene inteso che quanto io vi scrivo.... vale a prevenire Mancini,
se mai è in tempo per correggere il mal fatto.
Il Governo inglese, nell'impresa egiziana, preferisce noi ai
francesi. È inutile spiegarvene i motivi. Un giorno Granville
vedendo il Menabrea gli disse: «Se vi chiedessimo d'esser con noi in
Egitto, accettereste?». E l'altro: «Certamente». Non era un
linguaggio ufficiale, ma parole gettate così per tastare il terreno.
Alcuni giorni dopo il principe di Galles vide Menabrea e si
congratulò con lui. Vi avverto intanto che queste cose io non le so
da Menabrea, perchè costui fa con me il misterioso, tanto che non
andrò più a trovarlo.
Finalmente venne l'invito; ed io sapendolo, e Menabrea ignorando che
io lo sapessi, venni da lui pregato di telegrafare a Mancini a nome
mio, in cifra, esser mia opinione di dovere accettare l'impresa
egiziana qualora gliene venisse l'offerta. Mancini ringraziò prima,
chiedendo consigliarsi coi suoi colleghi, poi rifiutò.
Qui mi dissero che non se ne lagnano, e che le relazioni dei due
governi dureranno cordiali. Avrebbero desiderato una risposta
favorevole; fecero l'offerta per provare all'Italia la loro vera
amicizia.
Io non posso esporvi quello che fu detto stamattina alla tavola di
un ministro dal quale fui invitato a colazione....
Mancini mi vuole in Roma. Perchè? Forse per mutare contegno? O per
motivare il suo contegno e persuadermi che ha fatto bene? Pel primo
motivo avrei bisogno di rivedere i capi di questo Ministero, e
domani è domenica e tutto si mette a dormire per ventiquattro ore.
Pel secondo motivo, è inutile il mio ritorno in Italia.
Londra, 30 luglio 1882.
Il 26 vi parlai di una possibile crisi ministeriale in Francia ed il
28 vi telegrafai (con un giorno di precedenza) che il Ministero
Freycinet avrebbe avuto alla Camera una votazione contraria. Nelle
mie lettere ho preveduto che se il Ministero italiano non si fosse
associato all'Inghilterra per intervenire all'Egitto, questa si
sarebbe messa d'accordo con la Francia e saremmo rimasti espulsi dal
Mediterraneo. Le cose francesi sono andate come io aveva previsto.
La seconda parte delle mie previsioni non è ancora realizzata, ma è
in via di realizzarsi. Per evitare il gran danno, ieri telegrafai a
Fabrizj[19] con la vostra cifra, nella speranza ch'egli avesse
potuto scuotere Mancini dalla sapiente inerzia nella quale si è
messo....
[19] Il telegramma al generale Fabrizj era così concepito: «Prega
Mancini riprendere trattative col Ministero inglese. Faccia presto.
Ogni indugio rovinoso». _(N. d. C.)_
In Italia i giornali — moderati e progressisti — sono partiti da un
dato falso. Essi credevano Francia ed Inghilterra d'accordo, e che
l'invito all'Italia fosse partito da tutte e due. Nessun accordo
fin'oggi tra Parigi e Londra, ma l'accordo può esser fatto domani
col nuovo Ministero. Freycinet è caduto non già perchè voleva
occupare il canale di Suez, ma perchè non voleva andare in Egitto.
Il credito alla Camera francese fu respinto, non perchè si volesse
rifiutare il danaro al Ministero, ma perchè il danaro chiesto da
esso era poco. I francesi, dopo che gl'inglesi bombardarono
Alessandria e cominciarono a mandar truppe in Egitto, vogliono
intervenire anch'essi; e questo, e non altro, è il significato del
voto di ieri; gl'inglesi avevan voluto prevenirli coll'alleanza
italiana. Non ci sono riusciti. Non dovremo, nè potremo lagnarci se
nel loro interesse si uniranno alla Francia e le faranno larghe
condizioni.
Chi andrà in Francia al potere? O Waddington o gli uomini suoi. Il
discorso fatto da lui al Senato è segnalato come un capolavoro.
Siccome Gambetta non può andare e Freycinet non può restare,
bisognerà che venga un Ministero il quale contenti la maggioranza
parlamentare e ripigli l'impresa africana come era stata ideata sin
da principio. Waddington combinò l'affare tunisino in Berlino, e
Waddington ci cacciò dall'Egitto. Con lui, dunque, ed i suoi,
sappiamo quello che ci attende. Noi saremo bloccati nel
Mediterraneo, e questa volta la colpa è nostra.
Martedì sera sarò a Parigi.... Vi assicuro che la politica mi tiene
inquieto e vorrei liberarmene.
Londra, 31 luglio 1882.
Ancora splende lo stellone d'Italia, e, nonostante i nostri errori,
la posizione delle cose non è peggiorata: abbiamo tempo ancora per
migliorare la nostra politica.
All'ora in cui scrivo (4 ½ pom.) nessuna notizia dalla Francia circa
la soluzione della crisi. Ogni giorno che passa è un guadagno per
noi. Qui grande battaglia alla Camera dei Pari per la legge sugli
arretrati dei fitti in Irlanda. Lord Salisbury farà un emendamento
che il Governo non accetterà; e se i Pari lo voteranno, non vi sarà
modo d'intendersi fra le due Camere, e si prevede in tal caso lo
scioglimento della Camera dei Comuni. I conservatori non credono di
vincere nelle elezioni generali; nondimeno lord Salisbury si è
incaponito e non v'è modo di dissuaderlo. Non voglio prevedere il
caso di una vittoria dei conservatori, perchè allora la nostra
posizione nel Mediterraneo deteriorerebbe.
La crisi parlamentare in Inghilterra — ove avvenisse — e la durata
della crisi ministeriale in Francia, la quale anch'essa potrebbe
esser seguita da una crisi parlamentare, darà a noi tempo di
riflettere e di prepararci ad agire.
Nelle mie lettere ho detto abbastanza sul contegno che dovremmo
tenere. Oggi farò poche considerazioni. L'Italia, nel Mediterraneo,
dev'essere d'accordo con l'Inghilterra. Questa non teme lo sviluppo
della nostra marina, anzi è lieta di questo sviluppo, perchè di
fronte alla Francia è una forza di opposizione. Come vi dissi altra
volta, l'Inghilterra non si preoccupa che della Francia. Amici degli
inglesi ed alleati, non abbiamo da temere sui mari. Se avvenisse
diversamente, non saremmo padroni delle nostre spiaggie.
Nella politica continentale, poi, il caso è tutt'altro. È nostro
dovere agire di concerto con la Germania. Non agendo di concerto,
dovremmo essere fortemente armati, perchè la Germania ci rispettasse
e chiedesse l'opera nostra.
Sono identici i motivi della politica continentale e della politica
marittima, in entrambe avendo innanzi a noi lo stesso nemico da
combattere. Nella questione d'Egitto avevamo questo di bene, che
unendoci all'Inghilterra, la Germania non ci era nemica. Quindi non
v'era da esitare.
«Londra, 1 agosto 1882.
Siccome il telegrafo vi avrà annunziato, ieri gli emendamenti
proposti dai conservatori alla legge per gli arretrati dei fitti
d'Irlanda, furono votati a grandissima maggioranza. Il Governo non
può lasciarli passare, e i Comuni non li accetteranno. Essendo
impossibile un accordo su questo argomento fra le due Camere, lo
scioglimento dei Comuni credesi inevitabile. Posso assicurarvi che
il Ministero ne è preoccupato.
Lo scioglimento della Camera dei Comuni è visto da alcuni uomini
politici coi quali oggi ho parlato, problematico nei suoi effetti.
Vi sono di coloro i quali credono possibile la sconfitta dei
liberali. Per l'Inghilterra non sarebbe un bene, perchè i
conservatori nella questione irlandese non sono una garanzia, ma per
noi italiani sarebbe un danno, Salisbury essendo stato l'autore di
tutto ciò che è avvenuto contro di noi in Tunisi ed in Egitto. A
prevenire ogni pericolo, bisognerebbe che Mancini legasse gl'inglesi
con un accordo scritto. Ed egli lo può, prendendo occasione
dall'ultimo suo dispaccio per la polizia marittima del canale di
Suez. Fatta una convenzione, qualunque ministro venisse dovrebbe
rispettarla.
In Francia sono talmente imbrogliati che la formazione di un
Ministero diviene ogni giorno più difficile. I nostri fratelli in
latinità ci danno tempo per agire. Voglia Dio che sappiamo
profittarne.
Qui sono dolenti del contegno della stampa italiana. In verità si
potrebbe essere più cortesi, anche combattendo le opinioni degli
inglesi. Bisogna ricordarsi che sono al potere in Inghilterra gli
amici nostri. Gladstone fu il primo a sollevare la questione
italiana quando l'Italia era divisa in sette Stati. Sono famose le
sue lettere contro Ferdinando di Napoli. Al 1860 furono essi che
imponendo il non-intervento, impedirono a Napoleone III di mandar le
navi nello stretto di Messina, per opporsi al passaggio di Garibaldi
sul continente. Furono i soli che protestarono contro la cessione di
Nizza e Savoia. Furono i primi a riconoscere il regno d'Italia. In
particolare poi vi dirò che il 29 maggio 1860, mentre una nave del
re di Sardegna ci rifiutò la polvere, ce la diede una nave inglese.
Bisogna esser grati per tanti benefici, ed anche combattendo non si
deve esser duri.
Parigi, 3 agosto 1882.
.... Io non credo che Mancini abbia preso impegni per le cose
egiziane a Berlino. Se lo ha fatto, ha commesso un errore. La
Germania non ha interessi diretti nel Mediterraneo, e gli uomini di
Stato di quel Paese, lo dicono e lo ripetono. Noi siamo e viviamo
nel Mediterraneo, e nel regolare le questioni relative dobbiamo
ispirarci e regolarci secondo i nostri interessi. Per la Germania,
poi, la nostra politica dev'esser questa: amicizia e, secondo i
casi, alleanza; giammai la dipendenza e molto meno il sacrificio dei
nostri diritti, massime quando questo sacrificio non giova alla
nostra alleata e non ci è compensato....
Le cose parlamentari in Inghilterra si accomodano. Gladstone troverà
il modo di far passare ai Comuni un emendamento che possa essere
accetto ai Pari. In caso contrario, chiuderà la sessione per aprirne
un'altra in ottobre o novembre allo scopo di rifare con qualunque
modificazione la legge per gli arretrati dei fitti in Irlanda. Non
avremo dunque scioglimento della Camera inglese.
Qui si parla di un Ministero d'affari. Sarà un Ministero di vacanze
parlamentari per venire poi alla formazione di un nuovo Ministero
alla riapertura della Camera.
Abbiamo il tempo di rivedere le cose e correggere anche la nostra
politica.
CAPITOLO QUARTO.
Dal primo al secondo trattato della Triplice Alleanza.
L'errore d'origine: l'Imperatore d'Austria non viene a
Roma. — I Reali d'Italia, per ciò, non possono andare a
Berlino. — Colloquio tra il principe di Bismarck e il duca
di Genova: il pericolo di guerra è rappresentato dalla
Francia e dalla Russia. — Il principe Federico Guglielmo a
Roma. — Il gabinetto italiano scontento degli alleati. — Il
generale Robilant ministro degli Affari esteri. — Un altro
giudizio del principe di Bismarck sulla situazione in
ottobre 1885. — I negoziati per la rinnovazione della
Triplice Alleanza. — Con quali argomenti il principe di
Bismarck indusse l'Inghilterra ad un accordo con l'Italia
per il Mediterraneo. — Il nuovo trattato del 20 febbraio
1887.
L'accessione all'alleanza austro-germanica, se tolse l'Italia
dall'isolamento e orientò la sua politica estera, non dette frutti
tangibili. Nessuno per qualche anno seppe nulla del trattato; i ministri
della Triplice sia dalla tribuna parlamentare, che nei ricevimenti
diplomatici, negarono l'esistenza di impegni scritti. D'altronde, se
niente esteriormente apparve mutato nelle relazioni fra i tre Stati —
tranne nell'intonazione dei giornali austriaci che divenne più cortese,
e ne fu dato il merito al viaggio di re Umberto — poco o nulla si fece
da parte nostra per rendere veramente intime quelle relazioni, e
vantaggiose. Già, nei rapporti con l'Austria l'impresa non era agevole;
il ravvicinamento degli animi non era stato spontaneo, la dominazione
austriaca in Italia era tuttavia ricordata con rancore da molti che ne
avevano sofferto; e dall'altra parte, a Vienna, si aveva poca fede in un
governo che si reggeva sui principii di libertà ed era debole, per
dippiù, coi partiti estremi.
Un errore del Mancini, commesso già prima della firma del trattato,
accrebbe gli ostacoli al miglioramento della situazione. Quando egli
fece annunziare al gabinetto austro-ungarico il desiderio del re Umberto
di visitare l'Imperatore, non richiese impegni per la restituzione a
Roma della visita; anzi non fece motto di restituzione; e non già per
oblio — che i suoi collaboratori, primo fra tutti l'ambasciatore
Robilant, l'avrebbero avvertito — ma perchè, conoscendo gli umori
dominanti nelle alte sfere austriache, sapeva che se avesse fatto
condizione della venuta a Roma dell'Imperatore, il viaggio progettato
sarebbe andato a monte.
Quell'errore danneggiò nell'opinione pubblica il clima dell'alleanza, e
ne durano gli effetti; poichè parve, e pare tuttavia, che l'Austria non
ci trattasse colla considerazione che ci era dovuta. Esso ebbe anche una
conseguenza a breve distanza, giacchè impedì che i Reali d'Italia si
recassero a Berlino nel 1883 a visitare il glorioso Guglielmo I.
Il principe di Bismarck aveva mosso per il primo la pedina,, facendo
dire alla Consulta dall'ambasciatore Keudell che i Sovrani italiani
erano desideratissimi in Germania e che l'Imperatore avrebbe accolto con
grande gioia una loro visita. Aveva, bensì, avvertito nello stesso tempo
che, sebbene Guglielmo non avesse difficoltà a recarsi a Roma, sarebbe
stato poco prudente fare intraprendere il lungo viaggio ad un vegliardo
di 86 anni. Il principe ereditario, Federico Guglielmo, avrebbe potuto
sostituire il padre.
Se fosse mancato il precedente austriaco, la proposta avrebbe potuto
accettarsi, perchè ragionevole sarebbe stato il motivo della
sostituzione; e del resto il principe Federico Guglielmo, già recatosi a
Roma pei funerali di Vittorio Emanuele, aveva lasciato in Italia ottimo
ricordo di sè. Ma dopo l'astensione di Francesco Giuseppe era
impossibile transigere.
Il principe di Bismarck desiderava tanto la visita dei Sovrani d'Italia
che, il 1.º marzo 1883, conversando col duca Tomaso di Savoia, il quale
si trovava in Germania pel suo matrimonio con la principessa Isabella di
Baviera, portò il discorso sul vagheggiato viaggio reale, del quale il
Duca nulla sapeva.
È interessante, a proposito di questo incontro, riferire il giudizio
espresso al duca di Genova dal principe di Bismarck circa la situazione
internazionale di allora.
“Egli disse che i buoni rapporti tra la Germania e l'Italia erano una
conseguenza naturale del fatto che gl'interessi di queste due Potenze
non divergevano, anzi cospiravano al mantenimento della pace generale.
Lo stesso è a dirsi delle relazioni del Gabinetto di Berlino con quello
austriaco; l'Austria aveva completamente rinunziato alla sua antica
politica di lotta e di dominazione in Germania come in Italia, politica
che era stata nel passato cagione di grande debolezza per la Casa degli
Asburgo. Per ciò la Germania si trovava allora in una intimità perfetta
col vicino impero, la quale non poteva non influire sui rapporti
italo-austriaci. L'accordo di queste tre Potenze — soggiunse il Principe
— offre una solida e mutua garanzia dal punto di vista difensivo. Il
Gabinetto di Berlino non pensa ad attaccare nessuno, ma è pronto e
risoluto, offrendosene l'occasione, a respingere energicamente qualsiasi
aggressione. Il pericolo viene dalla Francia, dove le passioni sono
sempre in ebollizione, e dalla Russia, dove, per non citare che un solo
dettaglio, l'esercito è malcontento. Le truppe sono sparse su di un
territorio vasto: l'ufficiale, relegato nelle piccole guarnigioni, si
annoia, e preferisce la guerra ad una vita non solamente manchevole di
ogni distrazione, ma circondata da molte privazioni.„
I Reali d'Italia non andarono a Berlino, e tuttavia Federico Guglielmo
venne ufficialmente a Roma nel dicembre di quell'anno 1883 per
ringraziare — si disse — il Re delle accoglienze straordinarie ricevute
in Genova, ma in realtà perchè il Bismarck volle dare una pubblica
prova, ammonitrice per i presunti nemici della Germania, degli
eccellenti rapporti che questa teneva con l'Italia. Della qual cosa si
fu scontenti a Vienna, perchè le feste tributate al principe ereditario
germanico fecero risaltare la freddezza delle relazioni
italo-austriache, e ricordare che Francesco Giuseppe era in debito di
una visita doverosa.
Il Ministero Depretis-Mancini, timoroso di irritare la Francia, già in
allarme per la voce corsa sui giornali dell'esistenza di una alleanza,
era piuttosto imbarazzato che contento delle ostentazioni dell'intimità
italo-germanica. E la sua condotta ispirò a tale preoccupazione,
commettendo l'errore, che è stato di poi ripetuto, di rinunziare a
trarre dall'alleanza i vantaggi che essa poteva dare, per correre dietro
alla fisima di una amicizia con la Francia, chiaritasi chimerica per
l'impresa di Tunisi, e ad ogni modo allora incompatibile coi legami
stretti con la Germania.
Così, mentre l'alleanza austro-germanica diveniva sempre più cordiale e
raggiungeva lo scopo di fronte alla Russia, la quale nel marzo 1884 si
riavvicinava ai due imperi centrali, l'Italia era in sospetto a tutti, e
negletta dagli alleati.
Alle Delegazioni, il ministro Tisza, rispondendo ad una interpellanza
Helfy, aveva parlato delle relazioni estere dell'Austria-Ungheria senza
accennare all'Italia; e nel Parlamento austriaco il ministro Taaffe
aveva mantenuto un'attitudine passiva a fronte del linguaggio offensivo
verso l'Italia di un deputato dalmata di razza slava. Le diffidenze e il
malvolere delle classi dirigenti austriache apparivano ad ogni
occasione. Nè migliori disposizioni si notavano nel governo germanico,
chè anche il principe di Bismarck ci manifestava marcatamente la sua
noncuranza.
L'on. Mancini fortemente si lagnava di tutto ciò. All'infuori dei
termini del trattato, dei casi previsti, non derivava dal fatto stesso
dell'alleanza l'obbligo dell'assistenza fin là dove cominciasse per
avventura il conflitto d'interessi tra l'uno e gli altri alleati? Così
egli aveva interpretato il patto in ogni circostanza, ma diversamente
gli alleati si regolavano nelle questioni d'interesse italiano. Perchè?
L'on. Mancini restò al Ministero sino al 29 giugno 1885; gli successe,
dopo un breve _interim_ del Depretis, il Robilant, il quale il 6 ottobre
di quell'anno passò dall'ambasciata di Vienna alla Consulta. Aveva fatto
buona prova come diplomatico e acquistato prestigio presso le
Cancellerie d'Europa pel suo carattere diritto, per i suoi nobili
sentimenti, per la sua intelligenza. Questo prestigio personale giovò al
paese, perchè conferì al nuovo ministro l'autorità necessaria presso il
principe di Bismarck ed il conte Kálnoky per fare includere nel trattato
della Triplice Alleanza la tutela di taluni interessi italiani.
Si può dire che l'esistenza ministeriale del conte di Robilant sia stata
tutta dedicata alla rinnovazione del trattato. Poco soddisfatto delle
stipulazioni del 1882, pur da lui negoziate a Vienna in momenti nei
quali l'Italia si offriva, l'esperienza gliene avea dimostrate le
lacune, e si propose di colmarle.
I due gabinetti di Vienna e di Berlino gli manifestarono subito il
desiderio di continuare l'alleanza; ed egli, consentendo in massima,
prese tempo per aprire le trattative. Scartava l'idea di non
continuarla, come quella di rinnovarla tale e quale; ma per proporre
nuovi patti bisognava pensarvi, e l'Italia non doveva far vedere che
avesse fretta.
Il 19 ottobre il principe di Bismarck, rispondendo al saluto dal conte
di Robilant inviatogli nell'assumere il nuovo ufficio, gli fece sapere
che le sue parole avevano prodotto in lui la migliore impressione, e che
per fargli cosa gradita avrebbe ricevuto a Friedrichsruh l'ambasciatore
di Launay.
Il conte di Launay fece la visita il 24; il giorno precedente era stato
dal Gran Cancelliere l'ambasciatore francese. Il Principe accennò al
nuovo trattato, si disse disposto a renderlo più pratico ed intimo, non
fece obbiezioni all'osservazione del di Launay che per allora non si
chiedeva altro che preparare il terreno, migliorando la pratica dei
patti esistenti. Poi, con evidente sincerità, gli parlò della
situazione:
“Allo scopo di mantenere la pace egli aveva cercato, dal trattato di
Versailles in poi, di rimanere in buoni termini con la Francia, di non
ostacolarla nella sua politica di espansione in Tunisia, in Cina, nel
Madagascar e sulla costa occidentale d'Africa. Le dava così qualche
indennizzo, qualche soddisfazione d'amor proprio; ma le aveva anche
fatto comprendere chiaramente che doveva rinunziare per sempre
all'Alsazia. Seguendo lo stesso ordine di idee, egli era divenuto in
certo modo, specialmente in Egitto, l'ausiliario degli interessi
francesi. Ma i suoi sforzi erano stati sterili. La sua assiduità, la sua
quasi servilità nel corso degli ultimi quindici anni, era stata una
delusione. La Francia, nelle sue grandi correnti d'opinione pubblica,
pensa sempre alla rivincita, e se la prende con tutti coloro che non
partecipano ai suoi rancori. Essa ne ha data l'ultima prova nell'affare
delle Caroline. Le recenti elezioni generali avranno, d'altronde, come
risultato la tendenza del suo governo verso il radicalismo. E in tali
circostanze il Cancelliere riconosceva l'accresciuta importanza
dell'accordo fra i tre Imperi e l'Italia. Egli aveva destinato allora
all'ambasciata di Londra il conte di Hatzfeldt, che sarebbe riuscito
meglio del Münster a stabilire anche un ravvicinamento con
l'Inghilterra„.
Il ministro Robilant, deciso a non prendere l'iniziativa dei negoziati,
fu contento dell'accoglienza fatta dal Principe al concetto che il nuovo
trattato dovesse dare soddisfazione alle legittime e modeste esigenze
dell'Italia, ed attese. Finalmente, in ottobre 1886, il principe di
Bismarck fece il primo passo, dichiarandosi pronto ad aprire le
trattative tanto a Roma che a Vienna. Il Robilant dapprima nicchiò,
dichiarando che _con_ o _senza_ alleanza, l'Italia avrebbe proceduto
d'accordo con la Germania e con l'Austria-Ungheria; poi disse che
l'opinione pubblica italiana non vedeva i benefici dell'alleanza, che
gli alleati non avevano mai dato all'Italia una prova di fiducia
completa, che Bismarck non trovava mai tempo per conferire personalmente
con l'ambasciatore d'Italia. Queste lagnanze e la riluttanza, più
apparente che reale, a rinnovare il trattato, fecero il loro effetto. In
realtà, grave impressione avrebbe prodotto la cessazione dell'alleanza,
e la Germania, tra la Francia nemica e la Russia poco benevola, non
sarebbe stata tranquilla: disse ciò spontaneamente il Keudell. Onde le
condizioni poste dappoi dal Robilant, le quali si riassumevano nella
garanzia dello _statu-quo_ nel Mediterraneo e nella Penisola Balcanica,
furono accettate.
La redazione dei nuovi patti, dopo un lungo scambio di proposte e
contro-proposte, fu pronta il 19 febbraio 1887; l'indomani essi furono
firmati a Berlino.
L'esigenza del conte di Robilant che l'Italia fosse garantita nel
Mediterraneo, ispirò al principe di Bismarck l'idea di un accordo con
l'Inghilterra. Deciso a tenersi avvinta l'Italia e fermo nella sua
politica d'isolare la Francia per renderla impotente a far la guerra, il
Principe vide la doppia utilità che sarebbe derivata alla Germania da
una intesa anglo-italiana: l'Inghilterra avrebbe offerto quella sicurtà
marittima che la Germania non poteva dare, e, impegnandosi con l'Italia,
si sarebbe preclusa la possibilità di appoggiare la politica della
Francia.
Non era facile indurre i ministri della Regina, in un tempo nel quale lo
“splendido isolamento„ aveva tanti fautori, a legarsi con una Potenza
continentale, sia pure mercè un accordo che sarebbe rimasto segreto. Ma
per il principe di Bismarck la cosa fu facilissima.
Il 1.º febbraio 1887 egli si recò a far visita all'ambasciatore
britannico a Berlino, sir E. Malet. “Il gabinetto italiano — disse — gli
aveva chiesto di voler appoggiare la domanda fatta a Londra di una più
stretta amicizia dell'Inghilterra con l'Italia; egli pensava che il
governo inglese avesse ogni motivo per fare buon viso a tale domanda.
Esisteva _una specie_ [!] di alleanza fra la Germania e l'Italia, ma
aveva scarso pregio per la Germania, l'Italia non potendo essere la sua
vera alleata efficace che alla condizione di essere in grado di
trasportare le proprie truppe per mare. I valichi delle Alpi essendo
irti di fortificazioni, sarebbe impedito ogni efficace aiuto attraverso
a queste. Se l'Italia potesse trasportare le sue truppe per mare, allora
soltanto essa sarebbe una considerevole alleata. Ma ciò potersi solo
effettuare con una cooperazione dell'Inghilterra, per mezzo della quale
il predominio del Mediterraneo sarebbe assicurato a queste due Potenze.
Il Principe disse di comprendere le difficoltà che sovrastano ad ogni
presidente dei ministri britannico il quale tenti di stringere
un'alleanza con una Potenza estera; nel caso attuale però non era
necessario che di venire ad un accordo basato sulla permanenza al potere
del presente governo. Egli riteneva che le trattative amichevoli con
l'Italia avrebbero favorevole accoglienza in Inghilterra, giacchè
sarebbero in armonia con le tradizioni popolari dei due paesi. Credeva
poi che la sua esistenza durante la crisi presente sarebbe stata un
potentissimo fautore per il mantenimento della pace in Europa, mentre la
sua mancanza avrebbe potuto fomentare la guerra.
Accennando alla questione della pubblica opinione e al dovere
riconosciuto in un ministro inglese di seguirla, il Principe disse che
qualunque fosse la consuetudine, stava sempre nel potere del ministro,
anzi nella cerchia dei suoi doveri, di formare questa pubblica opinione.
Questa non è, soggiunse, che un fiume formato da una quantità di piccoli
ruscelli, uno dei quali è il ruscello governativo. Se il governo
alimentasse sufficientemente il suo ruscello, concorrerebbe
efficacemente a formare la grande corrente pubblica; se invece aspetta
di giudicare delle forze di tutti gli altri ruscelli, separatamente meno
potenti del suo, pur dalla unione loro rimarrebbe sopraffatto. Agire in
tal guisa sarebbe una imperdonabile mancanza di precauzione.
Il Principe insistette poi sui reciproci vantaggi di una alleanza fra
l'Inghilterra e l'Italia, asserendo che nessun desiderio di quest'ultima
avrebbe mai potuto verificarsi in antagonismo con gl'interessi di
quella. Nel Mediterraneo le aspirazioni dell'Italia convergono verso
Tunisi e Tripoli, sul continente al ricupero di Nizza„.
Sir Malet osservò che concepiva un'alleanza fra l'Italia e l'Inghilterra
per gli affari d'Oriente, ma dubitava che l'Inghilterra contraesse
un'alleanza che potesse porla in ostilità con la Francia.
Tutte le volte che il gran Cancelliere consigliava l'accettazione di una
proposta, faceva osservare quali avrebbero potuto essere le conseguenze
di un rifiuto.
Secondo le sue vedute era dovere dell'Inghilterra di assumere la sua
parte di responsabilità, per assicurare la pace d'Europa. Egli sapeva
dell'esistenza di una scuola che predicava la astensione di quella
Potenza da ogni ingerenza nella politica europea; ma egli pensava che
l'Europa avesse ragione di desiderare la cooperazione inglese per il
mantenimento dell'equilibrio fra le Potenze. Se l'Inghilterra si
rifiutasse, e se tutti i tentativi per indurla ad assumere la sua quota
di pericolo e di responsabilità che incombe ad ogni Potenza europea,
fallissero, le Potenze interessate si vedrebbero costrette a cercare
altre combinazioni. “Per esempio — disse il Principe — con tutta
facilità potrei rendere più intimi i rapporti della Germania con la
Francia accondiscendendo alle incessanti sollecitazioni di questa
riguardo all'Egitto. E potrei allontanare ogni apprensione da parte
della Russia, riducendo la nostra alleanza con l'Austria al puro impegno
letterale di garentire l'integrità del territorio dell'impero austriaco,
o permettendo alla Russia di occupare il Bosforo e lo Stretto dei
Dardanelli„.
Naturalmente, a questo punto sir Malet osservò che ogni tentativo di tal
natura da parte della Russia implicherebbe una guerra con l'Inghilterra,
e che perciò la pace, che sembrava essere l'unico obbiettivo del
Cancelliere, non sarebbe stata certamente assicurata con simili
combinazioni.
Un sorriso di soddisfazione passò sul volto del Principe, il quale
soggiunse che aveva additato soltanto combinazioni possibili, che
tuttavia sperava non si sarebbero mai verificate.
Il colloquio finì con un giudizio del Principe sul pericolo di guerra
con la Francia. Egli disse che fino a quando fossero al potere uomini
come Ferry e Freycinet nulla vi era da temere, ma che se invece il
generale Boulanger dovesse diventare presidente del consiglio dei
ministri o della repubblica, ciò che già si prevedeva, il pericolo
sarebbe stato imminente, essendo egli già compromesso dalla sua
attitudine generale e non avendo altro modo di mantenersi al potere che
continuando a rappresentare la parte assuntasi.
CAPITOLO QUINTO.
Crispi e la questione Bulgara.
La crisi ministeriale del febbraio 1887: il contegno
dell'on. Crispi, suoi colloqui col Re, sua nomina a
Ministro dell'Interno. — La questione bulgara e la condotta
del Governo italiano prima che Crispi assumesse la
direzione della politica estera, e dopo. — Carteggi e
documenti. — L'Italia propone e fa accettare dalle Potenze
il non-intervento in Bulgaria. — La triplice per l'Oriente.
La crisi ministeriale che l'ecatombe di Dogali determinò l'8 febbraio
1887, fu lunga e laboriosa.
L'impresa africana, iniziata con lo sbarco di un presidio italiano a
Massaua (5 febbraio 1885), doveva essere, secondo il ministro Mancini,
una riparazione, un compenso per le delusioni toccate all'Italia nel
Mediterraneo: “Perchè non volete riconoscere — diceva egli alla Camera
il 27 gennaio 1885 ai suoi oppositori i quali gl'imputavano di perder di
mira il vero obbiettivo della politica italiana, cioè il Mediterraneo —
perchè non volete riconoscere che nel mar Rosso, il più vicino al
Mediterraneo, possiamo trovare la chiave di quest'ultimo?„
Purtroppo, l'Italia nel mar Rosso non trovò che disastri, e per dippiù
una diversione esiziale intuita sin da allora dall'on. Crispi, che nella
seduta del 29 gennaio avvertì:
“Se nel 1882 l'on. ministro Mancini avesse accettato le proposte
dell'Inghilterra, forse oggi sarebbe a tempo per cominciare una politica
coloniale seria, feconda di veri risultati. Ad ogni modo non posso che
augurare all'Italia che quel ch'egli ha fatto possa non riuscirci
dannoso„.
Dogali fu una conseguenza della leggerezza con la quale furono
considerate le difficoltà dell'impresa, e specialmente il valore
dell'ostilità abissina. A Massaua il generale Genè riteneva di potere
tener fronte alle masse nemiche con un pugno dei nostri; a Roma il
ministro Robilant chiamava “quattro predoni„ popolazioni bellicose,
viventi in continua guerra.
Dimessosi il Ministero presieduto dall'on. Depretis — il quale era al
potere dal 29 maggio 1881 e non godeva riputazione presso la parte sana
del paese — il Re incaricò dapprima lo stesso Depretis di ricomporre il
gabinetto; ma questi dovette rinunziare al mandato il 23 febbraio 1887.
Gli on. Robilant, Biancheri, Saracco essendo stati successivamente
officiati a comporre una nuova amministrazione ed avendo ricusato, il
Re, il 5 marzo, ritornò sui suoi passi deliberando di non accettare le
dimissioni del Ministero.
Qual contegno tenne l'on. Crispi durante questa crisi che doveva
risolversi con la sua andata al governo?
Spigoliamo nel suo _Diario_.
Il 9 febbraio il Re lo chiamò a consiglio:
«Alle 9 ¼ fui al Quirinale.
Il Re chiese il mio parere sulla situazione politica e sulla
situazione parlamentare, mostrandosi preoccupato delle condizioni
del paese, dello stato d'Europa, delle grandi necessità onde siamo
tormentati.
Risposi: peggiorata la nostra posizione in Europa in questi ultimi
anni. La Germania ci sfugge, l'Austria può essere interessata ad
averci seco, ma non sarà un'amica costante. La situazione
parlamentare non può essere peggiore; l'on. Depretis vi ha messo il
disordine, tanto che neppur lui può contare sulla Camera. I partiti
son molti, ma nessuno può contare sulla maggioranza. Nulla di meno
il più forte è quello di sinistra. Il disordine parlamentare non può
esser tolto che da un'Amministrazione composta di uomini probi,
scelti fra le migliori capacità della Camera.
— Nulla di meglio io chiedo. Mi indichi lei la persona alla quale
dovrei indirizzarmi.
— Non tocca a me di darle cotesta indicazione. Cotesto ufficio
spetta al presidente del Ministero che si è dimesso. Così suol farsi
in Inghilterra.
— Io non escludo alcuno, e se mi fosse indicato un nome il mio
ufficio sarebbe più facile. E, a proposito, le dirò che oggi ho
letto con dispiacere in un giornale che a Corte sarebbe escluso il
di lei nome. Cotesta è una malignità. Sento per lei tutta
l'amicizia, apprezzo il di lei patriottismo, la di lei energia, la
di lei esperienza. Se il di lei nome mi fosse indicato, o se in una
combinazione ministeriale trovassi il suo nome ne sarei lietissimo.
Io le affiderei volentieri il potere.
— Ringrazio Vostra Maestà dei suoi sentimenti verso di me....
— No, io non voglio che si creda che faccia delle esclusioni.
— Non posso dubitare di quanto V. M. mi dice.
— Va bene. Mi dica: come sta lei col conte di Robilant?
— Benissimo. Io lo conobbi al 1877 a Vienna. Lo ho riveduto alla
Camera, ma non ho con lui intimità.
— È una grave questione quella degli uomini. Comprendo che Depretis
è vecchio e non può sovraintendere al Ministero dell'Interno.
— Del Ministero dell'Interno parlai altra volta a V. M. e le dissi
che in Italia manca assolutamente la polizia preventiva.
Fortunatamente abbiamo un buon popolo.
Dopo pochi altri minuti il Re si alzò, mi strinse la mano e mi
congedai.»
Il 22 febbraio l'on. Saracco si recò da Crispi ad offrirgli il
portafoglio della Giustizia nel Ministero che il Depretis sperava potere
ricostituire. L'on. Crispi declinando l'offerta ricordò che avrebbe
potuto essere ministro di Giustizia nel 1866 e nel 1867; e avvertì che
non avrebbe mai accettato una posizione che non gli consentisse di
esercitare influenza su tutta la politica, specialmente su quella
estera, della quale i ministri sogliono disinteressarsi.
Non riuscito il tentativo del Depretis, l'on. Crispi divenne l'oracolo
della situazione: il 25 e il 27 ricevette il marchese di Rudinì; il 3
marzo, dopo che il Depretis fece fallire, col negargli il suo appoggio,
una combinazione Saracco perchè ad essa avrebbe preso parte il Rudinì, i
dissidenti della Destra decisero in una riunione di appoggiarsi a
Crispi; il quale ricevette il 4 marzo l'on. Tajani, il 6 di nuovo il
Rudinì, il 9 gli on. Lacava e Giolitti, quindi gli on. Baccarini,
Cairoli e Nicotera, l'11 gli on. Codronchi e Rudinì, Lacava e Giolitti.
Il 12 aderì ad incontrarsi con gli on. Bonghi, Spaventa, Codronchi e
Rudinì. Trascriviamo dal _Diario_:
_12 marzo._ — Alle ore 5 pom. all'albergo di Roma dove trovai gli
on. Bonghi, Rudinì e Codronchi. Verso le 5 ¼ sopraggiunse Spaventa.
Dopo spiegazioni diverse, si convenne sui seguenti punti. Ipotesi di
una combinazione con Depretis. Crispi ritiene non offra probabilità
alcuna; nulladimeno, ove avvenisse, non bisognerebbe opporsi; anzi
renderla possibile.
Politica estera. — Rinnovare gli accordi con le Potenze centrali. Il
rifiutarsi potrebbe nuocere; Spaventa osserva che la Germania
potrebbe sospettare di noi. Bisogna inoltre considerare la posizione
nella quale si è messo il papato con Bismarck. Necessario, intanto,
riannodare le nostre relazioni con l'Inghilterra, associarsi a lei
nell'Egitto, renderle facile con l'opera nostra il compito
assuntosi, per obbligarla ad essere con noi in tutte le questioni
nel Mediterraneo.
Finanza. — Rinforzarla con nuove imposte per accrescere le entrate e
soddisfare alle spese militari ed a quelle per le opere pubbliche.
Esercito ed armata forti.
Legge Comunale e Provinciale. — Elettorato: censo, 5 lire. Capacità,
quarta elementare. Sospensione agli impiegati municipali del diritto
elettorale.
Esplicare il nostro accordo alla Camera alla prima occasione e
informare il Re; di questo s'incarica il Rudinì.
Discutendo delle imposte, si accennò al dazio di entrata sui
cereali; ma esso non potrebbe esser solo, dovendosi provvedere a 60
milioni di nuova entrata.
Rudinì racconta di aver visto Zanardelli, il quale anch'egli è di
avviso che il solo possibile sarebbe un Ministero di coalizione.
Egli lo motivava non solo con le condizioni della Camera, ma per le
necessità in cui siamo di dover stabilire nuove imposte. Bisogna che
la impopolarità sia affrontata dai patriotti dei diversi partiti.
_13 marzo._ — Alle 10 ant. ho la visita del marchese Rudinì.
Egli fu iersera dal Re, al quale diede conto dell'accordo sui punti
principali di governo tra Crispi, Spaventa e gli altri. Questo
accordo assicura la possibilità di un'amministrazione nel caso di
crisi.
Il Re ne fu contento. Egli in tutti i casi saprebbe a chi
rivolgersi.
Chiese se dell'accordo potesse parlare al Depretis, e il Rudinì
rispose che S. M. facesse a suo talento.
_20 marzo._ — Invitato, mi reco alle 4 ½ pom. dal Depretis. Mi narra
avergli il Re riferito il colloquio avuto col marchese di Rudinì
circa l'accordo dell'albergo di Roma. Mi parla delle difficoltà
della situazione e della necessità di comporre una nuova
amministrazione. L'opinione pubblica designare un ministero
Depretis-Crispi; lui volervisi prestare e m'invitava ad accettare.
Risposi che sarei entrato a condizione che si potesse comporre un
gabinetto capace di durare. Si discorre delle persone che dovrebbero
farne parte. Depretis soggiunge di esser vecchio ed accasciato e di
non poter rimanere al Ministero dell'Interno. M'informò che il
trattato con le Potenze centrali era già stipulato con condizioni
migliori delle precedenti. Conveniamo sul programma. Mi riservo a
decidermi.
_24 marzo._ — Alle 2 pom. viene Rattazzi a nome del Re. Sua Maestà
desidera che io entri nel Ministero. Messaggio di affettuose parole
e di cortesie. Aderisco.
_28 marzo._ — Tornando a Roma da Napoli, trovo un biglietto di
Depretis che mi avverte esser io atteso dal Re.
S. M. mi riceve alle 11 ant. Mi ringrazia perchè avevo accettato di
assumere il potere. Dichiara che non fa questione di nomi, e che
accetterà quelli che indicheremo Depretis ed io. Informo il Re delle
pratiche fatte con lo Zanardelli e della necessità di averlo nel
Ministero. Non si può fare a meno di provare ai pentarchi la
convenienza che d'accordo si tenti una composizione ministeriale col
Depretis. Ad ogni modo giova portare le cose al punto che sia
dimostrato che da parte nostra non manca la buona volontà.
Il Re approva.
Francesco Crispi prese possesso del Ministero dell'Interno il 4 aprile.
Della politica estera non potè ingerirsi finchè fu in Roma l'on.
Depretis, il quale, ritiratosi il Robilant, si era riservato l'_interim_
degli Affari esteri. Ma allontanatosi il Depretis per curare la sua
salute, Crispi reclamò che il Consiglio dei Ministri fosse tenuto al
corrente dell'azione della Consulta nella questione bulgara, allora
divenuta più che mai piena d'incognite per la elezione di Ferdinando di
Sassonia-Coburgo-Gotha a Principe (7 luglio).
Il trattato di Berlino aveva costituito la Bulgaria in principato
autonomo, ma tributario della Turchia, e stabilito (art. 3.º) che il
principe sarebbe stato eletto dalla popolazione e confermato dalla
Sublime Porta col consenso delle Potenze. Aveva altresì costituito al
sud dei Balcani, col nome di Rumelia Orientale, una nuova provincia e
l'avea posta sotto l'autorità politica e militare della Turchia.
La elezione del primo principe, Alessandro di Battenberg, fatta
dall'assemblea dei deputati bulgari il 29 aprile 1879, non aveva avuto
contrasti. Nel breve regno di sette anni (abdicò il 3 settembre 1886)
Alessandro organizzò lo Stato e l'esercito, cementò lo spirito nazionale
dei bulgari con la guerra vittoriosa contro la Serbia (battaglia di
Slivnitza, 28 novembre 1885) e con l'acquisto della Rumelia,
indirizzandoli per la via d'ogni progresso verso l'indipendenza.
L'ambizione della Russia di tenere in soggezione il principato fu la
causa maggiore dell'abdicazione di Alessandro di Battenberg, come delle
difficoltà incontrate dal successore di lui.
L'indomani dell'elezione del principe di Coburgo, Crispi desiderando che
l'Italia prendesse parte attiva e indipendente nella questione, iniziò
col presidente del Consiglio la corrispondenza telegrafica che
riferiamo:
«8 luglio 1887.
_Presidente Consiglio Ministri_,
Stradella.
Dopo nomina nuovo principe Bulgaria e incertezza risoluzione della
Russia, il Consiglio dei Ministri è preoccupato difficili condizioni
Europa e chiede conoscere vero stato cose e quale sia la parte presa
e da prendere dall'Italia, se e quale l'accordo con le Potenze
alleate.
CRISPI.»
«9 luglio.
_S. E. Ministro Interni_,
Roma.
Avrai spiegazione richiesta. Intanto prego dissipare preoccupazione
Consiglio Ministri, sicuri come siamo procedendo correttamente sul
terreno dei trattati e di pieno accordo con Potenze amiche.
DEPRETIS.»
«9 luglio.
_Presidente Consiglio Ministri_,
Stradella.
Aspettiamo tua risposta. Certamente avrai dato istruzioni ai nostri
ambasciatori di Vienna, Berlino, Londra e Costantinopoli, ed al
nostro ministro a Sofia sul modo come debbano regolarsi circa la
nomina del nuovo Principe. Vienna e Londra essendo favorevoli a
codesta nomina, noi non dovremmo essere ultimi.
Giova anche regolare il contegno del nostro ambasciatore a
Pietroburgo, la Russia essendo contraria alla elezione fatta
dall'Assemblea bulgara.
La questione bulgara può esser causa di un dissidio, e noi dovremmo
trar profitto dalle nostre amicizie ed alleanze.
CRISPI.»
«9 luglio.
_S. E. Ministro Interni_,
Roma.
Ecco situazione. Governo Bulgaro insiste presso la Porta affinchè
non faccia difficoltà preliminari e chieda assenso delle Potenze per
elezione Principe, conformemente trattato Berlino. Se Porta aderisce
converrà prepararsi rispondere alla sua interrogazione. Già sappiamo
Russia contraria, Inghilterra favorevole, Germania manterrà solita
riserva, Francia seguirà probabilmente esempio Russia. Ambasciatore
Austria Costantinopoli si mostra scontento; però avendo ragione
dubitare della sincerità di questo sentimento ho telegrafato Nigra
interrogare schiettamente quel governo.
Parmi ci convenga sospendere ogni risoluzione finchè situazione
meglio chiarita. Intanto continuare scambio idee colle Potenze
alleate.
DEPRETIS.»
«12 luglio.
_Presidente Consiglio Ministri_,
Stradella,
Godo che tua salute costantemente migliori.
Duolmi che costantemente continui male politica estera che non fai e
non lasci fare.
CRISPI.»
Il 14 luglio l'on, Depretis informava l'on. Crispi di aver telegrafato
alle RR. Ambasciate e alla R. Legazione di Sofia la dichiarazione
seguente fatta all'ambasciatore di Turchia:
«Nell'interesse della Bulgaria, della Turchia e dell'intera Europa
è, a nostro avviso, altamente desiderabile che la crisi bulgara
giunga il più presto possibile a propizia e definitiva conclusione
mercè l'insediamento a Sofia di un principe, e il ristabilimento nel
principato di un ordine di cose stabile e normale. La Sublime Porta
deve quindi considerare come acquisito il nostro concorso per tale
soluzione che, essendo l'espressione della libera volontà delle
popolazioni in Bulgaria, si uniformerebbe ora nella sua pratica
attuazione ai procedimenti segnati nel trattato di Berlino».
«15 luglio.
_Presidente Consiglio Ministri_,
Stradella.
Comunicai ai miei colleghi telegramma V. E. 14 corrente spedito alle
nostre ambasciate ed al nostro agente in Sofia. Alcuni di loro non
furono contenti perchè nulla vi è detto che valga ad indicare la
nostra politica in Oriente.
In verità non essendosi nulla deciso dall'Italia, si vorrebbe almeno
conoscere quali pratiche siano state fatte presso le altre Potenze e
quali risposte ottenute per la soluzione della questione.
CRISPI.»
Il 21 luglio l'on. Depretis ebbe un'idea e senza comunicarla al
Consiglio dei Ministri, la sottopose al giudizio dell'ambasciatore a
Berlino, conte di Launay:
«Consideriamo la elezione Coburgo come fallita.[!] Se la
continuazione dello _statu-quo_ e del provvisorio a Sofia è cosa
indifferente per il gruppo alleato, non abbiamo che da attendere
tranquillamente il seguito degli avvenimenti. Se al contrario,
occorre regolare la questione al più presto, si potrebbe forse far
andare il principe di Coburgo a Sofia in qualità di «luogotenente
principesco (_lieutenant princier_)» anzichè di principe. Se il
gabinetto di Pietroburgo è di buona fede nella sua opposizione, se
contesta soltanto la legalità della elezione senza intento di tenere
aperta la questione bulgara per i suoi fini, dovrebbe accettare
questo espediente. A Berlino, centro naturale del nostro gruppo, si
dovrebbe formulare un parere su questo suggerimento, ed
eventualmente dire qual gabinetto sarebbe in migliori condizioni per
prenderne l'iniziativa.»
Ma il di Launay trovò l'espediente impraticabile, poichè un luogotenente
principesco, il cui ufficio sarebbe stato quello di preparare l'elezione
del nuovo principe, non poteva essere lo stesso candidato al trono; e
d'altra parte come Ferdinando, già eletto Principe, avrebbe potuto
presentarsi in Bulgaria in una veste inferiore?
La consuetudine di camminare sulle orme degli altri era così inveterata
che l'on. Depretis eccezionalmente si era azzardato a metter fuori
un'idea; in tutti i documenti partiti in quel mese di luglio dalla
Consulta, non vi sono che parole vaghe e di attesa delle decisioni delle
altre Potenze. Mentre l'on. Crispi esortava il Presidente del Consiglio
a prendere posizione, dalla Consulta il 13 luglio si scriveva
all'ambasciatore a Costantinopoli:
«Avvenuta l'elezione del principe di Coburgo non abbiamo creduto di
affrettarci ad enunciare la nostra opinione. Ci parve conveniente di
astenerci dal pregiudicare, con premature dichiarazioni, una
questione rispetto alla quale una considerazione elementare di
reciproco riguardo, e quasi di equità internazionale, suggeriva che
si lasciasse anzitutto la parola alle Potenze aventi nel problema
che si agita in Bulgaria un interesse più diretto e immediato.»
L'on. Depretis morì il 31 luglio; gli successe nella presidenza dei
Consiglio l'on. Crispi, il quale per decreto dell'8 agosto assunse
altresì l'interinato del ministero degli Affari esteri. Lo stesso giorno
Crispi dirigeva alle regie rappresentanze all'estero questa circolare:
«Nel prendere la direzione degli Affari esteri, tengo a manifestare
il mio fermo intendimento di continuare la politica di pace e di
conservazione che nel concerto europeo caratterizza l'opera
dell'Italia.
Conforme a tale intendimento è l'atteggiamento che intendiamo
prendere nella questione bulgara, nella nuova fase in cui sembra che
entri per l'annunciato imminente arrivo del principe di Coburgo in
Bulgaria. Non abbiamo predilezioni personali per questo piuttosto
che per altro principe; ma il principe Ferdinando, per il fatto
della sua elezione, rappresenta agli occhi nostri, sino a prova
contraria, l'espressione della volontà del popolo bulgaro. L'Italia,
politicamente costituitasi coi plebisciti, non può disconoscere
l'alto valore di quella manifestazione con cui è stato soddisfatto
alla prima ed alla più importante, per noi, delle tre condizioni
poste dall'art. 3.º del trattato di Berlino.
Convinto essere dell'interesse generale che la questione bulgara,
minaccia permanente per la pace europea, venga risolta quanto più
presto è possibile, il governo si è sempre dichiarato pronto ad
adoperarsi per il successo di qualsiasi soluzione, la quale, sulla
base dei trattati e del rispetto della volontà delle popolazioni,
potesse assicurare un governo stabile alla nazione bulgara. Ora,
l'avvenuta elezione del principe di Coburgo, che rappresenta un
principio di soluzione, ci sembra appunto una combinazione che,
favorita dal buon volere delle Potenze, varrebbe, mantenendo fisse
le due basi suddette, a conseguire l'intento. Ad esso adunque
dobbiamo desiderare che le Potenze aventi con noi comunità di fine e
d'intendimenti pacifici prestino, come siamo disposti a prestarlo
noi stessi, un volenteroso appoggio morale. Gradisca ecc.»
Il 7 agosto il principe Ferdinando, dopo avere invano atteso che la
Turchia e le Potenze assentissero alla sua elezione, cedette alle
insistenti sollecitazioni del governo bulgaro, e passò in Bulgaria, dove
ebbe entusiastiche accoglienze. Era trascorso appunto un mese dalla
elezione della Sobranje, e in quei trenta giorni il Principe era vissuto
in una tormentosa indecisione, tra l'irremovibile no della Russia,
l'oscitanza della Turchia e la propria ambizione. Il 29 luglio,
l'ambasciatore Nigra aveva telegrafato da Vienna:
«Il principe Ferdinando è venuto a vedermi in questi giorni. Mi ha
domandato consiglio. Mi sono rifiutato di dargli consigli dicendogli
che nella mia qualità di ambasciatore non avevo niente a dirgli. Ma
come amico privato gli ho detto che mi sembrava la sua via fosse
tracciata dai trattati. Egli non mi è sembrato molto disposto a
tentare l'avventura di una corsa in Bulgaria. Ignoro se abbia fatto
qualche passo a Pietroburgo; in ogni caso non sarebbe riuscito.»
Il fatto compiuto, cioè la presa di possesso da parte del principe
Ferdinando della dignità conferitagli dal popolo bulgaro, accrebbe
l'irritazione della Russia e le difficoltà della situazione.
Si presentò subito la questione come dovessero condursi i rappresentanti
delle Potenze in Bulgaria, col Principe. Crispi non esitò a telegrafare
il 9 agosto al r. Agente e console generale in Sofia:
«Un riconoscimento formale del principe Ferdinando come Principe di
Bulgaria non è evidentemente possibile da parte nostra se non dopo
acquistata la certezza che egli effettivamente rappresenta la
volontà delle popolazioni e dopo legittimazione della sua posizione
conformemente al trattato di Berlino.»
E dopo questa dichiarazione dava istruzione al r. Agente di astenersi da
atti che implicassero riconoscimento, _pur usando al Principe i riguardi
dovuti_, e mantenendo col governo principesco i rapporti di fatto
necessarii.
Dopo poco, l'Austria-Ungheria dava al suo agente in Bulgaria analoghe
istruzioni.
L'11 agosto l'Incaricato di affari di Russia si presentò alla Consulta
per dichiarare che il suo Governo non riconosceva la validità della
elezione, che aveva cercato di dissuadere indirettamente il Principe dal
recarsi in Bulgaria, e che si credeva obbligato di dichiarare illegale
la di lui apparizione nel principato per mettersi alla testa del
Governo. Il gabinetto imperiale faceva appello alle Potenze sperando di
non trovarsi solo ad esigere il rispetto al trattato di Berlino.
Crispi rispose che si sarebbe messo in comunicazione con gli altri
gabinetti, e che il governo italiano non aveva cessato di considerare il
trattato di Berlino come la base necessaria per la soluzione della crisi
bulgara.
Propostosi l'intento di appoggiare l'eletto della nazione bulgara e di
cogliere l'occasione per acquistare all'Italia prestigio e simpatie
nella penisola balcanica, l'on. Crispi cercò innanzi tutto di
assicurarsi l'appoggio dell'Inghilterra, la quale, dapprima non
contraria al principe Ferdinando, aveva poi fatto comprendere alla
Russia che vedeva l'elezione di lui “con indifferenza„, e alla Bulgaria
che “non riputava vantaggiosa agli interessi del principato la scelta
del Coburgo„.
Come l'on. Crispi regolasse la condotta dell'Italia nelle fasi
successive della questione, e riuscisse a formare il gruppo
italo-anglo-austriaco che impose il non intervento nelle faccende
interne della Bulgaria, si rileva dai documenti che seguono:
«12 agosto.
_A S. M. il Re_,
Monza.
Lord Salisbury dette istruzioni al suo agente a Sofia di trattare il
principe di Coburgo come un parente della Regina. I gabinetti di
Parigi e di Vienna avranno con lui relazioni come governo di fatto e
senza pregiudicare la questione di diritto.
CRISPI.»
«15 agosto.
_All'Ambasciatore a Costantinopoli_,
Per noi, sino a prova contraria ed equivalente, l'avvenuta elezione
è testimonianza valida della volontà del popolo bulgaro. Il
principio della volontà delle popolazioni potrebbe essere indicato
come il migliore mezzo d'interpretazione dello spirito del trattato
di Berlino nella sua applicazione ai casi imprevisti.»
«Napoli, 16 agosto.
_A S. M. il Re_,
Monza.
Riparto stasera per Roma. Telegrafai confidenzialmente a Nigra e a
Catalani quale a mio avviso dovrebbe essere la linea di condotta del
governo di V. M. nella questione bulgara: aiutare, cioè, la Bulgaria
ad uscire dallo stato provvisorio in cui si dibatte e che
costituisce una minaccia immediata e permanente per l'Europa. Il
principe di Coburgo, eletto per acclamazione, ricevuto con
entusiasmo, ha almeno il merito di rappresentare una soluzione
accettabile e per metà realizzata. Noi crediamo quindi di dover
aiutarlo per quanto è possibile, senza beninteso staccarci
dall'accordo di principii che abbiamo coll'Austria e con
l'Inghilterra, e ciò tanto più che la Germania vede di buon occhio
tale accordo. La unanimità di tutte le Potenze è una utopia. Il
principe o il generale russo, che solo potrebbe esser gradito a
Pietroburgo, spiacerebbe a Vienna. Aggiungerò che l'Italia, per
esser fedele alle sue tradizioni, ai suoi principii, ai suoi
interessi, deve mirare a che la Bulgaria come tutti gli Stati
balcanici si avvii all'indipendenza. Essendo però questo scopo
ancora lontano, dobbiamo, nell'intervallo, favorire l'influenza
dell'Austria a preferenza di quella di ogni altra Potenza; locchè
equivale ad aiutare lo spostamento verso Oriente del centro dei suoi
interessi.
Telegrafai poi a Blanc autorizzandolo, previo accordo coi suoi
colleghi d'Austria e d'Inghilterra, di esprimere l'opinione che
l'avvenuta elezione è, sino a prova contraria ed equivalente, una
testimonianza valevole per noi della volontà del popolo bulgaro, e
di aggiungere che ai nostri occhi il principio del rispetto della
volontà delle popolazioni è il migliore elemento d'interpretazione
dello spirito del trattato di Berlino nella sua applicazione ai casi
imprevisti.
CRISPI.»
«17 agosto.
L'ambasciatore di Turchia domanda per parte del suo governo
all'Italia ed alle altre grandi Potenze:
1. I loro apprezzamenti circa la presa di possesso, per parte del
Principe, del governo della Bulgaria;
2. Le istruzioni che, in considerazione di questo fatto, hanno
impartito ai loro agenti nel principato;
3. Il loro modo di vedere circa i mezzi di eliminare le presenti
difficoltà e conseguire una soluzione.
Ho risposto:
1. Riconosciamo che, prendendo possesso del potere principesco, il
principe Ferdinando, allo stato attuale delle cose, si è allontanato
dalle prescrizioni del trattato di Berlino;
2. Che le nostre istruzioni si riassumevano così: Nessun atto che
implichi riconoscimento; rispetto alla persona del Principe;
continuazione dei rapporti di fatto necessari col governo
principesco;
3. La soluzione della questione bulgara doversi cercare sul terreno
pacifico del trattato di Berlino. Su quel terreno, il concorso
dell'Italia essere assicurato a quella qualsiasi soluzione che,
soddisfacendo ai legittimi voti delle popolazioni bulgare, abbia
probabilità di essere accettata da tutte le Potenze, ed in primo
luogo dalla Potenza alto-sovrana.»
«18 agosto.
_All'Ambasciatore a Costantinopoli_,
Due fini essenzialmente ci proponiamo: l'uno immediato, cioè il
mantenimento della pace; l'altro mediato ed a più lunga scadenza,
che è l'assetto definitivo su basi salde e razionali, di popolazioni
europee e cristiane non ancora costituite a nazioni, benchè aventi
in sè stesse tutti gli elementi etnici e morali che valgono a
determinare le nazionalità. Entrambi codesti fini ci sembrano di
capitale importanza, l'uno perchè ispirato agli interessi del nostro
paese, il quale vuole la pace con dignità; l'altro perchè risponde
ai principii di giustizia e di diritto, sui quali si è costituita la
nazione italiana e che ne sono la base più salda.
A conseguire il primo fine abbiamo le nostre alleanze ed i nostri
accordi. Il secondo fine propostoci spiega il nostro contegno verso
la Bulgaria.»
«18 agosto.
_All'Ambasciatore a Costantinopoli_,
Con rapporto del 13 corrente, V. E. m'informava degli uffici di
cotesto ambasciatore di Russia per indurre la Porta a fare passi
energici a Sofia allo scopo di conseguire l'allontanamento dalla
Bulgaria del principe Ferdinando, l'elezione del quale, al dire del
sig. Onou, sarebbe stata disapprovata da tutte le Potenze.
Riguardo al modo di considerare questa elezione, non posso che
confermarle il mio telegramma del 16 di questo mese, col quale lo
autorizzava a porsi d'accordo coi suoi colleghi d'Austria-Ungheria
ed Inghilterra per esprimere l'opinione che nella avvenuta elezione
noi dobbiamo ravvisare, fino a prova contraria ed equivalente, una
valida testimonianza della volontà del popolo bulgaro.
Il principio del rispetto della volontà delle popolazioni, come l'E.
V. giustamente osservava, è, agli occhi nostri, il migliore elemento
d'interpretazione dello spirito del trattato di Berlino, ogni qual
volta si tratti di applicarlo a casi non preveduti.»
«20 agosto.
_All'Ambasciatore a Vienna_,
Non accetteremmo, come non l'accetta l'A. U., una reggenza affidata
ad un generale russo [Ehrenroth]. Si prolungherebbe così,
peggiorandolo, l'eterno provvisorio bulgaro. Non abbiamo
predilezioni, ma il principe Ferdinando rappresenta per noi un
principio di soluzione.
L'accordo su questo punto è completo con Londra e con Vienna.»
«23 agosto.
_Agli Ambasciatori a Londra e a Berlino_,
La proposta fatta dalla Russia alla Turchia di scacciare il principe
Ferdinando ed insediare un agente russo, non sarebbe attuabile che
con l'uso della violenza.
Non è dunque accettabile da chi vuole che il trattato di Berlino
serva di base pacifica alla soluzione della questione bulgara.»
«24 agosto.
_A tutti gli Ambasciatori_,
In presenza dell'eventualità ravvisata possibile dell'occupazione
russa di Varna e di Erzerum, qualora la Turchia non intervenisse
attivamente in Bulgaria, il gabinetto italiano si dichiara contrario
ad ogni violenza e ad ogni violazione del trattato di Berlino, ed
interroga gli altri gabinetti circa l'atteggiamento che
prenderebbero.»
«30 agosto.
_All'Ambasciatore a Pietroburgo_,
Nel tenere, rispetto alla questione bulgara, l'atteggiamento di cui
non facciamo punto mistero, e del quale abbiamo alla Russia stessa
lealmente dichiarate le ragioni, noi intendiamo esclusivamente
giovare alla causa della pace in Oriente, senza che la condotta
nostra abbia mai obbedito a sentimenti che fossero meno che
amichevoli per la Russia. Con la Russia abbiamo, invece, sempre
desiderato e desideriamo mantenerci nei termini della più cordiale
amicizia, non essendovi tra i due Stati ragione alcuna di dissidio.»
«31 agosto.
_All'Ambasciatore a Costantinopoli_,
Parlando, nel momento attuale, di reggenti, di luogotenente
principesco, di commissario da mandare in Bulgaria, si perde di
vista la realtà delle cose. Prima di discutere il nome e la
nazionalità di quel personaggio, dobbiamo chiederci in qual modo,
ammesso che venisse designato, egli sarebbe accolto in un paese in
cui non è nè chiesto, nè desiderato. I bulgari, sotto un principe di
loro scelta, il quale malgrado gli errori che ha potuto commettere
dispone certamente di un partito non indifferente, sono in procinto
di organizzare un governo. Il meglio è di non intralciare l'opera
loro. Un tentativo d'ingerenza, o peggio d'intervento, esporrebbe
l'Europa o a dover confessare la propria impotenza a dar soluzione
alla crisi, oppure, se si ricorresse alla violenza, a provocare essa
stessa il conflitto che si vuole appunto evitare.»
«2 settembre.
_All'Ambasciatore a Costantinopoli_,
Mi è debitamente pervenuto il suo rapporto del 20 agosto volgente e
ne ringrazio particolarmente V. E.
Il linguaggio tenuto alla Porta dal barone di Calice e da sir W.
White si riassume così: la elezione del principe di Coburgo non
essere illegale; non doversi dalla Porta nè tentare un'occupazione
militare, nè imporre ai bulgari un reggente a loro inviso, nè
prendere una decisione non approvata dalle Potenze firmatarie del
trattato di Berlino.
Da parte sua, Ella, secondo le autorizzazioni ed istruzioni avute,
dichiarò l'elezione del Principe essere per noi, sino a
dimostrazione contraria ed equivalente, una valevole testimonianza
della volontà del popolo bulgaro; il principio del rispetto delle
popolazioni, costituire, secondo noi, uno dei migliori elementi
d'interpretazione del trattato di Berlino; non doversi usare mezzi
di coazione per imporre alla Bulgaria un reggente o dei commissari
stranieri da essa non richiesti; e finalmente ogni azione isolata,
concertata tra Russia e Turchia senza preventiva adesione delle
altre Potenze, essere illegale e pericolosa.
Rilevo con soddisfazione che continua l'accordo d'intenti e
l'analogia di linguaggio di V. E. e dei suddetti suoi colleghi.»
Nel momento in cui sembrava che il governo di Pietroburgo, non
rendendosi esatto conto delle reali disposizioni delle grandi Potenze,
volesse col suo intervento armato riprendere in Bulgaria l'influenza che
gli sfuggiva, Crispi ebbe la visione della guerra e ricordò gli impegni
assunti dall'Italia per il mantenimento dello _statu quo_. Certamente
egli non desiderava la guerra e fece quanto era in lui perchè la Russia
abbassasse il tono delle sue proteste accorgendosi di aver contro sè
quasi tutta l'Europa; ma sentiva il dovere di preparare l'Italia al
possibile cimento. Il ricordo di Crimea era presente al suo spirito;
come allora il Piemonte, in rappresentanza dell'Italia, aveva
conquistato il diritto di farsi ascoltare, la partecipazione ad una
guerra ben condotta avrebbe potuto dare gloria all'Italia e l'animo e il
prestigio necessarii a riguadagnare il tempo e le occasioni perdute.
Dato che il conflitto nascesse, in qual modo l'Italia avrebbe mandato
sul teatro di esso il proprio contingente? Non vi avevano pensato. Onde
Crispi, il 29 agosto, telegrafò all'Ambasciatore italiano a Londra:
«Speriamo che si allontani il caso di una comune azione, ma le
minaccie della Russia contro la Bulgaria, delle quali fu tenuto
discorso nei vostri dispacci del 26 volgente, ci devono preoccupare
ove fossero ripetute e seguite dai fatti. Ciò posto, credo
necessario che fra i due governi si stabiliscano le linee principali
del possibile intervento armato e la parte di cooperazione che
competerebbe all'Inghilterra ed all'Italia.
Ove Sua Signoria fosse del nostro parere, converrebbe stabilire la
relativa convenzione militare, e nell'affermativa noi saremmo
disposti a mandare in Londra uno dei nostri ufficiali, qualora Sua
Signoria non preferisse di mandare un ufficiale inglese a Roma.
In coteste materie non bisogna attendere il momento del pericolo, ma
tenersi pronti e preparati pel momento opportuno.»
L'Incaricato di affari italiano, T. Catalani, rispose il 31 agosto:
«Lord Salisbury mi ha pregato di far gradire a V. E. i sentimenti
della sua viva riconoscenza per la proposta relativa ad una
convenzione militare. Egli mi ha detto che presentandosene
l'occasione sarebbe fiero della cooperazione dell'esercito italiano
e che poteva giungere il momento in cui essa fosse necessaria. Ma S.
S. ha soggiunto che sino a quando il pericolo di guerra non era
imminente, la costituzione politica di questo paese e la tradizione
legatagli dai suoi predecessori lo ponevano nella impossibilità di
stipulare un atto di tal genere.
Nel momento attuale, sembra che ogni pericolo in Bulgaria sia da
scartarsi. Il sig. De Giers ha vivamente smentito i progetti di
occupazione attribuiti alla Russia, attenuato il significato della
comunicazione a Chakir pascià ed espresso il suo desiderio di
mantenere la pace.
Inoltre l'ambasciatore di Germania, che aveva allora allora lasciato
il _Foreign Office_, l'aveva assicurato che il principe di Bismarck
vede schiarirsi l'orizzonte; e una comunicazione ricevuta dal conte
Kálnoky riguardava la situazione nello stesso modo. Non era più
questione dell'invio del generale Ehrenroth, il quale d'altronde non
avrebbe potuto entrare in Bulgaria, poichè i bulgari l'avrebbero
impedito con la forza.
Nulla dunque giustifica la stipulazione di una convenzione, la quale
avrebbe presentato un pericolo per il governo, poichè, malgrado
tutte le precauzioni possibili, il segreto non potrebbe mantenersi e
una interpellanza alla Camera metterebbe il governo nella condizione
di renderla pubblica.
Tuttavia, se la situazione verrà a mutarsi «poichè la politica —
egli ha detto — è mutevole come il clima di queste isole», saremo
sempre in tempo a stipulare una convenzione militare.»
L'on. Crispi fece, come risulta da una lettera del Catalani a lord
Salisbury, che si era recato a Royat, talune osservazioni alle
argomentazioni del ministro inglese, ma non insistette. Il Catalani
scriveva:
«Il sig. Crispi vi è riconoscente per le vostre cortesi spiegazioni.
Egli comprende la vostra posizione e, come voi sapete, egli è assai
dotto ed è un ammiratore della costituzione politica inglese, la
quale, come voi accennate, impedirebbe al governo di stipulare una
convenzione militare finchè non sia in vista il pericolo. Senonchè
il sig. Crispi domanda: È il pericolo così remoto da rendere non
necessarie le precauzioni? Suppongasi che un esercito russo entri in
Bulgaria, le cui linee di difesa non sono più quelle che erano:
avremmo noi il tempo di discutere e di concludere una convenzione
militare con la rapidità richiesta ai nostri giorni dalle
eventualità militari? Dovremmo noi lasciarci sorprendere alla
sprovvista?
Il sig. Crispi non crede tale ipotesi remotissima. Non mi diceste
voi stesso il 25 dello scorso mese che avevate indirettamente
avvertita la Russia che sarebbe, è vero, facile per un esercito
russo di entrare a Varna, ma non così facile di uscirne, poichè
avrebbe trovato la via sbarrata dalle forze alleate dell'Inghilterra
e dell'Italia?
Tuttavia, poichè voi declinate d'intrattenervi di tale proposta, il
sig. Crispi non insiste e la questione è chiusa.»
Nondimeno, l'identità d'interessi constatata durante lo svolgersi del
periodo acuto della questione bulgara, suggerì un accordo speciale per
gli affari d'Oriente tra l'Italia, l'Inghilterra e l'Austria-Ungheria:
«Londra, 21 settembre.
«Salisbury divide intieramente idee di V. E. circa l'avviamento di
trattative fra i tre ambasciatori a Costantinopoli allo scopo di
stabilire un accordo.
CATALANI.»
In Russia il nuovo presidente del Consiglio italiano non acquistò
simpatie col suo contegno attivo e fermo, e da allora in poi l'on.
Crispi ebbe in quell'impero una cattiva stampa. Le sue idee sul
complesso problema orientale, più volte esposte alla Camera, non gli
consentivano di seguire una politica diversa, e non fu una cattiva
politica se essa riuscì a formare un blocco formidabile di tre Potenze —
ben visto e incoraggiato dal principe di Bismarck — che dette alla
Turchia animo a resistere alla pressione del colosso moscovita. Che
quell'accordo fosse precipuamente opera dell'on. Crispi si rileva anche
dal fatto che non sopravvisse al suo primo ministero.
Della condotta del governo di Pietroburgo sembra non fosse soddisfatto
neppure lo Czar. In un _Diario_ di Crispi è annotato quanto segue:
«_4 ottobre._ — Kálnoky riferì al conte Reuss, ambasciatore
germanico, un colloquio avuto col re Giorgio. Il re Giorgio, essendo
a Copenaghen, parlò con lo Czar delle cose di Bulgaria. Il Re di
Grecia ritiene che sebbene il gabinetto russo mantenga ancora
ostensibilmente la missione del generale Ehrenroth e che questa si
discuta ancora tra Pietroburgo e Costantinopoli, l'Imperatore
l'abbia già abbandonata. Secondo l'Imperatore, l'affare sarebbe
stato eseguibile prima della entrata in Bulgaria del Principe di
Coburgo. Adesso non vi si può più pensare. Quindi il cattivo umore
dello Czar contro il Principe, il quale avrebbe rovesciato i piani
della Russia col suo intervento inopportuno in Bulgaria. La Russia
aveva fatto assegnamento sulla discordia tra gli statisti bulgari e
sulla dissoluzione che ne sarebbe risultata. L'Imperatore non ha
detto quello che farà.»
Riproduciamo un giudizio dell'on. Crispi sulla Russia:
«La posizione della Russia è privilegiata. Essa può assalire i suoi
nemici in Europa; difficilmente essere assalita. Quindi può
scegliere, a suo agio, il giorno che meglio le convenga a far la
guerra.
Gl'indugi, dunque, le giovano.
Dopo il 1871 essa si trova in una condizione assai migliore di
prima. Distaccata la Francia dal concerto delle Potenze centrali, la
Russia ha un nemico di meno. L'alleanza del 1854 non è più
possibile.
Alla Russia poco importa che la Francia riprenda l'Alsazia e la
Lorena. Direi anzi che le conviene lasciar la Francia
irreconciliabile con la Germania.
La Germania si è detta disinteressata nelle cose di Oriente, e si è
visto alle prove, non avendo preso parte diretta a tutte le
questioni che sono sorte nella penisola dei Balcani dopo il 1871.
Contro la Russia adunque non possono schierarsi che l'Italia e
l'Austria, Potenze territoriali, la Gran Brettagna Potenza
marittima. La Russia, spingendo i suoi armamenti, ed aspettando
finchè questi siano compiuti, dubito che i suoi avversari possano
opporre contro di lei forze sufficienti per vincerla.
L'Austria e l'Italia potrebbero raddoppiare gli eserciti, ma i loro
bilanci non lo permettono. E poi, se la Francia rompe in guerra per
rivendicare le provincie perdute, e la Russia vuol cogliere quel
momento per gettarsi sui Balcani, la partita per le Potenze centrali
diventerebbe difficile. Occupate al Reno ed alle Alpi, non
potrebbero disporre di grandi forze verso l'Oriente. Si correrebbe
il rischio, che la Russia fosse sola a lottare contro la Turchia
come nell'ultima guerra, l'Inghilterra non avendo un forte esercito
da mettere in campo.
Aggiungi che nessun aiuto la Turchia potrebbe avere dai piccoli
Stati balcanici; primieramente perchè alcuni di essi, come la Serbia
e il Montenegro, sono nell'orbita russa; secondariamente perchè
altri, come la Bulgaria e la Grecia, mirano a conquistare quei
territori che da gran tempo ambiscono per completare la loro
nazionalità.
Certo, per la Russia, l'impero austriaco è un imbarazzo, quando non
le è amico.
Nelle guerre del 1854 e del 1876 lo Czar potè ottenerne la
neutralità. Al 1854, era molto vicina la campagna contro l'Ungheria,
l'imperatore Francesco Giuseppe dovendo a.... la conquista del Regno
di Santo Stefano. Al 1876 l'Austria ebbe il compenso della sua
neutralità con la cessione della Bosnia e dell'Erzegovina.
Oggi la posizione è mutata. L'Austria e la Russia sono due rivali in
Oriente. L'Austria non può permettere che la Russia giunga a
Costantinopoli; la sua autonomia ne sarebbe scossa, ed il suo
avvenire compromesso.
Nell'impero vicino la guerra contro la Russia sarebbe popolare. A
Buda-Pest i russi sono detestati; ed a Vienna non sono amati. Gli
ungheresi non hanno dimenticato il 1849.»
CAPITOLO SESTO.
Il primo viaggio a Friedrichsruh.
Crispi e la Francia — Giudizii di Crispi su l'Impero e su
la Repubblica. — L'Esposizione di Parigi del 1889 e
l'Europa monarchica. — Primo viaggio di Crispi a
Friedrichsruh per visitarvi il principe di Bismarck: loro
colloquii. — Il discorso di Torino.
Quando l'on. Crispi giunse alla direzione degli affari, la Francia era
in un periodo di agitazioni. Il 17 maggio il ministero Goblet, ch'era al
potere soltanto dal 13 dicembre 1886, aveva rassegnato le dimissioni; il
signor Freycinet, incaricato di ricomporre il ministero, trovatosi
dinanzi a difficoltà insormontabili, aveva rinunziato al mandato, che
era stato dal Presidente della Repubblica offerto al signor M. Rouvier.
Questi riuscì, escludendo dal nuovo gabinetto il gen. Boulanger, già
popolare e indicato calorosamente dal partito radicale come il solo uomo
capace di salvare il paese. Il ministero Rouvier, peraltro, sembrava
dovesse essere un'amministrazione transitoria che avrebbe ceduto il
posto ad un gabinetto opportunista presieduto dal Ferry e appoggiato
dalla Destra. Queste previsioni non si avverarono intieramente; il
Rouvier consegnò dopo pochi mesi il potere ad un ministero Tirard (12
dicembre 1887), che alla sua volta non durò quattro mesi. Anche la
posizione del Presidente della Repubblica, Giulio Grévy, era scossa e il
suo ritiro sembrava questione di tempo, ma tale eventualità era attesa
con preoccupazione, temendosi che i radicali e i monarchici si
mettessero d'accordo per elevare all'altissimo ufficio il generale
Boulanger.
Le idee di Crispi sulla Francia erano note: conosceva profondamente la
storia di quel paese, e aveva potuto meglio comprenderla soggiornandovi
per lungo tempo; e se, astraendo dalla sua nazionalità, ammirava il
genio del popolo francese, i grandi servigi da esso resi alla civiltà,
come italiano era convinto che, e per le tradizioni storiche e per le
diverse condizioni di sviluppo sociale e per i contrastanti interessi,
un'Italia fiera della sua dignità, gelosa dei suoi diritti, non avrebbe
trovato nella Francia che un'avversaria prepotente.
L'Impero e la Repubblica tennero con l'Italia contegno diverso?
Per essere più esatti, riferiamo giudizi e opinioni dello stesso Crispi
sui due periodi.
Quali benefici ricevette l'Italia da Napoleone III?
Nel 1849 la rivoluzione italiana va estinguendosi nei suoi focolari:
sole resistono la Sicilia, Venezia, Roma. La Francia non interviene
in favor nostro, ma col pretesto di difenderne la libertà assalisce
la Repubblica Romana, invade Roma, vi ristabilisce il papato; nello
stesso tempo sequestra le armi e i vapori siciliani, e aiuta il
Borbone a impadronirsi della Sicilia. Ancora una volta il dispotismo
si aggrava sopra l'Italia; ma la Francia è stata punita; il
dispotismo si aggrava anche su lei.... Ed è nella piena servitù
dell'Italia che si solleva, o meglio, si risolleva in Francia una
delicata questione: la questione delle frontiere. Nel 1858
incominciano infatti ad uscire opuscoli dimostranti la necessità che
la Francia abbia le sue frontiere, e sul Reno e sulle Alpi. Si
tratta di ottenerle, e lo si cerca. — Come? Con una guerra di
conquista? Il tiranno abilmente non lo crede opportuno; piuttosto,
con la conclusione di un affare. Nella mente di Napoleone III — è
dimostrato — la guerra d'Italia non fu invero che un _affare_.
Con l'alleanza franco sarda, la Francia s'impegnava infatti ad
aiutare il Piemonte ad avere il Lombardo-Veneto; da parte sua, il
Piemonte s'impegnava ad indennizzare la Francia di tutte le spese di
guerra, e, in più, a darle le volute frontiere.
Nella mente di Napoleone era un gran disegno che incominciava a
colorirsi, nella lusinga di potere, rinnovando le gesta dello zio,
legittimare in certo qual modo l'usurpazione, e rassodare il trono
vacillante.
Egli fu tradito dagli eventi e da sè stesso. La guerra contro la
Germania, che doveva essere il coronamento dell'edificio, fu invece
l'ultima causa della sua rovina.
Giova intanto stabilire e constatare che il pensiero italiano non
entrò affatto nella mente di Napoleone, con la conclusione
dell'alleanza franco-sarda....
Ma oltre alle frontiere dell'Alpi, Napoleone III scendendo in Italia
aspirava a raggiungere un altro ideale.
Napoleone III aveva lasciato l'Italia nel 1831, quando ancora l'idea
unitaria non aveva fecondato che poche menti elettissime, ed era
straniera alla grande massa della popolazione. Egli credeva quindi
ancora alla virtù, presso le masse, del principio federativo; e,
ravvivando l'antico concetto dell'antagonismo franco-germanico, il
cui campo di lotta era il nostro paese, egli ebbe in animo di
vincere l'Austria, di cacciarla da quella parte d'Italia che gli
conveniva, per costituire questa parte in una Confederazione di
Stati piccoli e deboli, che dovevano riuscire mancipii della
Francia, liberti in tempo di pace, alleati per le sue guerre.
A chi vorrà fare sul serio la storia di questo periodo
importantissimo della vita mondiale — e diciamo mondiale, poichè fu
per l'Italia che il principio di nazionalità venne riconosciuto —
apparirà a questo punto un fenomeno singolare: la stessa idea
napoleonica era nutrita dall'Austria, per proprio conto.
Essa prevedeva forse i tempi nuovi, e tendeva a prevenirli con una
certa quale trasformazione della sua signoria — cercando di
collegare i suoi interessi politici agli interessi materiali delle
popolazioni italiane.
Non potendo spingersi sino a Napoli, ove il Borbone non accettò mai
l'ingerenza austriaca, l'Austria progettò infatti allora, pei Ducati
e per la Santa Sede, dei trattati di commercio che, sussidiati da
guarnigioni austriache, dovevano costituire gli Stati italiani in
uno _Zollwerein_ da lei diretto ed ispirato.
È in questo conflitto d'influenze e d'ambizioni fra la Francia e
l'Austria, oltre che nel desiderio delle frontiere, che bisogna
ricercare le ragioni della guerra d'Italia. Se dubbio fosse stato
possibile da principio, l'avrebbe dimostrato chiaramente il modo con
cui la guerra fu condotta.
I mazziniani, i quali erano allora si può dire i soli apostoli
dell'idea unitaria, sentirono tutto questo. Mazzini definì
esattamente lo scopo e predisse il termine della guerra, ed in un
suo manifesto — tanto egli ne era convinto — disse che la guerra
sarebbe stata comandata da Napoleone, e terminata quando a lui
sarebbe piaciuto e convenuto.
Intanto, ad estrinsecare l'idea della federazione, Napoleone manda
in Toscana un corpo d'esercito comandato dal principe Gerolamo.
Nella mente dell'Imperatore, la Toscana doveva costituire il regno
d'Etruria, del quale Gerolamo stesso sarebbe stato il Re, o meglio
il vicerè, dovendo lo Stato da Parigi ricevere la parola d'ordine
della propria esistenza politica e commerciale.
Ma le previsioni napoleoniche andarono fallite. Gerolamo invece che
alle voci di: _Viva la Toscana! Viva la Francia!_ è accolto dalle
grida di: _Viva l'Italia!_ Il seme gettatovi dai mazziniani già
aveva germogliato e l'idea federativa, sulla quale contava Napoleone
per dominare i piccoli Stati che egli andava formando nella sua
mente, aveva ceduto il posto alla grande idea italiana unitaria.
I rimproveri di molti francesi furono dunque ingiusti. Al pari di
Thiers, anche Napoleone III credeva, e prima di lui lo aveva creduto
Napoleone I, che un'Italia debole e disunita fosse nell'interesse
della Francia: e fu appunto per tenerla debole e disunita, e per
sottrarla al dominio dell'Austria, per farla tributaria della
Francia, che egli vi scese.
S'egli non vi riuscì, non fu sua colpa. Gli avvenimenti lo
ingannarono e furono maggiori di lui e della sua volontà; ma egli
non trascurò mezzo per arrestarne il corso, e per annullarne le
conseguenze.
Accortosi, infatti, del grande progresso fatto dall'idea unitaria,
egli dimentica il programma con cui aveva lusingato gl'italiani per
averne il concorso, e dopo una vittoria che gli avrebbe permesso di
cacciar l'Austria da tutta l'Italia, conclude l'armistizio, e, senza
nemmeno avvertirne il suo alleato, firma i preliminari di quella
pace di Villafranca che dapprincipio non voleva essere creduta
nemmeno dai ministri di Vittorio Emanuele.
Con Savoia e con Nizza la Francia ebbe allora le ambite frontiere, e
assai più; perchè Nizza francese è, oltre a tutto, un controsenso
geografico; coi cinquanta milioni d'indennità, ebbe pagate tutte le
spese di guerra. Ed ecco che il trattato di Zurigo viene a dar corpo
all'altra idea della federazione italiana.
Napoleone III, piuttosto che accettare l'idea dell'Italia una, si
appaga di dividere in quella confederazione, che doveva essere
presieduta dal Papa, la sua influenza coll'Austria, la quale doveva
esservi rappresentata dal Veneto, senza avvertire, da pessimo
politico, quale germe di continue guerre deponeva così.
Il trattato di Zurigo è però così favorevole all'Italia, che
l'Italia lo respinge. L'Italia non si ingannava sulle mire di
Napoleone, ed ebbe, gran virtù, il senso esatto delle intenzioni e
degli avvenimenti. Ond'è che la Toscana e l'Emilia dichiarano la
propria autonomia, e proclamano il principio dell'unità.
Napoleone, che vede crollare l'edificio delle sue previsioni e delle
sue speranze, contrasta l'unione di quelle popolazioni al Piemonte,
e impedisce il movimento delle popolazioni pontificie. Garibaldi non
può passare la Cattolica.
Ma il gran giorno dell'Italia era venuto. Palermo insorge: è, a
miracolo, organizzata la leggendaria spedizione dei Mille, la quale
non conosce ostacoli, e vince quelli di ogni genere che le sono
suscitati da tutti....
A quel punto, se veramente Napoleone fosse stato quel grande uomo
politico che molti, per troppi anni, vollero credere e far credere,
avrebbe compreso che ormai gli conveniva mutar tattica, e che, non
potendo far degl'italiani altrettanti clienti, gli era utile farsene
almeno degli amici, degli alleati.... Garibaldi giunge dunque a
Napoli contro la volontà di Napoleone....
.... Vince il Borbone al Volturno, e preparasi a marciare su Roma.
Ma Napoleone non cede, e, pari all'avaro, costretto a separarsi dal
proprio tesoro, egli si lascia strappare solo dai fatti compiuti il
consenso, e non interviene che per impedire. È così che, di fronte
al pericolo di vedere Roma data addirittura all'unità italiana,
cemento e centro di essa, egli conclude con Vittorio Emanuele una
Convenzione, per la quale l'esercito regio penetra nelle Marche e
nell'Umbria, che sono riunite alla monarchia, per impedire gli
ulteriori movimenti di Garibaldi.
E intanto la flotta francese proteggeva a Gaeta il Borbone, che
resisteva per essa, prolungandosi così, per colpa della Francia, una
inutile guerra....
Salvato infatti il patrimonio di San Pietro e posto sotto la tutela
delle armi francesi, ecco Roma divenire, per la Francia, il covo
della reazione italiana. Asilo dei principi spodestati, è là che si
ordiscono, sotto gli occhi di Napoleone, tutte le cospirazioni a
danno della nostra unità, è là che si organizza il brigantaggio e si
mantiene viva così la più orribile agitazione in una parte tanto
importante del nuovo regno. Era quella la caricatura della politica
per parte di un grande Stato, ma una caricatura sanguinosa, che non
può essere così facilmente dimenticata.
Gli sforzi dell'Italia indignata s'infrangono ad Aspromonte, e
l'alba del nuovo regno è così, per la Francia, funestata da una
tragedia, che è ancor viva e palpitante nel cuore di tutti gli
italiani.
Ma la politica francese non muta. L'organizzazione del brigantaggio
non bastandole più, eccola infatti affacciarne dinanzi al mondo la
più patente protezione.
Il 10 luglio 1863 approda a Genova l'Aunis delle Messaggerie
Marittime, portando seco sei briganti disposti ad esiliarsi; fra
essi è La-Gala. Il governo italiano vuole impadronirsene. La Francia
pretende che non si arrestino, che le vengano consegnati. E così si
fa; il tricolore francese garentisce la vita e la libertà di
assassini infami, infliggendo all'Italia la vergogna di non poter
punire il delitto, il delitto contro la patria e contro l'umanità.
Ma non basta.
Napoleone, per quanto lungi dall'essere un grand'uomo politico,
aveva però criterio sufficiente a comprendere come, dopo la
proclamazione di Roma a capitale d'Italia, fosse quella una
questione destinata a rimanere aperta. Ed ecco che, a chiuderla,
egli escogita la Convenzione del 15 settembre 1864, la quale altro
non voleva nè poteva significare che una rinunzia a Roma. Per essa
infatti si trasportava la Capitale in un punto centrale d'Italia, e
s'impegnava l'Italia non solo a riconoscere lo Stato Pontificio, non
solo a non attaccarlo, ma ad impedire che fosse attaccato: più, le
si faceva assumere una parte del Debito pubblico della Santa Sede,
dando così a questa i fondi per organizzare e pagare quell'esercito
che doveva vegliare a che Roma non divenisse italiana.
Tutti si attendevano che Napoleone avrebbe almeno rispettato cotesta
Convenzione di settembre, così umiliante per l'Italia. Niente
affatto.
Nella Convenzione era scritto, che la Francia avrebbe ritirato le
sue truppe dal territorio pontificio. Parve che le ritirasse, ma in
sostanza i soldati francesi furono arruolati nell'esercito
papale.[20]
[20] Agli zuavi pontificii, morti a Mentana, furono trovati i
libretti (_livrets d'hommes de troupe_), dai quali appariva ch'essi
appartenevano di fatto all'esercito francese, quantunque al servizio
del Papa. Abbiamo sotto gli occhi il libretto di Haslen Etienne del
33.º reggimento d'infanteria di linea, stato arruolato nella Legione
romana.
Ma era Roma soltanto che Napoleone contendeva all'Italia?
Il 1866 reca l'alleanza italo-tedesca. Napoleone III accorda
generosamente il permesso di quell'alleanza, ma impone il modo e la
durata della guerra all'Austria. Con l'Austria egli tratta anche
segretamente. Egli comprende che la guerra era inevitabile per
l'Italia, ma teme che questa esca troppo rafforzata dalla vittoria.
Quindi ogni suo sforzo è inteso ad impedire una buona prova delle
nostre armi: ed egli fa sì che la guerra si chiuda con una vergogna
della nostra politica, imponendo al Governo italiano l'accettazione
del Veneto dalle mani non più dell'Austria, ma della Francia stessa,
lasciando l'Italia senza frontiera orientale, dopo averle tolto la
frontiera occidentale.
Il conte Vitzthum, confidente del conte di Beust, era stato da lui
incaricato di una segreta missione presso il governo imperiale di
Francia. Egli arrivò a Parigi il 26 giugno 1866, quando giungevan
colà le notizie di Custoza. Egli ha narrato l'impressione prodotta
colà da quelle notizie nel suo libro _London, Gastein und Sadowa_,
così:
«Trovai che tutta la capitale era entusiasmata ed allegra per le
notizie delle vittorie austriache in Italia.
«Mi si assicurava, — e potei constatarlo — che in tutte le classi
della popolazione il giubilo per la sconfitta degli italiani era
universale, e quasi indescrivibile nelle caserme.
«I soldati insistevano da per tutto per potere illuminare i loro
quartieri in onore dell'esercito austriaco. E posso assicurare, che
questo stato di cose aveva fatto la più profonda impressione
_sull'italianissimo imperiale delle Tuileries_».
.... E invero, un'altra data ricorre al nostro pensiero, una data
fatale, un altro nome: Mentana; al quale la generosità italiana ha
contrapposto un'altra data, un altro nome: Digione.
.... Al 1869 Napoleone propone alle Potenze di mettere il territorio
pontificio sotto la garanzia dell'Europa. Egli vuole con un trattato
internazionale impedire all'Italia la conquista della sua capitale;
ed avrebbe ottenuto il suo scopo, se Berlino e Londra non si fossero
opposte.
La fatalità spingeva Napoleone alla rovina. Il fantasma dell'Italia
Una poteva sopra di lui più dell'evidente interesse.
L'Austria stessa vide nel 1870 quale sarebbe stato l'interesse della
Francia, Napoleone nol vide; l'Austria stessa spronava Napoleone a
dare Roma all'Italia, per assicurarsi l'alleanza italiana; Napoleone
nol volle. È così che tutti i negoziati tornarono vani, e che la
Francia rimase, per propria sua colpa, isolata in Europa.
Ed è di questo isolamento che si fa da quel giorno un delitto
all'Italia. Or non occorrono parole per dimostrare che, non solo una
follìa, ma sarebbe stato invece un delitto da parte dell'Italia il
prendere le armi contro una Potenza amica ed alleata, per aiutare un
padrone il quale, mentre pure chiedeva la nostra cooperazione, si
rifiutava di riconoscere i nostri diritti e persisteva nel volerci
opprimere.
Nè si creda che quello fosse un errore personale di Napoleone III.
Napoleone crolla, traendo con sè nell'abisso la Francia; ma la
Francia non rinuncia a Roma per questo.
L'Italia viene a Roma, ma il pensiero di Thiers non è diverso da
quello di Napoleone; l'Italia viene a Roma per merito delle vittorie
tedesche, che essa avrebbe dovuto impedire, e la Francia, impotente,
tollera, ma non accetta; e una nave francese, protesta permanente, e
segno del protettorato esercitato dalla Francia sulla Santa Sede,
staziona a Civitavecchia. Ci vollero anni prima che quella nave si
risolvesse a partire. Solo il ridicolo, l'unica arma che uccida
moralmente in Francia, e di cui la Francia era minacciata per quel
fatto, potè far sì che quella nave venisse ritirata.
Dopo il 1870 la Francia non ha praticato verso l'Italia che una
politica di dispetti e di risentimenti. Convinta che l'Italia non
volle aiutarla nel terribile conflitto ch'ebbe a sostenere con la
Germania, il governo repubblicano, seguendo i pregiudizi del governo
imperiale e tenendo lo stesso contegno orgoglioso, anzichè dissipare
i malintesi e lavorare a rendersi amico il popolo italiano, lo
ingiuriava, lo disprezzava, lo minacciava, e però se lo rendeva più
ostile. Se avesse studiato i precedenti, avrebbe compreso che
giustamente il popolo italiano aveva veduta come una liberazione la
scomparsa dell'Impero, il quale con le sue esigenze ed i suoi
arbitrii aveva dispotizzato sull'amministrazione italiana e impedito
la liberazione di Roma. Si aggiunga che, anche volendo, l'Italia non
avrebbe potuto aiutare l'Impero, poichè, pochi mesi prima che
cominciassero le ostilità, il governo, incauto e impreviggente,
aveva disarmato. Ed esponendoci a tutti i danni, compreso quello di
non aver Roma, chi ci avrebbe inoltre garantito del contegno
dell'Austria? Non era possibile che la Prussia, vedendosi attaccata
dall'Italia, che non aveva alcun motivo per dichiararle la guerra,
avrebbe trovato modo d'intendersi con l'Austria? Date queste
eventualità, noi avremmo potuto perdere i beneficî ottenuti
nell'ultimo decennio per l'unificazione della Patria!
Orbene, considerando tutte coteste cose, il governo della Repubblica
avrebbe dovuto fare una politica amica per conquistarsi l'amicizia
dell'Italia che l'Impero aveva perduta. Una politica di pace, di
rispetto, di fratellanza avrebbe impedito la costituzione della
Triplice Alleanza, e ci avrebbe avviati veramente all'unione delle
Potenze mediterranee.
La terza repubblica in Francia surse dopo un disastro nazionale. Non
fu l'effetto di una rivoluzione, nè di una cospirazione.
L'Impero ucciso a Sedan, difficilmente avrebbe potuto risorgere. Il
solo che avrebbe potuto dargli vita era Bismarck, ed egli non volle.
La monarchia del diritto divino non era pronta ad occupare il trono.
La monarchia di luglio non aveva il coraggio di assumere il potere,
ed in quei momenti di abbattimento per le inattese sconfitte,
nissuno avrebbe osato rilevare una dinastia che nulla aveva fatto
per meritarsi l'amore della Francia.
La sede essendo vacante, fu facile ai parigini di proclamare la
sovranità del popolo. E lo fecero con timidezza e quasi incerti del
domani. Il governo provvisorio assunse il titolo di difensore della
nazione, si costituì come una necessità del momento, e pei bisogni
del momento, che erano quelli di respingere la invasione straniera.
Quando nella sala dei Cinquecento, a Firenze, giunse la notizia che
il 4 settembre a Parigi era stata proclamata la Repubblica, coloro i
quali ricordavano i prodigi del 1792, credettero che la Francia
avrebbe dato una nuova prova della sua energia e che i prussiani
sarebbero stati cacciati.
I più prudenti riflettevano che i tempi erano diversi, e che
l'Europa d'oggi non era quella del '92. Soggiungevano che l'eroismo
oggi non ha l'efficacia dei tempi antichi e che il valore del
soldato non influisce più sulla sorte delle battaglie. L'arma
moderna è una macchina che lavora in lontananza e che rende
impossibile la lotta a corpo a corpo. Vince colui che ha saputo
raccogliere il maggior numero di soldati ed ha saputo armarli del
fucile a tiro rapido e di più lunga gettata. Anche le insurrezioni
oggi non possono più avere il successo di prima.
E dubito molto che una insurrezione sarebbe stata possibile a
Parigi, e che la Repubblica sarebbe potuta nascere in conseguenza di
un movimento popolare. I francesi in genere non sono fatti per
cospirare, e lo vidi e me ne convinsi durante il mio soggiorno nella
grande capitale.
Dopo le giornate di giugno 1848 e dopo il colpo di Stato del 2
dicembre, Cavaignac prima e Luigi Bonaparte dopo purgarono Parigi di
tutta quella massa di spostati, uomini di una vita costantemente
incerta, speculatori nel disordine, che sono l'avanguardia delle
insurrezioni e dei quali si valgono tutte le fazioni politiche.
Oggi, bisogna che la Francia dimentichi la storia del suo predominio
e della sua influenza al di qua delle Alpi. Bisogna che riconosca e
si abitui a riconoscere che la nazione italiana vale quanto la
francese, e che deve, come la francese, godere della sua
indipendenza e fruirne nel consesso delle nazioni».
Per la prima volta il 25 giugno 1887, alla Camera, l'on. Crispi fece una
dichiarazione riflettente la Francia, dal banco dei ministri, in
rappresentanza dell'on. ministro degli Affari esteri che era assente.
S'interpellava “sugli intendimenti precisi del governo in merito al
concorso dell'Italia all'Esposizione universale di Parigi nel 1889„.
Quella glorificazione della grande rivoluzione e quindi del
rovesciamento della monarchia in Francia accompagnato dagli orrori ben
noti, non poteva andare a genio ai governi monarchici d'Europa; e
infatti tutte le grandi Potenze, a incominciare dall'Inghilterra,
declinarono l'invito di partecipare ufficialmente all'Esposizione di
Parigi; la Russia dichiarò espressamente “l'impossibilità del governo
imperiale di associarsi ad una solennità intesa a glorificare dei
principii che stanno in diretta dissonanza con quelli su cui poggia la
sovranità degli Czar„.
Quando l'on. Crispi manifestò gl'intendimenti del governo italiano, gli
altri governi avevano già declinato l'invito; ond'egli potè dire che se
l'Italia fosse intervenuta, mentre le altre grandi Potenze si
astenevano, il suo intervento avrebbe assunto un significato politico
che non gli si voleva dare. Ma fece altresì calde dichiarazioni di
amicizia per la Francia, la quale non poteva lagnarsi dell'Italia perchè
non prendeva parte ad una Esposizione Universale che non sarebbe stata
più tale.
La stampa francese però non volle perdere l'occasione per imputare
all'on. Crispi preconcetti miso-gallici e passiva obbedienza alla
Germania; la quale, invece, aveva dapprima circondato il suo rifiuto di
perifrasi e promesse d'incoraggiare gl'industriali tedeschi ad esporre,
e mutò contegno solo quando ebbero luogo a Parigi dimostrazioni
anti-tedesche in occasione della rappresentazione del _Lohengrin_.
Quando, alla fine di settembre, i giornali francesi per i primi
annunziarono che l'on. Crispi era in viaggio per recarsi a far visita al
principe di Bismarck, parve si compiesse un avvenimento di gravità
eccezionale; e chi s'era proposto d'impressionare l'opinione pubblica
accennò a disegni bellicosi contro la Francia che si sarebbero
concretati a Friedrichsruh. L'on. Crispi era denunziato dai suoi
avversari palesi ed occulti come un impulsivo, e quindi come un uomo
pericoloso. Se avesse battuto la via dei suoi predecessori, gli
avrebbero ricordato che la politica da lui, deputato, sempre combattuta
non era poi così cattiva se da ministro la faceva sua; mettendosi egli,
invece, per una via nuova, prevedevano il finimondo.
I ministri italiani non usavano, sin allora, di varcare i confini
d'Italia per abboccarsi coi loro colleghi stranieri. Anche il Robilant,
prima della rinnovazione del trattato, a chi gli proponeva d'incontrarsi
col principe di Bismarck aveva risposto “non aver nulla da dirgli„. Ma
l'on. Crispi pensò di aver molte cose da dire al Gran Cancelliere
germanico; aveva fede in sè, nell'efficacia della propria azione
personale, e ricordava, d'altronde, che nel 1877, a Gastein, era
riuscito a fare apprezzare il valore dell'alleanza italiana quando
questa era ancora un evento remoto.
L'invito venne dal Principe. In una lettera particolare del 18
settembre, il conte di Launay scriveva all'on. Crispi di “avere ricevuto
il giorno innanzi la visita del conte Erberto di Bismarck, il quale
tornava da Friedrichsruh. Il conte gli aveva parlato di molte cose:
della questione bulgara e della situazione nella quale si trovava il
governo tedesco tra la politica dell'Italia e dell'Austria e quella
della Russia, delle cose discorse tra il principe e il conte Kálnoky
nella recente visita di quest'ultimo a Friedrichsruh, e del pregio che i
due Cancellieri attribuivano all'alleanza con l'Italia; infine, gli
aveva anche recato un messaggio del Principe per lui personalmente: egli
sarebbe stato felice se le circostanze gli avessero permesso
d'incontrarsi col collega italiano come soleva incontrarsi col conte
Kálnoky, che dal 1881 si recava ogni anno da lui; l'età e la salute
erano un ostacolo ad un viaggio in Italia del Principe, che non osava,
temendo di mancargli di riguardo, invitare Crispi ad un colloquio; ma a
Friedrichsruh, come a Varzin, o a Berlino, se un buon vento l'avesse
spinto verso quelle regioni, sarebbe stato lietissimo di riceverlo con
lo stesso sentimento di soddisfazione provato in occasione della sua
amabile visita a Gastein nel 1877. Spettava all'on. Crispi di
pronunziarsi sull'opportunità di una tal visita; se motivi personali o
politici l'avessero sconsigliato, o ritardato, nessuno gliene avrebbe
fatto carico„.
L'on. Crispi rispose al di Launay che un incontro col principe di
Bismarck era “uno dei suoi più vivi desideri„. Avrebbe preferito che
tale incontro avvenisse in maniera da sembrare fortuito; ma comprese
che, sebbene il Principe gli avesse, per delicatezza, lasciato la scelta
del luogo, in verità sarebbe stato più contento che l'incontro avvenisse
a Friedrichsruh, dove pochi giorni prima era stato il Cancelliere
dell'Impero austro-ungarico.
Crispi, cui non mancava il coraggio dell'amicizia, si decise subito, e
poichè doveva trovarsi in Roma nei primi di ottobre, profittò di quegli
ultimi giorni del settembre per recarsi in Germania. Egli stesso narra
nelle pagine che seguono del viaggio e dei colloqui avuti col Bismarck.
Ma prima di muoversi dall'Italia, il 23 settembre, avvenne tra il re
Umberto, Crispi e il Cancelliere germanico, questo scambio di cortesie:
«_A Sua Altezza il Principe di Bismarck._
Sono felicissimo di esprimere a V. A. le mie felicitazioni per il
25.º anniversario della Sua elevazione alle funzioni nelle quali
Ella rende così eminenti e gloriosi servigi all'Imperatore, mio
amico venerato, e alla Nazione che è nostra fedele alleata. Che Dio
conservi V. A. per lunghi anni alla grandezza della Germania, alla
pace dell'Europa, alla mia amicizia ed alla mia ammirazione,
sentimenti che sono condivisi dall'intera Italia.
UMBERTO.»
«_A Sua Maestà il Re d'Italia._
Prego V. M. di gradire i miei umilissimi ringraziamenti per le
graziose felicitazioni ch'Ella si è degnata indirizzarmi
nell'occasione del mio anniversario. Sono felice della augusta
approvazione che Vostra Maestà vuole accordare allo zelo che pongo
nella realizzazione delle intenzioni dell'Imperatore mio Signore,
mantenendo la politica di S. M. sulla via tracciata dall'alleanza e
garentita dall'amicizia provvidenziale che unisce i Sovrani, le
dinastie e le nazioni dell'Italia e della Germania.
VON BISMARCK.»
«_A Sua Altezza Serenissima il Principe di Bismarck._
In questo venticinquesimo anniversario del giorno nel quale un
Sovrano illuminato vi chiamava nei suoi Consigli, il mio pensiero
ritorna sulle grandi cose che avete compiuto. La patria tedesca
unificata sotto uno scettro glorioso, l'Impero germanico rialzato
dalle sue rovine e diretto da sedici anni verso uno scopo di pace e
di conservazione, ecco i grandi titoli alla riconoscenza del popolo
tedesco e all'ammirazione di tutti i vostri contemporanei,
anticipatori della posterità e interpreti della storia. In nessun
luogo meglio che in Italia si apprezza la grandezza della vostra
opera: grazie al genio politico secondato dalle armi, pochi anni
sono bastati per fare, di due popoli smembrati, due grandi Stati
degni di comprendersi.
Vostra Altezza che conosce i miei sentimenti personali a suo
riguardo, voglia gradirne ancora una volta l'espressione in questo
giorno.
CRISPI.»
«_A Sua Eccellenza il Signor Crispi._
Con tutto il cuore ringrazio V. E. delle buone parole che ha voluto
farmi giungere col telegrafo. L'analogia dei nostri precedenti
storici, delle nostre aspirazioni nazionali e dei pericoli che
possono minacciarci, ha creato tra i nostri due paesi quella
solidarietà d'interessi che li ha predestinati ad una alleanza
naturale e costante.
Io sono felice di essere chiamato a cooperare con V. E. al nobile
compito di conformare la nostra politica all'amicizia dei nostri
sovrani e ai principî di pace e di conservazione che dirigono le
intenzioni delle Loro Maestà, prestandoci noi mutuamente l'appoggio
morale e materiale contro qualsiasi attentato all'indipendenza dei
due alleati.
L'elevatezza dei sentimenti di V. E. e dei ricordi nazionali onde la
generazione è compresa in Italia come in Germania, ci dànno la
fiducia che questa politica deve riuscire.
VON BISMARCK.»
_27 settembre._ — Alle 9.50 pom. partenza da Roma.
_28 settembre._ — Arrivo a Milano alla 1 pom. Alle 5 a Monza. Alla
stazione viene a ricevermi il general Pasi.
Alle 5.30 sono dal Re, col quale m'intrattengo sino alle 7. — Alle
7.30 pranzo. — Ritorno a Milano.
_29 settembre._ — Mi si scrive dal Rattazzi, che il Re verrebbe a
Milano e che mi riceverebbe alle 5.30 pom.
Sono dal Re. — Alle 8.30 si parte.
_30 settembre._ — Alle 6.30 pom. a Francoforte, dove troviamo varii
telegrammi. Pernottiamo al «Frankfürterhof».
_1 ottobre._ — Alle 8.30 ant. si parte per Friedrichsruh. Poco prima
di giungere a Büchen, ci raggiunge il conte di Bismarck.
Alle 9.15 siamo a Friedrichsruh. Il conte mi avvisa: «Mon père». Il
Principe è alla stazione a ricevermi, e si avvicina al vagone in
atto di aiutarmi a scendere.
Mi fa salire nella sua vettura e mi conduce a casa, che è a pochi
passi. Sono ricevuto dalla Principessa, che si ricorda di me.
Presento i miei segretarii: mio nipote Palamenghi-Crispi,
Pisani-Dossi, Mayor.
Piccolo circolo. — Arrivo del dottore Schweninger. — Si va a
riposare.
_2 ottobre._ — Mi alzo alle 6.30 del mattino.
Alle 11 il Principe sale nel mio appartamento a visitarmi. Si scusa
di essersi alzato tardi. Ha dovuto obbedire al suo medico. Andrebbe
ad aprire il suo corriere, e fra un quarto d'ora sarebbe libero;
discenderei io nel suo gabinetto. Da lì a poco avvertito, scendo al
pianterreno, e traversando poche stanze che si seguono in fila,
giunto alla sala, d'ingresso trovo a destra una saletta dalla quale,
saliti alcuni gradini, passo nelle stanze di studio del Gran
Cancelliere. Nella terza stanza è il gabinetto, il quale è
mobigliato molto semplicemente.
Il Principe siede alla sua scrivania. Al vedermi si leva e ci
sediamo l'uno di fronte all'altro.
Il Principe fa un'esposizione della politica generale nei suoi
rapporti con la Germania.
Egli vuole la pace; e constata con dispiacere come a turbarla
esistano due sole Potenze, la Russia e la Francia. Egli però non ne
teme. La triplice alleanza è una potente garanzia alla conservazione
della pace.
Ha fatto tutto il possibile per rendersi amica la Russia; ma non vi
è riuscito. Al 1878 assunse su di sè il peso del Congresso di
Berlino per renderne meno dolorose le conseguenze allo Czar. Pregato
a prenderne l'iniziativa, si rifiutò; ma poscia recatosi da lui
Schouvalow a nome dell'Imperatore, consentì. Quale ne fu il
compenso? La Russia pose 200 mila uomini alla frontiera tedesca!
Ripete ch'egli vuole la pace; ma che, se la deplora, non teme la
guerra. La Germania può mettere subito sotto le armi un milione e
mezzo di soldati, e se è costretta da forti necessità, levando tutti
gli uomini validi, può mobilizzare 3 milioni di soldati. E vi sono,
per tre milioni uniformi, armi e quanto occorre a portare parecchi
eserciti sui campi di battaglia. Collocandone un milione alle
frontiere del sud ed un milione a quelle del nord, la Germania non
temerà l'offesa.
Al resto penseranno gli alleati.
La Russia non è sicura dei suoi eserciti. Le truppe, ufficiali e
soldati, sono lavorate dagli elementi rivoluzionarii. Il grande
impero pare invulnerabile, ma non lo è del tutto. La Polonia è una
debolezza e l'Austria in Polonia è simpatica. Per poco che si
aiutino ad insorgere, i polacchi potranno essere emancipati e
costituire uno Stato da potersi dare ad un arciduca austriaco.
Alessandro III non è partigiano della guerra. E quando pure volesse
farla, non gli converrebbe andare in Bulgaria. Là, a poca distanza,
è la Transilvania, e l'Austria avrebbe facile via per piombare sopra
i russi.
Al principe di Bismarck poco importa che i russi vadano a
Costantinopoli. La Russia con quella conquista sarebbe più debole.
A lui poco importa la soluzione della quistione bulgara e se mai ne
sorgesse la guerra, non vi prenderebbe parte finchè la Francia
restasse tranquilla. Il contegno della Francia potrebbe soltanto
spingerlo a prendere le armi.
Egli conta molto nella triplice alleanza, ed ha fiducia nelle due
Potenze amiche. Non dubita della lealtà dell'Austria.
È popolare in Austria l'alleanza con la Germania e l'Italia. Vi
sarebbe impopolare un accordo con la Russia. Contro la Russia la
guerra sarebbe popolare; con la Russia impossibile.
Risposi esponendo le condizioni d'Italia. Il nostro esercito,
quantunque non raggiunga il milione di soldati, è ormai forte e
compatto per poter sostenere gli obblighi assunti con le due
alleanze. In aprile noi potremo mettere mezzo milione di soldati in
prima linea, oltre la riserva e la territoriale.
Il nostro paese è tranquillo; noi non temiamo i partiti sovversivi.
I nostri internazionalisti sono rari e non verrebbero mai
all'azione. In caso di assalto straniero, tutte le classi sociali
concorrerebbero alla difesa del territorio nazionale. In caso di
spedizione all'estero potremo fare i maggiori sforzi, perchè
all'interno non avremmo a temere insurrezioni.
Noi non possiamo dirci disinteressati nella questione orientale. Non
possiamo permettere che la Russia vada a Costantinopoli. La Russia a
Costantinopoli sarebbe padrona del Mediterraneo; le sarebbe facile
valersi dei marinai che offre la Grecia, con la quale, pei suoi
vincoli religiosi, potrebbe essere d'accordo.
Io non credo che la Russia diverrebbe più debole, prendendo
Costantinopoli. Cotesto grande impero, allargando il suo dominio in
Europa, potrebbe farne sua base, imperando facilmente sull'Oriente e
sull'Europa.
Ad impedire che ciò avvenga, l'Italia segue la sua politica
tradizionale. Al 1854 Cavour concorse alla guerra in Crimea,
unendosi alla Francia ed all'Inghilterra, giusto a cotesto scopo; ed
oggi l'Italia non potrebbe fare altrimenti.
Noi comprendiamo i pericoli che minacciano l'Europa, ed a
scongiurarli ci siamo opposti a qualunque atto, che da parte della
Russia o della Turchia potesse produrre la guerra.
A noi poco importa che in Bulgaria regni Alessandro di Battenberg o
Ferdinando di Coburgo. È nostro interesse soltanto che colà non sia
turbata la pace. E la pace vi sarebbe turbata, se le grandi Potenze
accettassero la proposta russa di demolire in Bulgaria quello che di
fatto vi esiste, con l'invio di un luogotenente principesco. Il
principe Ferdinando non partirebbe di buona voglia da Sofia, e se
pur ne partisse i bulgari si opporrebbero anche con le armi al
Luogotenente russo ed al Commissario turco.
Io non m'illudo sulle condizioni della Turchia. Quell'Impero è in
dissoluzione, e da un momento all'altro può darsi che se ne apra la
successione. Nei nove anni che seguirono al trattato di Berlino,
nulla ha fatto il Sultano per riordinare la sua amministrazione. È
un miracolo, anzi, ch'egli continui a sostenersi, il suo governo
mancando dell'alimento principale della vita degli Stati, cioè delle
finanze. L'art. 23 del trattato di Berlino gli imponeva di dare alle
sue Provincie regolamenti somiglianti a quelli di Creta, ed il
Sultano nulla ha fatto e le Potenze non lo hanno richiamato allo
adempimento de' suoi doveri.
Il disordine attuale della Turchia può giovare alla Russia, che
l'agguata, pronta a darle l'ultimo colpo. Ciò non può convenire alle
grandi Potenze, le quali non possono permettere alla Russia
d'impossessarsi di quel territorio.
In tale stato di cose, il dilemma che a noi si presenta è questo; o
unirci per riordinare l'amministrazione della Turchia, difenderla
ove ne fosse il caso, impedire insomma che essa precipiti, o
preparare le basi per un governo o più governi che dovrebbero essere
sostituiti al turco.
In questo secondo caso io non vedrei altro di meglio che,
rispettando le autonomie delle differenti regioni, come la
Macedonia, l'Albania, la vecchia Serbia, ecc., costituirle nel modo
istesso, siccome oggi sono la Rumenia, la Bulgaria e gli altri Stati
balcanici.
Il concetto delle autonomie è accettato a Vienna. Dai dispacci del
nostro Ambasciatore in quella città risulta che il conte Kálnoky
vuole il rispetto delle autonomie locali nella penisola balcanica.
Non so come il Kálnoky intenda attuare il suo pensiero, ma a me
basta constatare che nei principii siamo d'accordo.
Il Principe allora riprese che egli vedeva di buon occhio il gruppo
delle tre Potenze, e desiderava anzi che fosse compatto, e che
facesse valere la sua autorità.
Nella Bulgaria nulla egli ha da vedere. Sarebbe stato meglio vi
fosse rimasto il principe Alessandro. Esso però fu imprudente, ed
affrettò la sua fine, violando il trattato di Berlino. Fece anche
dippiù: offese la suscettibilità dell'Inghilterra co' suoi progetti
di matrimonio. Comunque sia, egli non è più principe.
La Russia insiste nelle sue proposte. Bismarck le appoggerà se
verran fatte proprie dalla Turchia. È però di avviso che non
approderanno. Libero però il governo italiano di seguire in Oriente
la politica sua; la Germania sarà sempre d'accordo con l'Italia in
tutto ciò che giovi al mantenimento della pace. Se la pace in
Oriente venisse turbata, la Germania sarà co' suoi alleati, stando
alla retroguardia.
Per quanto si riferisce alle cose dell'Oriente — soggiunge il
Principe — vedetevela col conte Kálnoky. Combinate tutto con lui,
stabilite con lui. Potrà essere l'oggetto di un trattato speciale.
Riprendendo la parola, soggiunsi che la conservazione della pace era
il mio desiderio ed il mio proponimento. Manifestai il mio
rincrescimento per le condizioni eccezionali nelle quali ci troviamo
in Massaua. Quella occupazione non è un fatto mio: la trovai. È mio
dovere però, è dovere del governo italiano di riparare all'offesa
patita. Sarà una guerra di poco momento, alla quale siamo obbligati;
è una guerra dalla quale non possiamo liberarci.
Io voglio sperare che la Francia sarà tranquilla, ma dovrò osservare
che i trattati del maggio 1882 e del febbraio 1887 sono incompleti.
Si previdero le ipotesi del concorso reciproco di una delle due
Potenze in caso di una guerra; ma non si pensò a fare una
convenzione militare, la quale io ritengo sia necessaria.
Nissuno può sapere nè quando nè come scoppierà la guerra. Può essere
un fatto improvviso; e non si deve attenderlo per metterci d'accordo
nella parte che ciascuno di noi dovrà prendere alla difesa comune.
Giova stabilire il più presto possibile un piano di difesa e di
offesa prevedendo tutte le ipotesi, affinchè, scoppiata la guerra,
ciascuno di noi sappia quello che deve fare.
Insomma una convenzione militare è complemento ai trattati di
alleanza.
Il Principe rispose che comprendeva la ragionevolezza della mia
proposta e che l'accettava. Era necessario però ch'egli ne parlasse
con l'Imperatore e prendesse all'uopo gli ordini di S. M.
L'Imperatore è il capo dell'esercito.
Replicai, che ammessa in principio la mia proposta, nulla avevo da
aggiungere, se non che ad esprimere il desiderio che altrettanto si
dovesse fare con l'Austria.
L'Austria — soggiunsi — è quello che è, impero poliglotta, composto
di varie nazionalità. Io la rispetto, perchè rispetto e dovrò
rispettare i trattati.
Per me l'esistenza dell'Austria è necessaria all'equilibrio
d'Europa. Lo riconosco, e l'Italia sarà una fedele alleata del
vicino impero.
Tengo a dirlo poichè fui suo nemico, e cospirai contro di esso sino
a quando possedette provincie italiane. E perchè sono sincero nelle
mie dichiarazioni, dovrò pregarvi d'interporvi presso il gabinetto
di Vienna in una questione la cui soluzione ci interessa tutti,
l'Austria e noi.
Nello Stato austriaco vi è una forte popolazione italiana, una
popolazione importante in ogni senso, che giova al governo austriaco
tenersi amica.
Io non domando privilegi per la popolazione italiana. Domando che
sia trattata come tutte le altre nazioni dell'Impero. Il governo
austriaco ci guadagnerebbe, perchè toglierebbe ogni motivo a
lagnanze e se la renderebbe amica.
V. A. non può comprendere qual danno derivi dai cattivi trattamenti
ed in quale imbarazzo l'Austria metta il governo italiano. Tutte le
volte che giungono in Italia notizie di violenze fatte agli italiani
dall'Austria, il sentimento nazionale si ridesta ed i partiti
politici se ne valgono di pretesto per turbare la pace pubblica.
Del resto, l'Austria non può vivere ed esser forte che a condizione
di rispettare le varie nazionalità dell'impero.
Il Principe mi ringraziò di tali dichiarazioni, e promise che
avrebbe fatto giungere la sua parola a Kálnoky.
Dopo ciò riputai necessario di toccare un altro argomento, il quale
interessa l'Italia e la Germania soltanto: l'esercizio dei diritti
civili degli italiani in Germania e dei tedeschi in Italia, sul
piede di perfetta eguaglianza; lo pregai di affrettare l'attuazione
di codesto concetto.
Il Principe, ricordandosi la promessa fattami in proposito per mezzo
dell'Ambasciata tedesca in Roma, dichiarò che l'affare era allo
studio e che l'avrebbe sollecitato. «Si studia un Codice Civile per
tutto l'Impero per togliere la molteplicità dei Codici attualmente
in vigore. Si è dovuto quindi sentire i ministri di Giustizia dei
varii Stati. Ci vuol tempo, ma si farà presto».
Era ormai mezz'ora dopo le 12 meridiane. Il Principe mi pregò di
sospendere il colloquio, che avremmo ripreso dopo la colazione, e di
andare a passeggiare nella foresta.
Lui, io ed Herbert, appoggiati ciascuno al nostro bastone — me ne
aveva dato uno di quelli che erano nell'anticamera — procediamo per
un viottolo che si apre alla sinistra della casa. Si gira per oltre
una mezz'ora e di tanto in tanto il discorso politico è interrotto
dal Principe con le notizie ch'egli mi dà dei luoghi che
traversiamo.
Il Principe mi domanda di Cucchi — un deputato italiano che nel
1870, durante la guerra, fu inviato al Quartier generale germanico
dal Comitato della Sinistra — e vuole che io glielo saluti. Il che
dà occasione a discorrere della origine dei nostri rapporti
anteriori alla guerra del 1870, del viaggio di von Holstein a
Firenze, degli aiuti che furon dati alla Prussia impedendo l'invio
di truppe italiane in Francia.
Si camminava a passo accelerato. Ricordando il 1870 e caduto
naturalmente il discorso sulla Francia, mi venne fatto di avvertire
come il _Matin_ avesse esplicato il mio viaggio a Friedrichsruh. Il
_Matin_ aveva stampato che scopo della mia visita era stato la
conciliazione col Papa. Ed il Principe:
— Giusto quello di cui non abbiamo parlato. I francesi cercano
«mezzogiorno a 14 ore».
— E del resto non ve n'era ragione.
— È una questione che non c'interessa, e della quale non dobbiamo
occuparci.
E vi dirò che nessuno dei prelati mi ha parlato del potere
temporale, prevedendo purtroppo quale sarebbe stata la mia risposta.
Come notizia storica parlai del padre Tosti, del suo opuscolo, delle
intenzioni del Papa, delle contraddizioni, della lettera di Leone
XIII e dell'altra di Rampolla, che bastarono per obbligarmi a non
essere neanco cortese in alcune materie, nelle quali avremmo potuto
condiscendere restando nei confini della legge per le guarentigie
pontificie.
Pochi minuti prima dell'una, siamo già ritornati a casa, e si va a
far colazione.
Dopo la colazione si tien circolo in una delle stanze attigue alla
sala da pranzo. È lì un grande armadio di noce pieno di carta da
scrivere, penne, ecc., regalato al Principe da alcuni fabbricanti di
oggetti di cancelleria in uno de' suoi anniversarii. «Vi è più di un
quintale di carta», dice ridendo la Principessa.
La Principessa mi presenta un _album_ veramente albo, cioè tutto
bianco; e chiede che io pel primo vi scriva qualche parola. Scrivo:
«In questo asilo del patriottismo, dove si veglia al mantenimento
della pace di Europa, lascio questo mio ricordo — 2 ottobre 1887 —
F. CRISPI». Il pensiero è molto gradito e il Principe esclama in
tono solenne: «Vostra Eccellenza ha bene interpretato l'animo mio.
Io lavoro al mantenimento della pace, non vivo che per questo...
Abbiamo fatto abbastanza per la guerra; agiamo ora, e agiamo
d'accordo, per la pace».
Verso le 3.30 il Principe mi invita a fare una passeggiata in
vettura nel parco. Consento.
La Principessa, temendo che il mio soprabito fosse leggiero, mi
getta sulle spalle il gran mantello militare del marito.
Si corre traverso la foresta per lungo e per largo. Pioviccica un
momento, e poscia le nubi si diradano per raccogliersi e condensarsi
di nuovo, tanto che fa d'uopo alzare il mantice della vettura.
Finalmente il cielo ci concede un armistizio, e ci mostra un po' di
turchino.
Verso le 5.30 siamo ritornati a casa.
Nelle due ore di corsa abbiamo ripreso il colloquio della mattina, e
siamo venuti ad una conclusione.
Si farebbe la convenzione militare. Presi gli ordini
dell'Imperatore, il Principe scriverà una lettera proponendo la
negoziazione e noi risponderemo affermativamente.
Alle 6 si va a pranzo: siamo a tavola: i miei segretarii, i due
Consiglieri della Cancelleria, Herbert, il medico del Principe, la
Principessa, il Principe, io.
Alla fine del pranzo si passa nel salotto. Bismarck si adagia nel
suo seggiolone e si mette a fumare le sue pipe. Gli chiedo quando
potrebbero iniziarsi i negoziati. Il Principe chiede al figlio
quando ritornerà l'Imperatore. E avuta risposta che sarebbe
ritornato dopo il 20 ottobre, dice: «Appena l'Imperatore sia a
Berlino, farò l'invito».
La conversazione versò su vari argomenti: su Napoleone III, sulla
guerra del 1859, sulla formazione del Regno d'Italia. Bismarck opinò
che Napoleone III avesse cuore, ma difettasse di mente. Raccontò che
l'Imperatore gli aveva confidato sin dal 1857 di aver deciso di far
la guerra all'Austria e che commise a lui di persuadere il Re di
Prussia a essergli alleato. Prometteva in premio l'Hannover o
qualche altra terra tedesca. Bismarck aveva risposto che la
comunicazione del progetto al suo Re sarebbe stato un errore, perchè
il Re l'avrebbe rivelato all'Austria.
_3 ottobre._ — Mi alzo alle 6 del mattino. Verso le 7 viene a
trovarmi il conte de Launay, ambasciatore d'Italia a Berlino, che
metto a giorno delle cose discorse col Principe. Egli n'è
soddisfatto.
Mezz'ora dopo mi si annunzia il Principe. Gli dò notizia dei casi
del Marocco, e gli dichiaro qual sarebbe il contegno dell'Italia
perchè, in caso di morte del Sultano, al trono sceriffiale non
andasse un favorito della Francia e perchè la Francia non prendesse
pretesto di quel fatto per estendere le sue frontiere dal lato del
Marocco.
Alle 8 ci disponiamo alla partenza. Il Principe e la Principessa mi
accompagnano sino al vagone. Mentre si scambiano gli ultimi saluti e
il treno si muove, Bismarck dice: «Siamo d'accordo su tutto...
possiamo esser soddisfatti... abbiamo reso un servigio all'Europa».
Si arriva alle 11 ad Hannover, dove, prevenuto dal Gran Cancelliere,
si trova il sig. di Bennigsen, capo del partito nazionale-liberale.
Si fa colazione insieme, quindi ripartiamo.
Alle 8,30 pom. si giunge a Francoforte sul Meno, dove pernottiamo.
_4 ottobre._ — Compio oggi 67 anni. Svegliandomi, uno dei miei
segretari mi reca il seguente telegramma:
«Agréez, cher Collègue, de ma part et de celle de ma femme nos
félicitations les plus empressées à l'occasion de l'anniversaire de
votre jour de naissance, et les vœux que nous formons pour votre
santé et pour vos succès au service de la patrie.
von BISMARCK.»
All'una del pomeriggio siamo nuovamente in treno per ritornare in
Italia, via Gottardo.
_5 ottobre._ — Alle 7 antimeridiane sono a Monza, dove conferisco
col Re.
All'una riparto per Milano, dove pernotto.
_6 ottobre._ — Alle 10 ant. viene a visitarmi il conte Nigra,
ambasciatore d'Italia a Vienna. Conferenza sino alle 11,30. Il conte
Nigra mi comunica una proposta del barone di Calice, ambasciatore
austriaco a Costantinopoli, da servire di base ad un accordo tra
l'Italia, l'Austria e l'Inghilterra nella questione d'Oriente:
«1.) Mantenimento della pace — 2.) _Status-quo_ fondato sui
trattati. Esclusione di compensi — 3.) Autonomie locali — 4.)
Indipendenza della Turchia e degli Stretti, etc., da ogni influenza
straniera preponderante — 5.) La Porta non potrà far cessione dei
suoi diritti sulla Bulgaria ad altre Potenze — 6.) Associazione
della Turchia per guarentire quanto sopra — 7.) In caso di
resistenza della Turchia e pretese illegali della Russia, le tre
Potenze si concerterebbero per l'appoggio a darle — 8.) In caso di
connivenza o passività della Turchia, le tre Potenze si
concerterebbero per occupare certi punti a scopo di equilibrio.»
Partiamo per Roma alle 8,15 pom.
La visita dell'on. Crispi al principe di Bismarck fu commentata
sgarbatamente dai giornali francesi, cui fecero eco i nostri giornali
radicali; ma nella grande maggioranza l'opinione pubblica italiana ne
intuì l'importanza, e fu lieta della manifestazione di simpatia fatta
all'Italia dalla stampa germanica unanime. La _Norddeutsche Allgemeine
Zeitung_ pubblicò un notevole articolo nel quale, dopo aver mostrato
come l'analogia dei destini politici e la comunanza degli interessi
legassero con stretti vincoli fra loro, Italia e Germania, costituite
entrambe in nome dell'idea nazionale, attribuì al convegno di
Friedrichsruh il significato di un nuovo pegno dei pacifici propositi
dei due paesi. La _National Zeitung_ notò che l'affermazione
dell'accordo dell'Italia con gl'imperi centrali avrebbe giovato “a
fortificare gli elementi pacifici in Russia e in Francia„. Anche la
clericale _Germania_ osservò che poichè l'Italia esisteva e Crispi ne
dirigeva la politica, era confortante il vedere che la forza dell'Italia
stava con le Potenze che si adoperavano al mantenimento della pace.
Il 25 ottobre all'on. Crispi fu dato a Torino per iniziativa degli on.
Giolitti, Roux, e pochi altri deputati, ai quali si unirono poi i
personaggi più cospicui del Piemonte, un grande banchetto al quale
intervenne il ministero quasi al completo e aderì gran parte dei membri
delle due Camere legislative. In quell'occasione, memorabile anche per
le accoglienze cordialmente festose che il Piemonte fece al primo
meridionale assunto alla direzione del governo d'Italia, l'on. Crispi
pronunciò importanti dichiarazioni sulla politica estera che intendeva
seguire. Giova qui riprodurle:
«Ed eccomi condotto a parlare della politica con cui miriamo a
mantenerla e a rafforzarla. Argomento delicato e geloso! poichè la
politica estera ha duopo di abili fatti, ma di poche parole. Esso è
argomento, però, sul quale voi vi aspettate che io vi apra l'animo
mio. E parlerò, schietto e sincero, conforme alle norme della
moderna diplomazia, la quale disprezza le antiche arti dell'inganno
e della menzogna.
La pace! ecco l'intento supremo che perseguiamo. La pace, la quale è
così necessaria al nostro progressivo sviluppo interno,
all'attuazione delle riforme invocate, all'impiego utile e
fruttifero dei nostri redditi, al compimento delle opere di pubblico
vantaggio che tanta parte d'Italia reclama ancora. E in quali modi
cerchiamo dunque di assicurarla?
Noi siamo amici di tutte le Potenze, con tutte desideriamo mantenere
i migliori rapporti.
Ve ne hanno con le quali quei rapporti sono più intimi.
Ma se siamo, sul continente, alleati colle Potenze centrali, se sui
mari procediamo d'accordo con l'Inghilterra, nessun obbiettivo ci
proponiamo da cui gli altri si debbano sentir minacciati.
Il mio recente viaggio in Germania inquietò la pubblica opinione in
Francia.
Fortunatamente però non alterò la fiducia di quel governo, il quale
conosce la lealtà delle mie intenzioni, e sa che nulla io vorrò
ordire contro il popolo vicino, a cui l'Italia è legata per analogia
di razza e tradizioni di civiltà. Vissi due anni in Francia, dal
1856 al 1858, e i figli di quella generosa nazione, coi quali fui
intimo ed ai quali schiusi il mio cuore, ben sanno quanto io ami il
loro paese, e come non partirà mai da me alcuna provocazione ed
alcuna offesa. Sanno che sarebbe il più felice dei miei giorni
quello in cui potessi contribuire a portar la pace nei cuori
francesi.
Una guerra fra i due paesi nessuno potrà desiderarla e volerla,
imperocchè la vittoria o la sconfitta sarebbero del pari funeste
alla libertà dei due popoli, perniciose allo equilibrio europeo. Con
tali convinzioni, e per calcolo, noi lavoriamo al mantenimento della
pace.
Il nostro sistema di alleanze è dunque inteso a scopo di
preservazione, non di offesa; di ordine, non di perturbamento. Esso
giova all'Italia, ma giova pure agli interessi generali.
Nè siamo i soli in Europa a volere il progresso nella conservazione,
il lavoro operoso nella pace.
La storia del periodo in cui viviamo è dominata da un nome: quello
di un uomo di Stato, pel quale la mia ammirazione è antica, come
antichi già sono i vincoli personali che a lui mi legano; di un uomo
il cui programma di governo si distingue per meraviglioso
coordinamento delle varie parti di un medesimo fine: questo fine,
duplice in apparenza, è uno in fondo: la pace e la grandezza del suo
paese. Quest'uomo da trent'anni ha lavorato, prima a conseguire quel
fine, poi, conseguitolo, a conservarlo. Quest'uomo, che seppe quel
che volle, e ciò che volle fortissimamente volle, voi l'avete tutti
nominato. Tutti lo conoscono per un grande patriotta, ed io
aggiungerò che egli è un antico amico dell'Italia, un amico della
prima ora, un amico dei giorni d'infortunio e di servaggio, poichè
dal 1857 egli era nel segreto di ciò che stava maturando, in mezzo a
tante difficoltà, la politica del conte di Cavour, e taceva, ed a
chi avrebbe potuto parlare imponeva di tacere, ben sapendo quanta
opposizione il parlare avrebbe suscitato e quanto convenisse al suo
proprio paese che i destini d'Italia si compissero, poichè l'unità
germanica si preparava con l'unità italiana.
Non mi dilungherò sui recenti colloqui avuti con lui.
Solo dirò che l'accordo di pensieri e di sentimenti che tra noi già
esisteva, ha persistito attraverso alle opposte vicende, e si è
affermato nuovamente dacchè la politica dell'Italia mi è affidata.
Si è detto che a Friedrichsruh abbiamo cospirato. E sia pure: a me,
vecchio cospiratore, la parola non fa paura. Sì, se si vuole;
abbiamo cospirato, ma abbiamo cospirato per la pace, e però alla
nostra cospirazione tutti coloro che amano questo bene supremo
possono partecipare. Dei detti memorabili uditi, uno solo la
discrezione mi permette di ricordare innanzi a voi, pronunciato nel
momento del comiato, e nol tacerò, poichè è in esso la sintesi del
nostro convegno. — È questo: «Abbiamo reso un servigio all'Europa».
Io vado, pel mio paese, altero di ricordarlo — poichè mai, in una
unione completa e cordiale come quella dell'Italia e dei suoi
alleati, è stata tanto rispettata la sua dignità, sono stati tanto
garantiti i suoi interessi.
Ma, oltrechè con le alleanze, perseguiamo l'intento della pace col
volere la giustizia. Ciò vi spiega, o signori, la nostra politica in
Oriente. Ivi ciò che domandiamo si è il rispetto dei diritti dei
popoli, conciliato, in quanto è possibile, col rispetto dei trattati
che formano il diritto pubblico ed europeo; ciò che speriamo si è lo
sviluppo progressivo delle autonomie locali. Si hanno nella penisola
dei Balcani quattro nazionalità distinte, ciascuna avente la sua
lingua, la sua sede secolare, le sue tradizioni antichissime, e —
ciò che è più — la coscienza della propria individualità come
nazione e l'aspirazione all'indipendenza. Ebbene, questi popoli che
anelano, come ogni ente, a vita libera, aiutiamoli a riprendere
possesso di loro stessi, senza lotte, senza spargimento di sangue,
senza nuovi martirii. Non è questa la politica la più degna
dell'Italia, la più conforme alle sue origini ed ai nostri
principii? E riflettete, signori: codesta non è soltanto politica di
principii e di sentimenti: è altresì politica d'interessi bene
intesi. I popoli balcanici, che colà rappresentano la giovinezza con
le sue inesperienze, ma anche l'avvenire con le sue speranze e le
sue forze, non dimenticheranno l'aiuto disinteressato che l'Italia
avrà loro prestato. Abbiamo forse, noi, dimenticati i servizi
disinteressati a noi resi? Chi proferisce questa bestemmia, si
rivolga al popolo inglese, a cui ci legano tosto quarant'anni di
amicizia non mai turbata, e saprà da esso se nella sua storia abbia
mai avuto alleato più fedele, amico più sincero del Piemonte
dapprima e dell'Italia oggi giorno.
E nella stessa Francia vi è forse uomo di senno retto e imparziale
che sia disposto ad accreditare col suo consenso le accuse
d'ingratitudine che spesso da quel suolo, così caro ad ogni
italiano, contro l'Italia si sono elevate?
Ma pace senza scambi è pace infeconda, e però, perseguiamo ancora il
nostro intento con lo stringere vincoli commerciali con le Potenze
vicine. Un trattato era stato denunciato. Fu mia cura, appena venuto
al potere, di fare pratiche per il rinnovamento dei patti e per
evitare, anche per un sol giorno, una guerra di tariffe fra due
paesi i cui interessi sono così strettamente commisti come la
Francia e l'Italia. Un altro trattato con un impero amico ed alleato
veniva a scadenza. Non esitai a intavolare negoziati. Avviate a
Vienna, le trattative continuano a Roma, ove ho, prima di partire,
salutato, nella fiducia di un non difficile successo, i negoziatori
dell'Austria e della Ungheria.
La reciproca tutela della diversa produzione e del lavoro diverso,
che in tanto combattersi di teorie economiche è la sola guida
pratica che si possa ascoltare, ci offre larga base ad equi compensi
ed a giusti compromessi. Ed il successo ci sarà tanto più caro,
perchè i due Stati fra i quali esistono già i vincoli politici leali
e non oziosi, non conservano di lotte, ormai antiche, altra memoria
che la stima del reciproco valore.»
Il discorso-programma dell'on. Crispi, non solamente ottenne un grande
successo in Italia, ma fu considerato in tutta l'Europa come un
avvenimento di notevole importanza per la politica internazionale.
Dimostrano ciò i documenti e i giudizii che riferiamo.
L'Incaricato d'affari italiano a Parigi scrisse il 27 ottobre:
«Nell'udienza che io ebbi ieri presso questo sig. ministro degli
Affari esteri, gli feci leggere il testo stesso quale mi venne
telegrafato dall'Eccellenza Vostra, dei punti relativi alla politica
estera, del discorso da Lei pronunciato il giorno innanzi a Torino.
Il sig. Flourens se ne mostrò soddisfatto, mi disse che il governo
francese non aveva mai dubitato delle intenzioni di Vostra
Eccellenza a suo riguardo; che ciò nondimeno le dichiarazioni
pacifiche ed amichevoli per la Francia, contenute in quel discorso,
erano tali da produrre un'influenza favorevole e benefica
sull'opinione pubblica, quantunque la prima impressione, seguita
alla sorpresa del viaggio di Vostra Eccellenza a Friedrichsruh, si
fosse già sensibilmente calmata. Il sig. Flourens non accennò ai
punti relativi all'Inghilterra ed al principe di Bismarck: non
poteva lodarli e preferì tacerne.
Quanto all'accoglienza fatta al discorso da parte della stampa
parigina, egli è evidente che non potevamo attendere apprezziazioni
favorevoli e spassionate: per i francesi noi restiamo gli alleati
della Germania; ai loro occhi questo fatto domina qualsiasi altra
considerazione. «Consentiamo pure, dice il _Matin_ di stamane, a
ritenere sincere le proteste d'amicizia dell'antico rivoluzionario,
il quale ricevette durante il suo esilio in Francia la cordiale
ospitalità di cui non ha perduto il ricordo, ma d'altra parte non
possiamo non conservare una certa diffidenza contro l'uomo di Stato
il quale corrispose con sì viva premura agli inviti del nostro più
mortale nemico». Tale, in poche parole, è il sentimento reale della
maggioranza. Il _Journal des Débats_, pur accogliendo le parole
dell'Eccellenza Vostra sull'eventualità di una guerra contro la
Francia, secondo il sentimento che le ha ispirate, si domanda perchè
l'Italia, che non è da nessuno minacciata, ha creduto di contrarre
alleanze che possono spingerla, suo malgrado, ad una guerra di cui
essa ripudia anche il pensiero, e per interessi che non sono i suoi?
Quel giornale si dichiara perciò preoccupato precisamente di ciò che
l'Eccellenza Vostra ha taciuto. Il _Temps_, riconoscendo che la
nostra professione di simpatia per la Francia non è stata
accompagnata da alcuna riserva, prende atto della dichiarazione che
mai da parte nostra vi sarà provocazione od offesa.
Dal complesso di questi commenti si può dedurre che il discorso di
Torino ha disorientato alcuni fra i più malevoli a nostro riguardo.
Taluni, in mancanza d'argomenti seri, attribuiscono le parole
amichevoli dell'Eccellenza Vostra al desiderio di conchiudere con la
Francia un trattato di commercio favorevole ai nostri interessi.
Altri, avrebbero preferito puramente e semplicemente che ella avesse
palesate le clausole dei nostri trattati di alleanza, e insinuano
nuovamente che ve ne hanno di offensive.»
L'Incaricato d'affari a Berlino, avendo comunicato alla Cancelleria
imperiale il testo del discorso, riferì quanto segue:
«Il conte di Bismarck mi fece esprimere oggi il desiderio di vedermi
e mi disse che, avendo inviato a Friedrichsruh la copia da me
mandatagli del telegramma di Vostra Eccellenza, il Principe
Cancelliere lo aveva incaricato di fare a Lei pervenire, per mezzo
mio, i suoi migliori ringraziamenti per la fattagli comunicazione ed
insieme i suoi rallegramenti sinceri per il «bel» discorso. Sua
Altezza desiderava inoltre che fosse inviata in suo nome
all'Eccellenza Vostra l'espressione di tutta la sua riconoscenza per
la parte che lo riguarda personalmente nel discorso medesimo. In
quanto poi alle varie idee in esso sviluppate a proposito della
politica estera, il principe di Bismarck fa dire a Vostra Eccellenza
che egli le divide interamente, ma che però troverebbe opportuno di
manifestare un suggerimento circa la frase in cui parlasi delle
«quattro distinte nazionalità» insediate nella penisola balcanica.
Egli teme che quella frase possa servire di facile pretesto alle
Potenze interessate nel contrariare l'azione nostra a
Costantinopoli, per risvegliare nell'animo del Sultano, tanto
proclive alla diffidenza, una recrudescenza di sospetti a nostro
riguardo. Come rimedio a questo pericolo, sarebbe suo avviso che
l'Eccellenza Vostra avesse a dare incarico all'Ambasciatore di S. M.
in quella residenza di far comprendere come Ella non intendesse far
allusione ad altro, colle parole pronunciate, se non se allo stato
di cose già esistente nella regione dei Balcani. Il Cancelliere
opina che Vostra Eccellenza potrebbe facilmente conseguire lo scopo,
sia collocandosi al punto di vista etnografico, vale a dire delle
quattro nazionalità, rumena, greca, slava ed ottomana, che si
trovano in quella penisola, sia seguendo la distinzione politica dei
quattro Stati attuali, Rumania, Serbia, Grecia e Bulgaria. Sembra a
lui che in un modo o nell'altro si possa ottenere di spuntare, con
questo mezzo, prima ancora che venga lanciata a pregiudizio degli
interessi comuni, la freccia che certamente si saprebbe fabbricare
con quella materia.»
Dei grandi giornali, il _Times_ così giudicò il discorso di Torino:
«Ho l'onore di trasmettere qui unita all'Eccellenza Vostra la
traduzione di un brano di un articolo del _Times_ d'oggi circa il
discorso pronunziato dall'E. V. in Torino. L'apprezzamento è degno
di nota e pari alla riputazione del giornale. Il _Times_ riepiloga
maestrevolmente ciò che si pubblica da tutti gli altri giornali del
Regno Unito, conservatori e liberali, sull'importanza di quel
discorso per l'Europa. Gli articoli degli altri giornali sono così
numerosi che sarebbe quasi impossibile poterne dare contezza.
Gradisca, sig. Ministro, l'espressione della mia più profonda
osservanza.
T. CATALANI.»
_Articolo di fondo del “Times„ del 3 novembre 1887._
“Pochi statisti hanno avuto la sorte di raccogliere l'approvazione
universale ch'è stata ottenuta dal discorso pronunziato dal signor
Crispi in Torino, or è poco più di una settimana. Quel discorso fu
salutato a Berlino come prova conclusiva dell'esistenza di un'alleanza
fra l'Italia e le Potenze Germaniche, mentre esso non fu accolto con
minor soddisfazione a Parigi per cagione della simpatia verso il popolo
francese manifestata dal Ministro italiano. Il discorso non fu meno
gradito ai connazionali del signor Crispi, il quale ha avuto l'onore di
ricevere le congratulazioni del re Umberto. Risulta che il principe di
Bismarck ha dichiarato di essere in grado di sottoscrivere ogni
dichiarazione fatta dal signor Crispi circa gli affari esteri, sanzione
tanto più notevole in quanto che noi sappiamo che, sopra taluni punti,
il discorso di Torino andò considerabilmente più avanti di ciò che la
Germania ha mai detto in termini espressi. Nel trattare la questione
Bulgara, per esempio, il signor Crispi sposò la causa delle autonomie
locali nei Balcani con un calore che in apparenza fa contrasto colle
ripetute dichiarazioni d'indifferenza della Germania. Ma benchè il
principe di Bismarck abbia dimostrato ai Bulgari un aspetto piuttosto
severo, ed all'occasione li abbia ripresi con un tono alquanto aspro, la
politica della Germania è stata, in tutto questo tempo, essenzialmente
favorevole alle libertà bulgare, perchè sempre scrupolosamente memore
dei trattati, che mettendo la Bulgaria sotto la tutela dell'Europa,
l'allontanano dal sindacato esclusivo di una sola Potenza. Il signor
Crispi, mentre parlò con calda simpatia della lotta dei Bulgari per la
libertà e rammentò i sentimenti con cui gli Italiani guardano coloro che
stesero una mano amica al Piemonte, non ebbe minor cura del principe di
Bismarck a far notare che i trattati debbono essere strettamente e
scrupolosamente osservati. In tal guisa l'adesione del principe di
Bismarck alle dichiarazioni del signor Crispi, fornisce gradita prova
dell'esistenza di un accordo ben chiaro fra l'Italia e le Potenze
Germaniche sopra una base che tutti possono apprezzare e che esclude gli
elementi di capriccio e di disegni segreti. Il principe di Bismarck ed
il signor Crispi s'incontrano sul programma dell'inviolabilità degli
accordi formalmente sanzionati dall'Europa, mentre l'Inghilterra, i cui
interessi sono tutti legati alla pace ed allo svolgimento ordinato delle
cose, mette la sua preponderanza dal lato di questa combinazione
eminentemente conservatrice.„
Ed ecco i giudizii di due dei più autorevoli giornali germanici:
_Articolo del giornale “Die Post„ N. 297. 30 ottobre 1887._
IL DISCORSO DI TORINO.
“Il 25 ha avuto luogo a Torino il banchetto che i cittadini di quella
città tutt'ora così importante, la quale gettò le fondamenta della nuova
Italia, già da tempo avevano preparato pel Ministro Presidente Crispi,
un italiano del Mezzogiorno. La festa era stata originariamente ideata
come dimostrazione della piena fusione del Settentrione col Mezzogiorno
d'Italia, e della rinuncia che la culla della nuova Italia aveva fatto
ai suoi antichi diritti, con lieto animo per amore della fausta unità.
In quel mentre accadde che poche settimane prima della festa, l'uomo che
si voleva festeggiare ricevette l'invito di recarsi a Friedrichsruh, ed
il risultato di quella visita, felicemente conseguito, fu accolto subito
in tutt'Italia con gioia, come conferma ed indizio della cresciuta
importanza dello Stato, quale non si sarebbe potuta desiderare più
manifesta. Così la festa assunse un nuovo carattere. Si era ottenuto il
frutto di un lungo lavoro giacchè l'Italia compariva davanti all'Europa
come una indiscutibile grande Potenza; frutto che racchiudeva inoltre in
sè l'aspettativa di un avvenire ancor più bello. E così invece di un
allegro banchetto si ebbe un atto solenne. Tutti i Ministri erano
presenti, eccettuato quello della Guerra, il quale doveva dar mano agli
ultimi preparativi per la spedizione abissina. Il numero dei Deputati,
Senatori ed alti impiegati convenuti, ammontava a circa 600. Dopo che il
Presidente dell'adunanza ebbe salutato il festeggiato, non ci fu durante
la serata alcun altro discorso da quello di Crispi all'infuori. Di
questo discorso non possediamo ancora il testo integrale, ma gli
estratti telegrafici contengono certamente i passi essenziali. Il
discorso si diffuse egualmente sopra la politica interna ed estera.
Il passo eccezionalmente importante circa il principe di Bismarck ed il
convegno di Friedrichsruh viene da alcuni giorni commentato in tutta
Europa; eppure, caso singolare, esso non rivela nulla affatto dei
risultati del convegno, da quello in fuori che tutti già sapevano, o
s'immaginavano. Un uomo d'ingegno può tacere tutto e nondimeno soddisfar
tutti. Crispi si è mostrato maestro in quest'arte. Certamente fu
convenuto in Friedrichsruh che toccava al signor Crispi di dire
pubblicamente la prima parola sopra il convegno. E colà furono anche
tracciati i confini del tacere e del parlare. Il Cancelliere tedesco è
indifferente all'enunciare cose grandi colla propria bocca, e questa
volta doveva tanto più volentieri cedere il passo all'uomo di Stato
amico, perchè la politica vien fatta in Italia in altro modo che da noi.
In Italia bisogna toccar la corda dell'anima. Che cosa ha dunque detto
l'oratore? Affermò che si pretendeva essersi cospirato a Friedrichsruh.
Il rimprovero non tangere lui, vecchio cospiratore; però, non essersi
cospirato colà che per la pace, ed ognuno poter partecipare alla
congiura. Ciò è detto ingegnosamente, ed è efficace; ma i curiosi non ne
saranno contenti, giacchè questi vorrebbero sapere quali provvedimenti
in quel convegno si siano presi per assicurare la pace e da qual parte
siano da temerne le perturbazioni. Senza tal timore non sarebbe
necessario di cospirare. Qualche volta si parla di un silenzio
eloquente: qui ci fu una eloquenza silenziosa, e noi che giudichiamo la
situazione politica dal punto di vista tedesco, ne siamo contenti, e
stimiamo l'uomo di Stato che s'è mostrato così perito in quest'arte.
Ma entriamo nell'esame dei passi del discorso che contengono qualcosa di
più d'un'ingegnosa parafrasi del silenzio. Questi sono ben importanti.
L'oratore osservò: l'Italia non aver mai stretto un'alleanza così piena
e cordiale; la dignità sua non esser mai stata così rispettata, nè mai
così garantiti i suoi diritti e bisogni, sono parole dietro le quali si
può cercar tutto, ma però bisogna collegarle con le altre: essersi
cospirato solo per la pace. Il modo di conciliare queste e quelle fu
indicato dalla _Norddeutsche Allgemeine Zeitung_ nel suo numero del 6
ottobre, nel quale notò che la visita del signor Crispi aveva provato
l'accordo pieno dei due uomini di Stato nella loro risolutezza
d'impedire, in unione all'Austria-Ungheria, una guerra europea, per
quanto è possibile e, in caso di necessità, in unione, di difendersi.
Stando a ciò, i due uomini di Stato si saranno accordati circa il modo
di respingere l'attacco, e in ciò starebbe l'importanza capitale ed
anche il segreto del convegno.
Ora, poichè noi crediamo fuor di luogo ogni tentativo di penetrare il
segreto, dobbiamo aggiungere un'altra osservazione. Il Ministro
Presidente annunciò davanti ad una adunanza numerosa di uomini politici
del suo paese che l'Italia non strinse mai un'alleanza così piena e
cordiale. Un atto tanto importante per le sorti d'Italia fu compiuto dal
Re e dal Ministro, da soli. Nessuno ha protestato, e tuttavia l'Italia è
tenuta in conto di uno dei paesi più liberi. E noi crediamo ch'essa
giustamente venga tenuta in tal conto, e che però meriti tal libertà
molto più di altri paesi. Nessun Ministro avrebbe potuto stringere una
tale alleanza in un altro paese retto a sistema parlamentare: nessuno nè
in Inghilterra, nè in Francia. In Francia, forse nel solo caso in cui
tutti i partiti fossero convinti che nel segreto stesse nascosta la
_rivincita_. — In Inghilterra fu un tempo in cui i Ministri potevano
talvolta compier qualcosa di somigliante. Siccome nella politica estera
i partiti di governo erano concordi nel fondo, ciascun partito poteva
ritenersi sicuro che i successori eseguirebbero gli impegni assunti dal
governo precedente. Eppure di rado s'usò anche allora di quella facoltà.
Del resto, era necessario di usarne, poichè al tempo delle grandi guerre
un uomo solo fu alla testa degli affari in Inghilterra e vi restò fino
alla morte, Guglielmo Pitt, e non ebbe necessità di segreti di fronte al
Parlamento, a causa della chiarezza della situazione e dello stato
esistente di aperta guerra. Oggi ciò riescirebbe impossibile in
Inghilterra. Ma il dominio mondiale di essa va tramontando. Un popolo,
però, il quale è in grado di riporre piena fiducia nella volontà di un
sol uomo quando ciò è necessario, e di dargli un mandato illimitato
rinunciando ad ogni tentativo di sollevargli delle difficoltà, dimostra
di essere degno della libertà, appunto perchè sa a tempo opportuno
deporre le armi, di cui è fornito a difesa di essa.„
_Articolo della “Kölnische Zeitung„ N. 300
(Morgen Ausgabe) 29 ottobre 1887._
“Quantunque noi non possediamo ancora il testo del discorso di Torino
tenuto da Crispi, oggetto di tanti commenti, pure l'estratto telegrafico
autentico conferma, in ogni punto, quanto da buona sorgente già era
trapelato intorno all'Alleanza stipulata nella primavera scorsa e
intorno al consolidamento della stessa in faccia all'estero mediante il
convegno di Friedrichsruh. Crispi ha negato anzitutto espressamente il
carattere offensivo della alleanza. Egli ha fatto risaltare che ogni
Governo potrebbe far suoi gli scopi pacifici dell'unione. Egli ha
inoltre accennato ben chiaramente che l'accordo esiste da tempo e che la
visita sua lo ha soltanto messo in luce. A tal proposito vogliamo
ricordare che la _Norddeutsche Allgemeine Zeitung_ ristampa oggi senza
commenti un articolo d'un giornale italiano nel quale si dice che in
Friedrichsruh non fu stretto nessun nuovo trattato. Anche a proposito
dei rapporti coll'Inghilterra vanno in giro tutto dì delle opinioni
erronee. Come fu già osservato, non esistono patti formali
coll'Inghilterra, nè sul Continente nè sui mari. Ciò che Crispi disse
circa l'intesa coll'Inghilterra concorda quasi letteralmente con quanto
fu detto più d'una volta in questo stesso giornale, come a mo' d'esempio
il 1.º ed il 15 marzo, subito dopo la conclusione dell'alleanza. Già
venne annunziato e confermato che delle stipulazioni conchiuse fra i
tre, una riguarda l'Austria, ed ha per iscopo l'equilibrio del
Mediterraneo, col consenso e d'accordo coll'Inghilterra e che questa
appunto era la base più larga che l'Italia aveva posto per condizione
del rinnovamento dell'Alleanza.
Quantunque pertanto, per quel che si sa da fonte degna di fede, un patto
formale coll'Inghilterra, per le ragioni già note, non abbia avuto
luogo, l'intesa suaccennata servirà tuttavia di norma anche per gli
eventuali eredi dell'attuale Ministero inglese, pel solo fatto della
comunanza degli interessi, e contribuirà come gli altri patti al
mantenimento della pace.„
CAPITOLO SETTIMO.
La rottura delle relazioni commerciali con la Francia.
Negoziati per la rinnovazione del trattato di commercio
italo-francese. Una missione officiosa dell'on. Boselli a
Parigi: sue lettere a Crispi. Ragioni politiche ed
economiche che condussero alla guerra di tariffe. — Dal
_Diario_ di Crispi, ottobre-dicembre 1887: questioni
internazionali — colloquio tra lo Czar e il principe di
Bismarck — documenti falsi — l'incidente consolare di
Firenze.
Il trattato di commercio italo-francese del 3 novembre 1881 fu
denunziato dal governo italiano il 15 dicembre 1886 per voto del
Parlamento e dopo maturo esame, contemporaneamente al trattato
italo-austriaco. All'atto della denuncia il ministro degli Affari
esteri, conte Robilant, dichiarò esser sua intenzione di aprire
negoziati per un nuovo trattato più rispondente ai bisogni nuovi o
meglio accertati dell'Italia; ma la stampa francese considerò la
denunzia come una rappresaglia pel rigetto, fatto pochi mesi prima dalla
Camera dei deputati di Francia, della Convenzione di navigazione tra i
due paesi già approvata dal Parlamento italiano.
L'opinione pubblica in Francia, mal disposta verso di noi sin dal 1882
per la nostra adesione all'alleanza austro-germanica, non faceva
presagire nulla di buono circa il risultato dei negoziati per il nuovo
trattato di commercio. Questi non erano ancora stati intavolati, quando,
l'8 agosto 1887, l'on. Crispi assunse la direzione degli Affari esteri.
Dopo pochi giorni, il 12 agosto, egli scriveva all'ambasciata d'Italia a
Parigi esser
«nostra speranza che si giunga alla stipulazione di un trattato di
commercio. Non sapremmo intanto dissimulare che un nuovo insuccesso
nella Camera francese farebbe in Italia la più spiacevole
impressione, al momento stesso in cui desideriamo vivamente di
vedere raffermarsi l'amicizia tra i due popoli. Noi siamo risoluti a
fare i primi passi, bene inteso però nel caso in cui il ministero
francese si dichiari previamente pronto a corrispondere alla nostra
iniziativa e vi sia possibilità di accordo.»
Il 21 agosto l'on. Crispi, non avendo ricevuto assicurazioni sufficienti
dal presidente del Consiglio dei ministri di Francia, signor Rouvier,
soggiungeva:
«.... Ma poichè sembra che il signor Rouvier non si creda in grado
di poterci dare quanto all'atteggiamento del Parlamento francese
riguardo al futuro trattato, quella malleveria ch'io non esito, dal
canto mio, a dargli per il nostro Parlamento, preferirei di non
esporre i due paesi agli attriti che sarebbero evidentemente la
conseguenza di un terzo rigetto da parte delle Camere francesi.»
Non di meno, poichè il Rouvier suggeriva che le nostre domande gli
fossero notificate in via preliminare ed ufficiosa, sia per mezzo di
persone di fiducia del governo italiano, che per mezzo dell'Ambasciata,
l'on. Crispi affidò la missione di esplorare le vere intenzioni dello
stesso Rouvier all'on. deputato Paolo Boselli, che aveva, come
negoziatore della Convenzione di navigazione, conosciuto il ministro
francese e stretto buone relazioni personali con lui.
Dalle lettere scritte dall'on. Boselli a Crispi il 5, il 7 e il 10
settembre, stralciamo i brani più interessanti.
“In sostanza il signor Rouvier non può far previsioni positive e sicure
circa l'esito che un nuovo trattato avrà nel Parlamento Francese, se
prima non conosce, almeno per sommi capi, le domande, le concessioni, le
intenzioni del Governo italiano, il quale avendo esso denunziato il
trattato, pare a lui debba esporre pel primo i desiderii, almeno
fondamentali, dei nuovi patti commerciali e marittimi. Già fin da ora
però egli può affermare che non sarebbe approvato dal Parlamento
Francese un trattato la cui durata oltrepassasse l'anno 1892, epoca in
cui scadono i trattati che la Francia ha con altri paesi. Nè spera, come
pure vorrebbe poter fare, che sia possibile ottenere l'approvazione di
un trattato più liberale di quello da noi denunziato. Privo di qualsiasi
altra notizia in proposito del Governo italiano, vide solamente due
articoli, che a lui furono segnalati come scritti per ispirazione dei
nostri on. negoziatori Ellena e Luzzatti, uno dei quali trattava del
dazio sul bestiame e nell'altro era espresso il desiderio di ridurre il
nuovo trattato a poche voci. A lui non sembra nè agevole, nè probabile
il soddisfare questo desiderio; per contro invece egli sarebbe disposto,
fermo l'attuale dazio, a vincolare la voce relativa al bestiame, ma
trovò opposizione nel Ministero dell'Agricoltura e prevede che la
troverebbe anche maggiore nel Parlamento.
Il Sig. Rouvier, reputando impossibile conchiudere un nuovo trattato di
commercio e farlo approvare dai due Parlamenti (il Parlamento francese
dovrà prorogarsi al 15 dicembre per le elezioni senatoriali) in tempo
perchè possa andare in vigore il 1.º gennaio 1888, e parendogli che si
debba evitare sia per ragioni economiche, sia per ragioni politiche,
l'applicazione delle rispettive tariffe generali fra i due paesi, crede
opportuna una proroga del trattato attuale per un anno, o almeno per sei
mesi, cominciando intanto i negoziati.
Il Sig. Rouvier comprende come debba evitarsi assolutamente un terzo
rigetto da parte del Parlamento francese, ma soggiunge che, conosciute,
anche ufficiosamente, le domande del Governo italiano, potrà fare al
riguardo fondati presagi dimostrando, coi calcoli numerici già a Lei
noti, come, se le domande stesse saranno tali da non urtare con certe
idee che sono invincibili nel Parlamento francese, si potrà conseguire
un voto d'approvazione. Come Ella vede, i propositi e le intenzioni del
Rouvier sono eccellenti, ma per poter sapere qualche cosa di concreto è
mestieri che si esca dalle dichiarazioni generiche e che gli si facciano
conoscere, in modo ufficioso e preliminare, e sia pure sommario, ma
determinato, le nostre domande, cosa che può essere fatta opportunamente
per mezzo dell'Ambasciata, ma che penso non possa esser fatta se non
sentiti i nostri negoziatori.
Il Sig. Rouvier si rende perfettamente ragione del pessimo effetto che,
anche politicamente, il rigetto della convenzione marittima deve aver
fatto al nostro paese e attribuisce il rigetto stesso all'opposizione
dei _courtiers_ marittimi e alla fiducia che il Presidente del Consiglio
di allora aveva nell'approvazione della convenzione stessa, cui però non
diede tutta la dovuta importanza.
La guerra che oggi si muove in Francia ai nostri operai fu oggetto di
vive e ripetute osservazioni da parte mia. Il Sig. Rouvier cercò di
attenuarne la gravità, non ristandosi però dal deplorare esplicitamente
quanto oggi accade....
Egli ignora che il Governo francese abbia banditi gli operai italiani
dalle costruzioni di opere pubbliche e da altri servizi dipendenti da
pubbliche amministrazioni e si riservò di prender notizie e darmi
spiegazioni in proposito. Si mostrò però deciso sinceramente a fare
quanto più gli è possibile per arrestare questa corrente di idee
contrarie agli operai italiani che io gli dissi esser cagione di vivo e
ragionevole risentimento nel nostro paese. L'eccitai a darci qualche
solenne soddisfazione, manifestando in modo pubblico, p. es. con
circolare ai Prefetti, il pensiero del Governo. Ma egli mi rispose che
nei luoghi dove gli animi sono eccitati, l'intervento palese del Governo
potrebbe rendere maggiore l'agitazione e che si potrà invece procedere
più utilmente dando ai Prefetti istruzioni riservate. (Non prese però
ancora positivo impegno).
Da alcuni giorni varii giornali autorevoli trattano la questione in un
senso giusto e liberale; però io esortai il Sig. Rouvier a far sì che i
giornali governativi più diffusi e popolari anche in provincia si
adoperino a far argine alle idee ed alle passioni che accennano, checchè
egli ne dica, a prendere larga estensione. Del resto il signor Rouvier
ammette che il trattato nostro ancora in vigore e il trattato tra la
Francia e la Spagna ci danno il diritto di reclamare contro ogni offesa
alla libertà del lavoro dei nostri operai in Francia e dichiara che è
deciso a far rispettare il nostro diritto. Questo argomento, tanto
interessante, sarà ancora uno dei principali oggetti delle nostre
successive conversazioni. Politicamente le franche parole d'una _voce
amica_, trovarono eco nell'animo del Sig. Rouvier, ma mi rispose
osservandomi come si debba constatare con reciproco rincrescimento che i
fatti non si sono svolti sempre conformemente ai nostri comuni voti.
Riservandomi di meglio riferire a voce la conversazione già avuta e
quelle che avrò ancora al riguardo col Sig. Rouvier, mi limito qui a
riassumere alcuni dei discorsi fatti oggi con lui.
Riconosce la verità dei concetti che gli ho esposti, seguendo le
ispirazioni della S. V., ma afferma che l'accordo tra la Francia e la
Russia, circa le questioni dell'Egitto, fecero credere che le relazioni
fra i due paesi siano più intime di quanto effettivamente esse sono,
poichè non havvi fra loro nulla di scritto, mentre qualche cosa di
scritto esiste fra l'Italia e la Germania. Egli sa che i nostri impegni
con la Germania riguardano il caso di una guerra _difensiva_ per la
Germania, guerra, egli soggiunse, che non avrà luogo, perchè la _Francia
non farà la guerra alla Germania_ (parole che vanno naturalmente intese
come si devono intendere simili parole). Il partito, così detto, della
_revanche_ e della guerra alla Germania è, secondo il Rouvier, una
ristretta minoranza in Francia, e quanto all'Italia, egli dice che
nessuno, o ben pochi in Francia desiderano o promuoverebbero una guerra
col nostro paese. Egli non crede che il generale Boulanger possa
esercitare influenza sui destini del suo paese; fu un fuoco d'artifizio
che va estinguendosi; fu opera ardua e di molta energia l'averlo
allontanato ora dal governo; il Presidente Grévy non consentirebbe al
suo ritorno e non avendo egli qualità solide, nè mezzi proprii e
permanenti d'influenza, non è a prevedersi possa ritornarvi.
Il Rouvier desidera schiettamente che fra l'Italia e la Francia si entri
in un nuovo periodo di miglior _entente_, e da parte sua si adopererà
all'uopo, con tutto l'animo e con larghi propositi.„
“Le lunghe e quotidiane conversazioni che io ho, in modo del tutto
amichevole, col Sig. Rouvier valgono a darmi un concetto adeguato della
situazione. Lo vidi oggi, dopo che egli aveva inteso dal cav. Ressman le
comunicazioni concernenti i negoziati per i trattati di commercio. Egli
ammette volentieri, riservandosi però di parlarne co' suoi colleghi, che
precedano ai negoziati ufficiali negoziati preliminari ufficiosi e
segreti; non crede però possibile che questi seguano in luogo intermedio
fra i due paesi, anche perchè troverebbe difficoltà nello scegliere da
parte sua persona cui affidarli e crede preferibile, per il buon
successo della cosa, occuparsene egli stesso; e quanto alla sede dei
negoziati ufficiali, contrappone alla nostra domanda le opposizioni che
fa ad essa il suo ministro degli Affari esteri. Di tutto, però,
conferirà co' suoi colleghi e si adopererà affinchè ogni cosa riesca con
reciproca soddisfazione.
Quanto all'avviare questi primi negoziati segreti pel tramite
dell'Ambasciata, la cosa potrebbe riuscire opportuna, ove il Governo
italiano non persista nel volere che si svolgano in altro luogo; ma
quanto alla parte che mi riguarderebbe io gli risposi immediatamente
come non mi sarebbe possibile assumerla, sia per i miei propositi già a
lui noti, sia per riguardo ai nostri negoziatori, egregi colleghi ed
amici miei. Ed anzi a prevenire che la mia prolungata permanenza in
Parigi possa dare occasione a qualsiasi malinteso al riguardo e che essa
finisca per far credere che in qualche modo si iniziino a Parigi quei
negoziati preliminari che il Governo italiano desidera abbiano luogo
altrove, io stimo conveniente di lasciare fra quattro o cinque giorni
questa città.
Il Sig. Rouvier mi chiese se è intenzione del Governo italiano che il
trattato di navigazione vada congiunto al trattato di commercio, dal
quale egli per avventura inclinerebbe a tenerlo separato.
Rispetto ai nostri operai, il Sig. Rouvier mi ha ripetuto che è assoluto
proposito suo di far rispettare i diritti che sono ad essi garentiti dai
patti internazionali vigenti e che a lui non consta che, da parte di
amministrazioni governative, siasi ordinata l'esclusione di operai
italiani dall'esecuzione di pubblici lavori. Quanto alle amministrazioni
comunali e dipartimentali non avere egli alcun mezzo legale contro le
deliberazioni che per avventura abbiano emesso nel senso di obbligare
gli intraprenditori a valersi unicamente di operai nazionali.
Insistendo io circa talune disposizioni che si affermano inserite nei
_quaderni d'oneri_ formulati da amministrazioni governative per talune
imprese, egli si riservò ancora di riesaminare la cosa e darmi ulteriore
risposta. Ove si riesca a trovare il modo di darci qualche esplicita
soddisfazione o guarentigia, il Governo italiano potrà reclamare in
forma ufficiale, provocando quelle dichiarazioni che verranno
preventivamente concordate. Ma intorno a ciò, nè il Sig. Rouvier ancora
mi diede, nè io sono ancora in grado di scriverle alcuna positiva
assicurazione. Il signor Rouvier però non tralascia di ripetermi che
egli ritiene l'attuale movimento avverso gli operai stranieri essere un
vero traviamento di idee contrario ai grandi principii della rivoluzione
francese.
Passando ad altro argomento le dico che il Sig. Rouvier molto
ragionevolmente si rende ragione delle difficoltà trovate pel concorso
dell'Italia all'Esposizione del 1889, dopo che se ne fecero promotori
taluni radicali italiani e che egli vagheggerebbe un'alleanza delle
nazioni latine da sostituirsi ad altre combinazioni internazionali oggi
inevitabili.
Poichè bisogna essere con _qualcuno_ ammette che alla Francia è mestieri
essere in buon accordo colla Russia, ma non gli pare che nella questione
bulgara sia realmente in causa il principio delle nazionalità, e quanto
alla questione d'Egitto gli pare che uguale sia l'interesse della
Francia e quello dell'Italia: che succeda cioè alla occupazione inglese
il potere di un Vicerè indipendente che governi di concerto coi Consoli
delle grandi Potenze, e che si dia a quel paese un carattere come a dire
di neutralità. (Tali le idee del Rouvier, ma il vero concetto della
politica francese, Ella lo conosce meglio di me, è quello di stabilire,
esclusa l'Inghilterra, la preponderanza francese in Egitto: ma io
_riferisco_ e per ora non commento.)„
“Ella riceverà, per mezzo dell'Ambasciata, le risposte del Sig. Rouvier
alle tre comunicazioni.
Posso intanto dirle quali saranno.
Il Sig. Rouvier consultati i suoi colleghi, risponde:
Nulla in contrario a che precedano negoziati ufficiosi e segreti, ma
questi abbiano luogo a Parigi. Non ha persona da inviare all'uopo
altrove; inviando a ciò una persona apposita e nota cesserebbero di
esser segreti; desidera farli egli stesso personalmente nell'utilità
stessa della cosa.
Circa alla sede dei negoziati definitivi, non ha potuto persuadere il
ministro degli Affari esteri e non può prendere alcun impegno che si
facciano a Roma. Si vedrà in seguito. O i negoziati preliminari a nulla
conducono, ed è una questione inutile. O nei negoziati preliminari si va
d'accordo sopra i punti sostanziali e così che non rimangano a definirsi
che dei particolari e non vi sarà nessuna difficoltà a che l'ambasciata
francese a Roma, insieme p. e. coi due Direttori Generali delle Dogane e
del Commercio estero inviati appositamente nella nostra capitale, sia
incaricata dei negoziati ufficiali e li porti a termine. O sarà mestieri
anche nei negoziati ufficiali dibattere punti importanti ed allora
tornano in campo le prime obbiezioni: il Rouvier non saprebbe chi
mandare all'uopo in Italia, e dovrebbero anche tali negoziati aver luogo
in Parigi.
Intanto egli crede che nei negoziati ufficiosi preliminari apparirà la
necessità di una proroga.
Io gli osservai che tali risposte saranno di troppo poca soddisfazione
in Italia; che ammessa pure l'opportunità che i negoziati ufficiosi
siano fatti direttamente con lui, dovrebbesi ad un tempo e subito
stabilire che i negoziati ufficiali abbiano luogo a Roma, ed ho
soggiunto, sorridendo, che se io fossi incaricato di trattare con lui
sopra questo punto non cederei quanto alla sede dei negoziati ufficiosi,
condotti nel modo da lui divisato, se non a condizione di fissare
contemporaneamente la sede a Roma dei negoziati definitivi.
Ma egli ha persistito nelle sue dichiarazioni, che allo stato delle cose
non gli è possibile prendere impegno; e che la questione della sede
dipenderà da quella della sostanza, cioè da ciò che resterà a fare nei
negoziati ufficiali — perchè s'egli fa obbiezioni e per gli uni e per
gli altri a Roma, non è per alcuna ragione politica o di Stato, ma
unicamente perchè non sa chi mandare a Roma, attese le difficoltà della
cosa e la condizione degli animi in Francia: un protezionista
rovinerebbe tutto, un libero-cambista _pregiudicherebbe_ il risultato di
fronte alla corrente contraria — perciò è mestieri ch'egli personalmente
intervenga e del resto egli solo può fare i presagi desiderati.
Il Sig. Rouvier mi diceva tutto ciò ieri. Oggi egli lascia Parigi per
una breve gita in campagna ed oggi io prenderò da lui commiato, e
partirò doman l'altro, 12, da Parigi tornando per la via della Svizzera
a Cumiana, donde verrò sollecitamente a Roma.
L'impressione ch'io reco dal mio soggiorno in Parigi è conforme alle
dichiarazioni del Rouvier:
La Francia, nella sua grandissima maggioranza, non vuole la guerra, non
ha la febbre della _revanche_, e non è a prevedere ch'essa sia per
attaccare la Germania: al contrario essa resisterà, finchè le sarà
possibile, a tutti gli eccitamenti ad attaccarla;
rispetto all'Italia, ben pochi vagheggiano di farci guerra; i più temono
che noi siamo per cader addosso alla Francia insieme colla Germania e ci
ammoniscono intorno ai pericoli che a noi pure deriverebbero dalla
_distruzione_ della Francia;
il prestigio del regno d'Italia e del suo governo è qui grande;
la stessa _questione cattolica_ è qui molto _attenuata_ e non vi sarebbe
che un piccolo numero di persone desideroso d'ingerirsi in difesa del
potere temporale;
il Rouvier, che è certo che la politica italiana sotto la di lei mano
energica e mossa dal di lei pensiero prenderà una parte più viva nelle
questioni internazionali, fu lietissimo di apprendere dalle mie
amichevoli assicurazioni quali sono i di lei sentimenti, nei quali
confida pei _migliori rapporti_ dei due paesi;
fra le altre cose il Rouvier mi assicurò che rispetto all'Italia tutti i
_piani di battaglia_ preparati in Francia sono tutti sulla base di una
guerra difensiva;
la questione operaia, egli afferma essere questione di _concorrenza nel
salario_, non di _antipatia nazionale anti-italiana_.
Ma di tutto ciò meglio a voce. Solo le dirò ancora che in complesso le
mie conversazioni col Rouvier furono _opportune_; e che avranno seguito
in _ulteriori corrispondenze_ delle quali egli stesso mi dimostrò il
desiderio.„
Convenuto per l'insistenza di Crispi che le preliminari ed officiose
trattative avessero luogo a Parigi e le ufficiali a Roma, i delegati
italiani, on. Luzzatti, Ellena e Branca, giunsero nella capitale
francese il 28 settembre. Però sin dal primo momento il Governo francese
pretese che base dei negoziati fosse non la nostra tariffa generale,
come era ovvio, ma il trattato denunciato. Il 6 di ottobre i delegati
italiani, prima di ripartire per Roma, telegrafavano all'on. Crispi che
i delegati tecnici francesi non erano preparati sui punti più importanti
del negoziato, che le disposizioni del Governo francese erano meno buone
che nei primi giorni. Il 2 novembre l'ambasciatore Menabrea scriveva:
“Mi sono intrattenuto ieri sera col signor Rouvier a proposito del
nostro trattato di commercio. Egli non si dissimula le difficoltà che
esso sarà per incontrare nel Parlamento„.
Ai primi di dicembre l'ambasciatore de Moüy chiese all'on. Crispi una
proroga del trattato che spirava alla fine di quel mese: l'on. Crispi
rispose che non avrebbe potuto consentire a questa domanda se non vi
fosse stata fondata speranza di giungere ad un accordo, e se i delegati
francesi non venissero a Roma. Alla fine del mese i negoziatori
Teisserenc de Bort e Marie arrivarono, e la scadenza del trattato fu
prorogata di due mesi; ma le disposizioni ostili della Camera francese
erano rese evidenti dalla legge votata, su proposta della Commissione
delle dogane, il 15 dicembre, secondo la quale il Governo era
autorizzato ad applicare ai prodotti italiani la tariffa generale, con
un aumento che poteva elevarsi al cento per cento.
Le conferenze tra i negoziatori italiani e francesi furono subito
interrotte dopo la prima, e il 5 gennaio, annunziando questa
interruzione che gli era di cattivo augurio, l'on. Crispi telegrafava
all'ambasciatore a Parigi:
«Rimpiango tanto più vivamente questo indugio che eravamo e siamo
tuttora animati dalle migliori intenzioni di condurre presto a
termine il negoziato in uno spirito di conciliazione. Non voglio poi
neppure supporre che la Francia abbia voluto ottenere una proroga
dell'antico trattato, e nient'altro.»
Riprese dopo qualche giorno, le sedute furono nuovamente interrotte
sulla domanda dei delegati francesi, i quali lasciarono Roma,
promettendo di ritornare presto. Il 24 gennaio l'ambasciatore Menabrea
telegrafava:
“In una lettera direttami dal signor Flourens su altro argomento, rilevo
questa frase: “Mi sono reso esatto conto dello stato degli animi in
entrambe le nostre Camere. Se l'Italia non crede poterci fare nuove
concessioni, considero lo scacco dei nostri negoziati commerciali come
certo„.„
Tutti i tentativi fatti dall'on. Crispi per indurre il Governo francese
a condurre le trattative con propositi concilianti, fallirono. Il 6
febbraio il senatore Teisserenc de Bort, commissario francese,
congedandosi dall'on. Ellena gli disse: “Finchè sarete nella Triplice
non sarà possibile un accordo commerciale tra l'Italia e la Francia„. E
il ministro Flourens oppose che il massimo che avrebbe potuto ottenere
dallo spirito di protezione che regnava nelle Camere francesi, era la
rinnovazione del trattato del 1881. Questo l'on. Crispi non poteva
concedere, senza andar contro alla volontà del Parlamento, che quel
trattato aveva voluto denunciato. E del resto, il Flourens forse
s'ingannava e ci avrebbe esposto ad un nuovo rigetto del Parlamento
francese. L'eminente economista Léon Say, scrivendo ad un amico italiano
in una lettera privata del 21 gennaio 1888, ammetteva che la Camera
francese avrebbe appena potuto accettare una proroga: “La Chambre
française avait pris le parti de dénoncer l'ancien traité avec l'Italie
avant votre denonciation à vous. Elle a indiqué formellement son opinion
dans la discussion et a sursis à voter sur la demande du ministre des
affaires étrangères. Le lendemain votre denonciation était connue.
La Chambre française est donc autorisée à considerer qu'elle a emis
préalablement à tout le reste, l'avis qu'elle ne voulait plus du dernier
traité, parcequ'elle le trouvait défavorable.
C'eût été se casser la tête contre un mur, que de lui demander
d'accepter autre chose qu'une prorogation pure et simple„.
Quel che avvenne dipoi, l'applicazione delle tariffe generali e
differenziali e perciò la guerra economica, fu posto a carico dell'on.
Crispi. Si affermò che il di lui viaggio in Germania avesse determinato
in Francia le correnti ostili che si concretarono nella rottura delle
relazioni commerciali. Quanto quei giudizii fossero arbitrarli, si
desume dalla narrazione documentata che precede. I negoziati e le
domande di concessioni furono posteriori al viaggio, e nonostante questo
la Francia avrebbe fatto il trattato se avesse potuto ottenere i
vantaggi che pretendeva.
La politica certamente rese più facile la vittoria dei protezionisti. Ma
quei deputati francesi che si dichiararono contrarii ad un accordo
commerciale con l'alleata della Germania, erano avversi all'Italia non
per il viaggio a Friedrichsruh, che non mutò e non poteva mutare la
situazione, ma per l'alleanza stessa, e questa non era opera dell'on.
Crispi.
Fu merito, invece, dell'on. Crispi l'avere reso più intima quella
alleanza e più utile all'Italia, così che, quando la Francia ci chiuse
le sue frontiere, noi trovammo nella coscienza di non esser isolati i
conforti necessarii e la forza per superare la crisi, la quale non fu
priva di vantaggi se temprò alla lotta il commercio italiano e gli fece
trovare nuovi mercati.
DAL “DIARIO„ DI FRANCESCO CRISPI.
_6 ottobre 1887._ — Questione balcanica; in seguito alla Nota del
segretario di Stato da Berlino, Kálnoky, ch'era favorevole alla
istituzione degli Stati balcanici autonomi, consente a stabilire le
basi di un accordo con l'Italia.
— Bulgaria: la Russia insiste sulla missione di Ehrenroth, cui
vorrebbe dare la durata di sei mesi, ed esige che sia la Turchia a
proporla. È però contraria a misure coercitive.
_16 ottobre._ — I francesi si agitano e vorrebbero suscitare
disordini nel Marocco. Il ministro degli Affari esteri di Spagna,
Moret, vorrebbe una Conferenza europea pel Marocco.
— Notizie da Londra: Francia e Inghilterra trattano per una
Convenzione internazionale circa la libertà del canale di Suez.
_22 ottobre._ — Il ministro di Spagna viene a parlarmi delle idee
del suo governo e dei propositi di esso per le cose del Marocco. È
una conferma di quello che ci fu telegrafato dal nostro ministro
Maffei. Il ministro spagnuolo degli Affari esteri, Moret, ha
comunicato a Parigi una Nota del Sultano, dell'agosto, per una
Conferenza.
_23 ottobre._ — L'ambasciatore d'Austria è venuto a parlarmi di un
colloquio del ministro di Spagna a Vienna col conte Kálnoky sulle
cose del Marocco. Kálnoky avrebbe consigliato un accordo tra la
Spagna e la Francia.
_28 ottobre._ — L'incaricato di affari di Francia, Gérard, mi
felicita pel discorso di Torino e mi ringrazia per le mie parole
benevole verso la Francia. Parliamo del passato.
_31 ottobre._ — Visita del conte Solms, ambasciatore di Germania.
Convenzione militare: l'Imperatore accolse la mia idea; Moltke
lavora.
Gli otto punti dell'accordo per gli affari d'Oriente, come redatti —
comunicati a me ed a Salisbury da Kálnoky. — Salisbury li accettò in
massima, salvo il Consiglio dei ministri di giovedì. Io ne detti
conoscenza all'Ambasciata a Londra per cooperarci presso Salisbury,
dopo aver conosciuto la parte presa da Bismarck. Solms crede che
Bismarck presso Salisbury abbia minore influenza di me.
Marocco: La Conferenza accettata da noi a condizione che tratti e
risolva tutte le questioni. Sui tre punti comunicati dalla Francia
sono favorevole.
Convenzione pel canale di Suez: non ancora firmata; scambio d'idee
fra le tre Potenze.
_1 novembre._ — Visita dell'ambasciatore d'Austria, de
Bruck-Pellegrini: dimostrazioni cattoliche — Notizie di
Costantinopoli e della Bulgaria — Maggiorati napoletani, per la
contessa di Trani, sorella dell'Imperatrice — Convenzione per Suez.
_2 novembre._ — Visita dell'Incaricato di Francia — Trattato di
commercio — Capitolazioni a Massaua; il greco condannato; protezione
greca; ordinanza del generale Saletta per la liberazione del greco,
suo significato. Mie riserve: non capitolazioni, ma stato di guerra.
I francesi stanno alla tesi delle capitolazioni; io no. Il trattato
pel Canale di Suez firmato il 24 ottobre; comunicazione alla
Turchia.
_3 novembre._ — Visita del ministro di Spagna, conte Rascon.
Marocco: proposta di riparto con la Francia; sospetti
dell'Inghilterra, che sta per la neutralizzazione. Il ministro degli
Affari esteri di Francia, Flourens, accetta la Conferenza a
condizione che tra Spagna e Francia se ne fissi prima il programma.
Pellegrini spagnuoli — Toson d'oro pel principe Amedeo. — Canovas
del Castillo: suo discorso nel Club conservatore contro il governo;
non occuparsene.
— Visita del ministro di Grecia. Mi lagno dell'affare delle
protezioni francesi, e minaccio rigori contro gli stranieri.
_6 novembre._ — Nuova visita del ministro di Spagna. Giunse a Madrid
il 4 un dispaccio del ministro spagnuolo a Pietroburgo. Il gabinetto
russo con molta cortesia consiglia il governo madrileno di mettersi
d'accordo con la Francia nelle cose del Marocco. Questa
dichiarazione ha grave importanza. Conviene attendere il risultato
delle pratiche con la Francia. È chiaro un accordo franco-russo
nella questione marocchina, che potrebbe mandare a monte la
progettata Conferenza.
_10 novembre._ — Visita del conte Solms. Mi parla della malattia del
principe di Bismarck, del viaggio dello Czar; dell'irritazione
dell'Imperatore. Condotta dei russi contro i tedeschi. Eccitazione
di animi.
— Ministro di Spagna. Mi porta notizie della visita dei giornalisti
italiani. Desiderio di una dimostrazione — Gran Croce d'Isabella
all'on. Bonghi; in corrispettivo quella della Corona d'Italia al
signor Caspar Mugnoz de Arce. Convenzione pel Canale di Suez; la
Spagna attende la nostra risoluzione.
— Visita dell'ambasciatore d'Inghilterra. Dolorose notizie del
Principe imperiale — Convenzione di Suez; mutamenti; contemporanea
presentazione della Francia e dell'Inghilterra. Per incarico della
Regina il duca di Norfolk verrà a Roma, per ringraziare il Papa di
aver mandato Ruffo-Scilla pel suo giubileo, e per congratularsi pel
giubileo di Sua Santità. Verranno altri lords e deputati cattolici
verso il 10 gennaio prossimo.
_11 novembre._ — Il conte Solms viene a informarmi della missione di
Radovitz presso il Sultano allo scopo di dissuaderlo della pessima
opinione che aveva di me. Gli avevano fatto credere che io volessi
la costituzione di uno Stato albano-macedone. La missione del
Radovitz è riuscita.
Francesi contro italiani in Tunisia. Il Cardinale Lavigerie, con
l'ausilio del suo Governo, è divenuto prepotente ed ha attirato a sè
anche i maltesi.
Egitto: tribunali della Riforma.
Mi annunzia che il Consiglio di guerra in Francia ha respinto il
progetto di costituzione delle truppe alpine.
Marocco: minacce della Francia al Sultano, che avrebbe rifiutato una
indennità richiesta per la morte del Capitano Smith — Mi parla della
necessità della neutralizzazione del Marocco: questo argomento
dovrebbe essere l'oggetto della Conferenza di Madrid.
_13 novembre._ — Visita all'ambasciatore d'Austria e alla baronessa
sua consorte. La Baronessa è assente.
De Bruck mi dà lettura di una Nota dell'ambasciatore austriaco a
Parigi, nella quale riferisce una conversazione avuta col presidente
della Repubblica, Grévy. Questi parlò delle cose di Bulgaria e
dell'inchiesta parlamentare in Francia. Grévy avrebbe espresso
l'opinione che l'elezione del Coburgo era legale e che la missione
Ehrenroth non sarebbe riuscita più efficace di quella del Kaulbars;
che in Bulgaria non vi sarebbe altro di meglio a fare che lasciar le
cose come sono. Parlando dell'inchiesta disse che ne era addolorato.
Egli però non si sarebbe dimesso; e tale sua risoluzione era presa
per sentimento di patriottismo. La sua presenza al governo importava
il mantenimento della pace e della tranquillità. La Francia andrebbe
coinvolta in gravi disordini ov'egli non rimanesse al suo posto.
_14 novembre._ — Viene il conte Solms.
Finanze turche; mia proposta. Crede che ci distrarrebbe l'animo del
Sultano. Rispondo che io non aveva fatto una proposta formale.
L'idea, intanto, di un riordinamento delle finanze turche era venuta
da Costantinopoli, in seguito a colloquî degli ambasciatori dei tre
governi alleati.
Il Solms mi chiede se avessi avuto notizie delle pratiche della
Francia presso il Vaticano. La Francia avrebbe promesso al Papa
qualunque appoggio.
— L'Incaricato d'affari di Francia, signor Gérard, viene verso le 4
pom. al Palazzo Braschi.
Mi dice di essere stato incaricato dal suo Governo di comunicarmi il
progetto di Convenzione pel Canale di Suez concordato con
l'Inghilterra, insieme ad una lettera circolare del signor Flourens
e ad un'altra lettera del Salisbury. A proposito del trattato di
commercio, esprime la fiducia che lui ed il suo governo hanno in me
per un buon risultato.
Espulsione del greco Nicopoulo; se ne dichiara dolente.
Rispondo che il Nicopoulo doveva essere soddisfatto di essere stato
liberato dal carcere. Gli stranieri in genere — ciò avviene anche in
Francia — vengono espulsi dopo avere espiato la pena.
_17 novembre._ — All'Incaricato di affari di Francia ho detto che
l'Inghilterra mi aveva comunicata la Convenzione pel Canale di Suez.
Aspettavo qualche altro documento prima di dare una risposta
definitiva, ma in massima sono favorevole e mi adopererò presso i
governi amici perchè accettino anch'essi.
— Il conte Solms mi legge una lettera del signor de Holstein,
scritta a nome del principe di Bismarck, nella quale è detto che il
Principe mi ringrazia delle comunicazioni a lui fatte e del contegno
tenuto in tutti gli affari trattati fra i due governi. Prego il
Solms di ricambiare i ringraziamenti al Principe, che mi troverà
sempre benevolo e desideroso di essere sempre d'accordo con lui.
Una Nota da Berlino dell'11 novembre dà notizie della questione
marocchina. È contrario il Bismarck ad una Conferenza europea pel
solo argomento della protezione degl'indigeni. Parrebbe necessaria
la neutralizzazione del Marocco. Féraud, ministro francese, è
ritornato a Tangeri per agire nell'interesse francese. Moret resiste
alle esigenze della Francia. Fu presentato un progetto di divisione
del Marocco, ma la Regina Reggente è di opinione contraria, anzi
manifestò le sue meraviglie.
_18 novembre._ — L'Incaricato d'affari di Francia si presenta per
dirmi che ieri aveva telegrafato al suo governo la mia risposta
favorevole per la Convenzione del Canale di Suez, e la mia promessa
di adoperarmi presso i governi amici. Il signor Flourens mi
ringrazia per esser stato il primo e per la promessa fatta.
Avvertenza mia contro gl'intrighi dei monarchici. Consiglio a
sorvegliarli per evitare sorprese. L'Italia è interessata al
mantenimento della Repubblica, la quale è elemento di pace. Che il
Grévy resti al suo posto.
— Il conte Rascon è venuto a dirmi che l'ambasciatore di Francia gli
dette comunicazione della Convenzione per Suez. — Chiede se l'Italia
accetta, e se consiglia la Spagna di accettarla. Rispondo che
l'Italia in genere è favorevole. Però non avendo ricevuto tutti i
documenti non ho dato la mia risposta definitiva. Prego di aspettare
sino a martedì.
_19 novembre._ — L'ambasciatore d'Inghilterra mi porta a leggere la
lettera del 4 novembre con la quale Salisbury lo incaricava di
comunicarmi la Convenzione per Suez e i documenti che vi si
riferiscono.
_20 novembre._ — Il conte Solms mi comunica il seguente telegramma
del principe di Bismarck:
«Sua Maestà l'Imperatore Alessandro, trovandosi alla corte di
Berlino, ha manifestato nella maniera più positiva a S. M.
l'Imperatore e in una lunghissima udienza accordata a me, i suoi
sentimenti pacifici e la sua risoluzione di non impegnarsi in alcuna
coalizione aggressiva e di non attaccare mai la Germania. Vedremo se
i sentimenti di S. M. avranno un'influenza calmante sull'attitudine
della stampa russa, su quella degli impiegati e degli ambasciatori,
e sopratutto dell'ambasciatore a Parigi.
Non abbiamo mai creduto che l'Imperatore personalmente avesse ora e
per un certo tempo l'intenzione di assalirci.
Che un attacco della Russia contro l'Austria ci obbligherebbe,
conformemente ai trattati, a prestare soccorso a questa ultima, è
noto all'Imperatore Alessandro in seguito alle nostre comunicazioni
ufficiali, e gli è stato ricordato nuovamente ieri nella nostra
conversazione.
D'altro canto l'Imperatore è informato che l'avvenire della Bulgaria
non sarebbe giammai per noi una ragione per uscire dalla neutralità,
e che la nostra attitudine diplomatica relativamente alla questione
bulgara sarà regolata come in passato dalle stipulazioni del
trattato di Berlino.
I due monarchi non hanno preso impegni. L'avvenire dimostrerà se
saremo liberati dalla preoccupazione che l'agitazione in Russia e in
Francia aumenti ogni giorno per la passività del governo russo
dinanzi alle provocazioni dei suoi organi e dei suoi impiegati, e se
alla fine cotesta agitazione minaccerà la pace in un avvenire più o
meno prossimo, ovvero se dopo il suo ritorno in Russia l'imperatore
Alessandro vi porterà rimedio.»
_21 novembre._ — Visita del barone de Bruck.
Mi parla delle dichiarazioni pacifiche dello Czar a Bismarck. Esse
collimano con quelle comunicatemi ieri da Solms.
Fa cenno al diritto dei Borboni alla restituzione dei beni di
diritto privato, e vorrebbe una dichiarazione di principio come
quella fatta da Lamarmora alla Spagna quando questa riconobbe il
regno d'Italia. Rispondo che bisogna esaminare il caso speciale se
esistano ancora beni privati dei Borboni nel regno. Prometto di
studiare la questione, appena me ne saranno dati gli elementi.
— Visita dell'ambasciatore di Francia, conte di Moüy, di ritorno
dalle vacanze.
Si parla della crisi francese; egli non ha una sicura opinione sul
risultato della medesima. Mi narra che vide a Parigi l'on. Villa,
Presidente del Comitato Italiano per la Esposizione universale del
1889, e che si adoperò per contentarlo; agli italiani fu concessa
una speciale località che desideravano.
Il de Moüy mi ringrazia della mia adesione alla Convenzione pel
canale di Suez. Rispondo che in massima accetto la Convenzione, ma
che non potrò dare una risposta ufficiale finchè non avrò ricevuto e
letto tutti i documenti che si riferiscono a codesto grave
argomento. Negli articoli V e VIII della Convenzione trovo quello
che l'Italia aveva domandato.
Il viaggio di Friedrichsruh è anch'esso tema della nostra
conversazione. L'impressione in Francia non poteva essere gradita,
ma fortunatamente si va dissipando. Alla mia osservazione che a
Friedrichsruh nulla fu stabilito contro la Francia e che i discorsi
furono tutti di pace, egli oppose che io non avrei avuto bisogno di
fare un così lungo viaggio per così poco. Ricordai i propositi di
Gambetta al 1877 e la necessità d'intendersi fra i due paesi.
Secondo lui può combinarsi un _modus vivendi_ tra la Francia e la
Germania; ma finchè esiste la questione dell'Alsazia e della Lorena
non è possibile un accordo. La Francia vuole la pace — egli
soggiunse — e ne ha bisogno; essa, quantunque abbia un esercito
formidabile, non si lascia tentare a far la guerra. Crede quindi
strano che le altre Potenze costituiscano delle alleanze per
conservare una pace che la Francia non vorrà mai turbare.
Il signor de Moüy mi parla del trattato di commercio. Ho osservato
che il governo francese non ha mandato che due sole note e con
quella in risposta alle nostre domande ha chiesto cose impossibili;
ed ho soggiunto che cotesta è una prova di non voler stipulare
trattato alcuno. Egli si difese attaccandoci. Per lui il trattato è
più utile a noi che alla Francia. A questa gioverebbe il regime
comune delle tariffe. Gli ricordai che dopo il 1878 siamo rimasti
sette od otto mesi sotto il regime delle tariffe. Egli riprese
ricordandomi che noi diamo alla Francia meno di quello che
prendiamo, e che le esportazioni e le importazioni si bilanciano con
moneta a favor nostro. Concluse per una proroga del trattato
attuale.
_22 novembre._ — Il conte Solms mi parla degli intrighi presso il
Sultano. La Russia vi lavora più di tutti e incute paura a quel
principe. Pericoli corsi dal gran visir Kiamil-pascià di essere
supplantato da un partigiano della Russia.
Marocco: quell'Imperatore invitò i notabili a deliberare circa le
concessioni che potrebbero esser fatte alle Potenze straniere.
Cotesto sarebbe un preliminare della Conferenza.
_25 novembre._ — Visita del conte Rascon.
Convenzione pel canale di Suez.
Elevazione della Legazione ad Ambasciata. La Spagna, avendo una
Ambasciata presso il Vaticano, la vorrebbe anche presso il
Quirinale; naturalmente l'Italia dovrebbe far lo stesso. Il governo
spagnuolo avrebbe fatto l'identica proposta a Berlino e a Vienna.
Rispondo che consento in massima e che ne parlerò coi miei colleghi
e prenderò gli ordini di S. M.
_27 novembre._ — Il conte Solms viene ad annunziarmi che
l'Inghilterra accetta che la Conferenza pel Marocco avvenga
sull'argomento della protezione. I rappresentanti delle Potenze a
Tangeri dovrebbero riunirsi per intendersi sulle altre questioni. La
Francia accetta che la Conferenza si occupi di tutte le questioni
che possano interessare il Marocco. Il Moret vorrebbe spedire subito
le lettere d'invito.
Da Berlino si scrive che dopo i colloqui di Friedrichsruh, nella
Tripolitania si sarebbero prese delle precauzioni. Adombra il
Sultano anche il riordinamento delle scuole italiane in Tripoli.
Pure a Tunisi s'intriga contro di noi.
Il Solms chiede se io abbia notizia dei documenti che diconsi
falsificati e dei quali parla la _Kölnische Zeitung_. Egli dà
importanza a quel giornale per le sue relazioni col Gran
Cancelliere. Rispondo non avere altre notizie che quelle dei
giornali; anche S. M. me ne aveva domandato. Quei documenti, rimasti
in potere dello Czar, non furono veduti da alcuno. Il principe di
Reuss, del quale si era detto che avesse scritto una delle lettere,
si rivolse al principe Ferdinando per avere una spiegazione. Il suo
cugino gli rispose non aver ricevuto mai alcuna lettera da lui, e di
ignorare l'esistenza di quella che gli si attribuiva.
L'ambasciatore mi parla dell'alta posizione raggiunta a
Costantinopoli dal barone Blanc, secondo le informazioni della
Cancelleria germanica.
Circa i documenti ai quali accennava il conte Solms, l'on. Crispi
ricevette in dicembre le informazioni seguenti:
«Vienna 18 dicembre 1887.
I documenti falsificati di cui parlò la _Gazzetta di Colonia_, e che
furono mandati a Copenaga a S. M. l'imperatore di Russia poco prima
della sua partenza dalla Danimarca, sono in numero di quattro.
1. Una lettera del principe Ferdinando di Coburgo a S. A. R. la Contessa
di Fiandra in data del 27 agosto 1887;
2. Una nota che il principe di Reuss, ambasciatore germanico in Vienna,
avrebbe rimesso al principe Ferdinando di Coburgo e che è annessa alla
lettera precedente.
3. Una seconda lettera del principe Ferdinando alla Contessa di Fiandra
in data del 16 settembre 1887.
4. Una nota riassuntiva che da Brusselle sarebbe stata mandata al
principe Ferdinando e che porta la data del 28 ottobre 1887.
Questi documenti furono fatti pervenire (credesi per mezzo di un certo
signor Hansen) da Parigi a Copenaga, dove furono messi sotto gli occhi
dell'imperatore Alessandro; una copia di essi fu inviata
contemporaneamente a Pietroburgo al signor de Giers. Questi, scrivendone
all'imperatore Alessandro, espresse l'avviso che i documenti non fossero
autentici. Ma la loro falsità non diventò evidente agli occhi dello Czar
se non dopo il colloquio che S. M. I.le ebbe a Berlino col principe di
Bismarck e dopochè lo stesso principe di Reuss li smentì con una lettera
che fu messa sotto gli occhi della predetta S. M. I.le mentre d'altra
parte S. A. R. la contessa di Fiandra faceva dichiarare che non aveva
mai ricevuto le lettere attribuite al principe Ferdinando. I quattro
documenti furono compilati nell'unico intento di dimostrare
all'imperatore Alessandro come il principe di Bismarck, mentre
pubblicamente e ufficialmente si disinteressava degli affari di Bulgaria
e anzi favoriva la politica russa in questa questione, sotto mano invece
appoggiava la candidatura e poi la consolidazione del principe
Ferdinando sul trono di Bulgaria.
Chi sia l'autore del falso non è ancora noto.
Si sospetta però che sia di origine russa e che dimori o almeno
dimorasse in Francia. La falsità dei documenti risulta abbastanza chiara
da tutto il loro contenuto e anche dalla loro forma. I documenti sono
dichiarati traduzioni (in francese) dal tedesco. Ma sembra evidente che
furono redatti in francese. Essi tradiscono nell'autore una persona
accostumata a leggere documenti diplomatici e una penna solita a
scriverne. Ma in pari tempo vi si incontrano apprezzamenti molto
inesatti su uomini e cose e anche errori di fatto. Così per esempio
nella prima lettera il principe Ferdinando farebbe allusione al suo
incontro colla contessa di Fiandra a Ischl, nel quale luogo quella
principessa non pose mai il piede.
Nell'ultimo degli accennati documenti è detto, fra altre cose, che nel
colloquio tra Vostra Eccellenza ed il principe di Bismarck fu discussa e
regolata la quistione bulgara in un senso favorevole al mantenimento del
principe Ferdinando sul trono di Sofia.
Pare che il principe di Bismarck desideri che oramai quest'affare non
abbia seguito ulteriore. Tuttavia si crede che continueranno le ricerche
per lo scoprimento dell'autore.„
_28 novembre._ — Il conte de Moüy mi rimette una Nota del 25
corrente che contiene le proposte della Francia circa le seterie, in
previsione della stipulazione del nuovo trattato. Egli desidera un
accordo, affinchè tra i due paesi non si innalzi la muraglia chinese
delle tariffe. Anch'io desidero un accordo; bisogna che si trovino i
termini di una transazione.
Notizie di Francia: il de Moüy crede probabile l'elezione di
Freycinet a presidente della Repubblica. Ne sarebbe contento perchè
da lui ebbe il posto di ambasciatore. Rispondo che anch'io riterrei
quella elezione come un gran bene per la Francia, della quale lodo
la calma. Se i radicali non commetteranno degli eccessi e avranno
patriottismo, le sorti della Francia saranno assicurate. Il de Moüy
è dolente degli indugi, e spera in una buona soluzione.
_29 novembre._ — I due governi di Berlino e di Vienna stabilirono di
accordo di comunicarmi il trattato segreto del 1879 tra l'Austria e
la Germania. Essi sono d'avviso che nulla debba esser nascosto
all'Italia. Con lettera di Bismarck del 20 volgente e con altra di
Kálnoky del 24, i due ambasciatori sono stati incaricati di recarsi
da me, per darmi copia del trattato. Il primo a giungere fu de
Bruck; dopo venne de Solms. I due ambasciatori fecero rilevare
l'importanza dell'atto, come dimostrazione di grande fiducia in me
dei due gabinetti. Ringraziando, dissi di meritarla.
_1 dicembre._ — Armamenti nella Tripolitania. Ho dato a Solms due
mie Note di reclami contro gl'intrighi francesi in quella regione.
L'ambasciatore di Russia, barone di Uxkull, mi afferma che lo Czar
fu contentissimo della sua gita a Berlino; ma non muta parere sulla
questione bulgara, quantunque oggi essa sia posta a tacere. Mi
chiede se il conte Greppi, già ambasciatore a Pietroburgo, sarebbe
tornato al suo posto. Rispondo che non vi sarebbe tornato, ma che il
suo successore era un personaggio che gode le simpatie dello Czar.
— Il ministro di Spagna mi riparla della progettata Conferenza pel
Marocco. Gli Agenti locali si metteranno d'accordo. Si aspetta una
risposta della Francia ad una Nota spagnuola. La Russia non ha
interesse diretto, ma è pronta a partecipare alla Conferenza se le
altre Potenze vi parteciperanno.
— Visita del conte de Moüy. Mi parla di varie cose e anche di una
«Société d'histoire diplomatique», della quale fanno parte varii
diplomatici. Chiede la mia adesione. Avevano pregato la Regina che
consentisse ad essere inscritta fra i soci, ma poi per un articolo
poco conveniente contro l'Italia, dovettero rinunziarvi.
Fa pure qualche osservazione sulla circolare con la quale ho
ordinato che da ora innanzi si corrisponda in lingua italiana con
quelle Potenze che scriveranno nella loro lingua. Crede che questa
innovazione sia fatta per la Francia; di che lo dissuado.
_12 dicembre._ — Visita dell'ambasciatore Solms.
Atkinoff, capo dei Cosacchi, a Parigi; non volle andare
all'Ambasciata russa. Armamenti russi; pericoli.
Il Re: Bismarck crede che il Re si occupi poco dell'esercito.
Disinganno il Solms. Il Re oggi prende parte principale agli
interessi dell'esercito ed ai nostri rapporti internazionali.
— Viene Bavier, ministro della Svizzera. Si discorre del trattato di
commercio. Gli dico che non posso accettare una proroga pura e
semplice del trattato che sta per scadere; mi indichi gli articoli
sui quali bisogna discutere, e son pronto a negoziare. Ho domandato
al Parlamento le facoltà per concludere e mettere in esecuzione
anche il trattato italo-svizzero. Bavier risponde che chiederà al
Consiglio Federale che indichi codesti articoli. Mi dice che
l'opinione pubblica in Svizzera è commossa per le nostre tariffe.
Ragione di più — rispondo — per fare il trattato. Se lo volete
provvisorio, teniamoci a poche voci; se lo volete definitivo,
discutiamo e trattiamo su tutte le voci che il Consiglio Federale
crederà doverci indicare. Si conclude che il Bavier telegraferà a
Berna per l'invio dei delegati tecnici.
— Il conte Rascon viene a domandarmi se può annunziare come conclusa
la Convenzione per la cessione alla Spagna di un terreno in Assab
per deposito di carboni, dovendo il ministro Moret parlarne in
Parlamento. Rispondo che può telegrafare a Madrid che ritengano la
Convenzione come firmata.
— Con l'ambasciatore d'Austria-Ungheria parliamo degli armamenti
russi. Notizie non allarmanti. L'Austria ha 150 a 200 mila uomini in
Gallizia, le ferrovie sono in condizione di poter trasportare subito
altre truppe nei luoghi minacciati.
Mi lascia una Memoria circa i beni dei Borboni.
— Anche col ministro di Rumania parliamo degli armamenti russi.
Notizie di pace, ma non conviene fidarsene troppo.
_16 dicembre._ — Photiadès-pascià, ambasciatore di Turchia, mi dà
lettura di una Nota di Said, nella quale si parla della
rettificazione della frontiera tripolina. Il Ministro turco assicura
che nulla fu innovato e che è inesatto quanto fu scritto nel
«Bulletin de la Société de Géographie».
M'informa pure del pranzo dato dal Sultano all'ambasciatore
d'Italia, barone Blanc e alla di lui signora, e degli onori resi
loro.
_18 dicembre._ — Il conte Rascon viene ad informarmi avere il suo
ministro, Moret, scritto al rappresentante della Spagna a Tangeri di
fare un rapporto che serva di base per la Conferenza marocchina.
Rascon chiede che sia dato lo stesso incarico al Console italiano;
il rapporto dovrebbe trattare della questione delle protezioni e di
quanto ad essa si rannoda.
Tra giorni verranno i poteri per la proroga del trattato di
commercio.
— De Moüy viene a parlarmi ancora del trattato, chiedendomi una
proroga di quello vigente. Mi rifiuto. La proroga oggi, dopo il voto
del Parlamento francese (che autorizza l'applicazione alle merci
italiane della tariffa generale aggravata di tariffe differenziali
del 100 per 100) sarebbe per l'Italia una viltà.
Voi — dissi — ci mettete un dilemma nel quale, per un governo che
sente la sua dignità, non vi può esser scelta. Ci minacciate la
guerra nel caso che non accettiamo la proroga pura e semplice del
trattato attuale. Del resto, io non ho la facoltà di prorogare
puramente e semplicemente il trattato. La legge mi autorizza
soltanto a stipulare un trattato provvisorio.
Il de Moüy mi chiede una proroga che ci dia il tempo per intenderci.
Il governo francese, col protezionismo che spira, stentò ad aver la
legge com'è; difficilmente potrebbe aver altro. Rispondo che non è
colpa mia. Dissi già parecchi mesi or sono che avrei accordata una
proroga durante le negoziazioni, ma senza speranza di un nuovo
trattato è impossibile. Il governo francese mandi uno o più delegati
a trattare; provatemi che volete negoziare per raggiungere lo scopo,
ed allora accorderò la proroga. Il de Moüy osserva che il tempo
stringe e che difficilmente potremo in questo mese combinare qualche
cosa. Replico che vi è ancora tempo per una dimostrazione di buon
volere. Son pronto anche a prorogare il trattato con un decreto
reale, ma ho bisogno che i vostri delegati siano qui e mi offrano
con la loro presenza un motivo legittimo per giustificarmi dinanzi
al Parlamento.
Il de Moüy promette di scriver subito a Parigi affinchè mandino i
delegati. Raccomando che si tenga il segreto su quanto gli ho detto.
Se i giornali parleranno, rompo i miei impegni e non accorderò la
proroga. Così si resta intesi.
Mentre era per andarsene mi chiede se della nostra conversazione
avrebbe dovuto parlarne col Re: rispondo negativamente.
_21 dicembre._ — Il conte Solms mi ha dato a leggere una Nota del 15
corrente del conte di Bismarck. Il Conte aveva fatto rimostranze a
Vienna contro le dimostrazioni clericali. Il Kálnoky faceva promessa
che avrebbe invigilato affinchè in altre occasioni i funzionarii
pubblici non vi prendano parte. Nella lettera è detto che nella
riunione di Linz il governatore, barone Weber, vi si trovò per caso.
Egli sarebbe un liberale.
Un'altra Nota si occupa dell'affare di Tripoli. Radovitz ne avrebbe
parlato col Gran Visir, il quale avrebbe smentito che siasi pattuita
alcuna convenzione con la Francia per la rettificazione della
frontiera tunisina. Il Gran Visir avrebbe inoltre ordinato al
governatore di Tripoli di non aver contatto coi francesi.
Il Solms mi chiede in qual modo siasi fatta alla Spagna la cessione
di un terreno in Assab. Rispondo essersi seguite le stesse forme del
contratto per Fernando Po.
Mi legge una Nota nella quale si dice che in Francia si dà grande
importanza alla marina italiana.
A Costantinopoli la Russia ha ripreso le domande pel pagamento della
indennità di guerra. La Porta avendo obbiettato di non poter pagare
per le condizioni cattive delle sue finanze, la Russia ha risposto
che il Sultano aveva speso molti milioni per la compera dei nuovi
fucili, e che avrebbe fatto meglio a pagare i suoi debiti.
_24 dicembre._ — De Moüy viene ad informarmi del prossimo arrivo del
negoziatore francese pel nuovo trattato di commercio, e dell'invio
dei pieni poteri per la proroga del trattato vigente.
Mi parla di un fatto avvenuto a Firenze a danno di quel Console
francese. Il pretore si sarebbe recato al Consolato, avrebbe forzato
le porte, violato gli archivi e messo i suggelli ad alcune carte
degli archivi.
Rispondo che ignoravo il fatto, e che ne avrei preso conto.
_27 dicembre._ — Il conte Rascon viene a darmi l'avviso ufficiale
del gradimento del governo spagnuolo per la nomina del conte
Tornielli a Madrid.
_29 dicembre._ — Photiadès: Vernone, confine tripolino.
I francesi avendo proposto di delimitare il confine, hanno agito
profittando del silenzio della Porta. Il Gran Visir, Said, diede al
Vernone la dichiarazione di non aver ricevuto alcuna proposta. La
Sublime Porta non fu mai consultata.
— Il Ministro di Olanda viene a dirmi che il suo Re manda al Papa un
ciambellano pel giubileo, e che è incaricato di dirmi che a cotesta
missione il governo olandese non dà alcun significato politico,
essendo un atto di mera cortesia.
Sul reclamo per l'incidente di Firenze, al quale si accenna qui innanzi,
l'on. Crispi ordinò immediatamente due inchieste, una giudiziaria, e
l'altra amministrativa; quindi, prima di prendere una decisione,
interpellò due volte il Consiglio del Contenzioso diplomatico.
Con un primo parere sull'operato del Pretore, il quale aveva, usando la
forza, portato ad esecuzione nella residenza del Console di Francia, una
sentenza del Tribunale, il Consiglio ritenne che esso “fu corretto dal
punto di vista strettamente giuridico, ma troppo rigido, perchè,
nell'applicazione della legge, non tenne conto di quei riguardi che la
legge stessa gli consentiva, e che sarebbero stati tanto più
desiderabili verso una nazione amica„.
Questo parere era fondato su l'ipotesi che alla successione del suddito
tunisino in questione fossero applicabili le norme della Convenzione
consolare in vigore tra l'Italia e la Francia; l'on. Crispi dubitò che
quella Convenzione, trattandosi della eredità di un suddito non
francese, fosse applicabile al caso, e provocò un nuovo parere del
Consiglio sulla posizione giuridica dei tunisini in Italia, sulla
validità del trattato italo-tunisino del 1868, e, nel caso speciale,
sulla ingerenza avutavi dal Console di Francia.
Il responso del Consiglio non poteva esser dubbio: nonostante
l'occupazione francese della Tunisia, la condizione giuridica dei
tunisini in Italia non era cambiata, e il trattato del 1868 era in pieno
vigore; l'azione spiegata dal Console di Francia a Firenze era quindi
illegittima e illegale.
Sicuro di essere assistito dalla ragione, l'on. Crispi resistette alle
domande di soddisfazione del Governo francese sinchè questo non volle
riconoscere il torto del suo Console; e difese con fermezza in tale
circostanza i superstiti diritti dell'Italia in Tunisia.
La discussione diplomatica alla quale questo incidente dette luogo, fu
naturalmente giudicata in Francia con le consuete prevenzioni contro
l'on. Crispi.
CAPITOLO OTTAVO.
Dal “Diario„ di Crispi: Ricevimenti diplomatici dal gennaio a tutto
giugno 1888.
Germania e Russia in un colloquio del principe di Bismarck.
— La pubblicazione del trattato austro-germanico del 1879.
— Italia e Russia in un colloquio tra Crispi e
l'ambasciatore Uxkull. — Flourens vuole evitare l'alleanza
franco-russa. — Informazioni sulla situazione interna della
Francia. — Preparativi militari in Francia. — Il principe
imperiale di Germania in Liguria. — Morte di Guglielmo I. —
Le squadre italiana e austriaca a Barcellona. — Cordialità
tra Crispi e Bismarck. — Un aspro colloquio tra il conte
Bismarck e l'ambasciatore Herbette. — Morte di Federico
III. — Re Umberto esprime il desiderio di recarsi a
Berlino.
_3 gennaio 1888._ — Il conte Rascon mi dà copia delle lettere
credenziali che lo accreditano quale ambasciatore di Spagna presso
il Re d'Italia.
_9 gennaio._ — Il conte Solms mi legge una Nota nella quale è detto
che le solite influenze vogliono dare a credere al Sultano che
l'Austria e l'Italia siano unite per togliergli la Macedonia e la
Tripolitania. Mi parla altresì, sulla base di una lettera del
console tedesco a Tripoli, delle minaccie alla frontiera tunisina.
Il Sultano, nello scopo di rendersi amici i Principi degli Stati
balcanici, ha mandato al Re dei greci il gran cordone.
A Pietroburgo sono lietissimi del nuovo ambasciatore italiano
Marocchetti.
Dalla Bulgaria buone notizie. Il Sultano sarebbe in buoni rapporti
col governo bulgaro.
_18 gennaio._ — Solms ha ricevuto una Nota nella quale si parla
della missione Portal.[21] Nulla di nuovo; le cose ivi dette ci sono
note per i rapporti recentemente ricevuti. Il Negus non vuole che
gli italiani restino negli attuali possedimenti; nè a Massaua, nè a
Sahati. I missionari francesi si prestano come spie in favore degli
abissini.
[21] Si accenna alla missione inviata nel novembre del 1887 dal
Governo inglese al Negus Giovanni e affidata al signor Gérald
Portal, segretario dell'Agente diplomatico della Gran Brettagna al
Cairo, sir Evelyn Baring. _(N. d. C.)_
In Costantinopoli si lavora dall'ambasciatore italiano barone Blanc
a patrocinare gl'interessi cattolici. Una Memoria ha dovuto essere
spedita da lui al Ministero degli Affari esteri su cotesto
argomento. La Francia resiste, e l'Austria anch'essa aspira al
primato. L'unico rimedio sarebbe che il Papa inviasse un nunzio
apostolico a Costantinopoli.
La questione del Marocco è risollevata. A Tangeri vi è eccitazione
contro i francesi.
Il barone Calice, ambasciatore austriaco, ebbe una lunga conferenza
con Said sulla banda di Lobanoff nella Bulgaria. Fu scoperto che il
console russo a Burgas aveva quarantamila lire turche, e di queste
spese una minima parte per sussidi alle chiese bulgare, e il
rimanente per la tentata e non riuscita insurrezione.
_19 gennaio._ — Conte Solms: Churchill in Russia; l'Inghilterra non
vuole la guerra contro la Russia.
In seguito ad una comunicazione ufficiale del governo spagnuolo, la
Francia è ritornata di un tratto alla mia antica domanda che la
conferenza di Madrid si limiti alla discussione della questione
delle protezioni. Inoltre la Francia desidera un accordo preventivo
con la Spagna sulla questione Schaar-al-Abel, che non conosciamo.
Sembra quindi che la Francia voglia impedire la discussione sulla
neutralità. E poichè questa ultima questione interessa meno la
Germania che l'Inghilterra e l'Italia, il conte Solms mi chiede di
conoscere il mio avviso circa l'esclusione del tema della neutralità
dal programma della Conferenza.
_27 gennaio._ — Il sig. Stourdza, ministro dell'istruzione pubblica
in Rumania, trovandosi a Berlino ha espresso il desiderio di
abboccarsi col Gran Cancelliere, che l'ha invitato a Friedrichsruh
il 22 corrente.
Il Principe gli ha fatto le seguenti dichiarazioni politiche:
«Io desidero il mantenimento della pace. Debbo ciò all'Imperatore,
troppo anziano per lanciarsi in una grande impresa; lo debbo al
Principe Imperiale, colpito da un male misterioso e più malato che
non si creda generalmente; lo debbo al mio paese, che non avrebbe
niente a guadagnare da una campagna vittoriosa contro la Russia.
In verità la Germania, le cui frontiere sono assai bene stabilite,
non ha nulla da prendere a' suoi vicini dell'est. Qual territorio
potrebbe ella annettersi? Essa ha di già una parte sufficiente della
Polonia. Cercando nuove conquiste, l'Impero germanico si esporrebbe
a guerre senza fine con la Russia e con la Francia, la quale non
attende che una occasione per rivendicare l'Alsazia-Lorena. In
queste condizioni, i progetti bellicosi, da qualunque parte vengano,
non entrano nelle mie vedute».
Il Principe aggiunse che, d'altronde, la guerra non potrebbe
avvenire per fatto delle Potenze alleate. Nè la Germania, nè
l'Austria attaccheranno la Russia. L'aggressione non potrebbe venire
che dai russi. Ed esaminando la questione, se la Russia possa
passare all'offensiva, disse che fino a quando l'imperatore
Alessandro e il signor de Giers domineranno la situazione, egli non
credeva che avrebbero messo il fuoco alle polveri. Però esiste in
cotesto paese un sordo malcontento, una agitazione panslavista che
potrebbe esplodere e forzare la mano allo Czar. In vista di questa
eventualità, gli alleati debbono proseguire i loro armamenti e
tenersi pronti. Per ciò che concerne la Germania, essa è già in
istato di difesa. «Io son pronto e non temo niente. In attesa, non
posso far mia l'opinione di chi pretende che sarebbe preferibile sin
da oggi prendere l'iniziativa della guerra, per il fatto che questa
potrebbe esserci dichiarata domani».
Parlando con un uomo di Stato rumeno, si comprende come il principe
di Bismarck abbia principalmente portata la sua attenzione sopra le
relazioni con la Russia. Risulta dalle sue parole che se la guerra
non sembra vicina, il mantenimento della pace esige una vigilanza
continua.
_31 gennaio._ — Gli ambasciatori di Germania e d'Austria-Ungheria
vengono a parteciparmi che i loro governi hanno riconosciuto
l'opportunità di rendere pubblico il testo del trattato segreto
austro-germanico del 7 ottobre 1879, come salutare avvertimento alla
Russia a non turbare la pace. E chiedono il mio parere. Rispondo che
i governi di Germania e d'Austria-Ungheria sono i migliori giudici
in un affare che li riguarda direttamente, e ringrazio della cortese
domanda.
Il trattato fu pubblicato il 3 febbraio contemporaneamente a Vienna
(nella _Wiener Abendpost_) e a Berlino (nel _Reichsanzeiger_) insieme a
questa nota:
“I governi della monarchia austro-ungarica e della Germania, hanno
ritenuto conveniente di pubblicare il trattato di alleanza concluso tra
loro il 7 ottobre 1879 per fare cessare i dubbi che da parti diverse si
sollevavano sullo scopo assolutamente difensivo di cotesto accordo,
dubbi che sono stati variamente sfruttati. I due governi alleati sono
guidati nella loro politica dal desiderio del mantenimento della pace e
lavorano quanto è in loro affinchè questa non sia turbata. Essi hanno la
convinzione che la conoscenza del testo del loro trattato di alleanza
farà scomparire tutti i dubbi esistenti a tale proposito, e per questo
motivo si sono risoluti a pubblicarlo„.
Questa pubblicazione dimostrò — secondo il conte Nigra — “che la
situazione era tutt'altro che rassicurante e che il principe di
Bismarck, il quale ne aveva preso l'iniziativa, non era riuscito fino
allora ad avere dalla Russia le guarentigie di pace cui aspirava„. E
l'impressione che produsse fu grande; non sui governi, che non
ignoravano l'esistenza di quel trattato — lo Czar ne conosceva da sei
mesi anche il testo — ma nella stampa e quindi nell'opinione pubblica
europea. Il _Times_ scrisse che era una grave offesa (_a slap in the
face_) che le due potenze avevano dovuto infliggere alla Russia per non
essere accusate di aver celato ciò che avrebbe potuto evitar la guerra.
In Russia, il partito della guerra non fu lieto della diffida, e uno dei
più autorevoli giornali, il _Novoie Wremia_, non potendo dire che non
desiderava la pace, disse che non la desideravano i due alleati; un
altro giornale, anch'esso importante, andò più in là, considerando
l'alleanza austro-germanica come la pietra fondamentale dell'egemonia
germanica, e la pubblicazione del trattato come un espediente per
allontanare dalle due potenze alleate la responsabilità della guerra che
avevano risoluto di fare. E concludeva che quella pubblicazione aveva
sancito la tacita alleanza tra la Russia e la Francia.
_3 febbraio._ — Solms: circa le agitazioni dei partiti nella
Rumania, le notizie ricevute da Solms sono identiche alle mie.
Una lettera fu trovata sul cadavere di Nabukoff, stata indirizzata a
costui da Ignatieff, fratello del ministro. In essa è pur
compromesso il ministro di Russia a Bukarest (Hitrovo). In Rumania è
lui, Hitrovo, che alimenta le cospirazioni contro la Bulgaria. È con
la Russia il partito locale d'opposizione, il quale tiene pronto un
pretendente al trono, che sarebbe il principe Bibesco, cui Hitrovo
rende gli onori reali quando va alla Legazione russa. Il Bibesco ha
fatto educare i suoi figli a Parigi.
Continuano le trattative per il canale di Suez. Il Sultano vorrebbe
anche per questa via riprendere almeno moralmente il suo alto
dominio in Egitto.
Ismail-pascià è andato a Costantinopoli allo scopo di agire per
poter ritornare in Egitto. Egli mandò dieci cavalli inglesi al
Sultano, che li rifiutò. Il Sultano è esitante, però non vuole
mettersi contro la Francia, della quale rispetta la suscettibilità.
Il ministro Moret si trova imbarazzato per la Conferenza relativa al
Marocco. È interessato perchè sia tenuta, anche per scopi
parlamentari.
_5 febbraio._ — Visita di Bavier, ministro di Svizzera.
Trattato di commercio. Nego ogni proroga del precedente. Siamo
pronti a negoziare il nuovo e vi metteremo tutta la buona volontà.
Il Bavier dice che sarebbe dolente di una guerra di tariffe, anche
nell'interesse morale dei due paesi. Rispondo che siamo amici della
Svizzera nostra vicina, e vogliamo continuare ad esserlo. Faremo
tutte le concessioni possibili, ma vogliamo un trattato. Nel caso
contrario, il primo marzo avremo la tariffa generale.
— Solms: Flourens irritato per la pubblicazione del trattato.
Pel Marocco gli Agenti di Francia e di Spagna a Tangeri avevano
combinato il programma della Conferenza. Flourens sconfessò il suo
Agente.
— Uxkull: quale l'impressione della pubblicazione del trattato
austro-germanico? Dico che essa non ha potuto avere altro scopo che
quello di togliere il dubbio sulla sua portata. La nota che
accompagna la pubblicazione spiega che le due Potenze alleate non
hanno alcuna tendenza aggressiva, e questo deve far piacere alla
Russia. «Non ne avevamo bisogno, mi risponde. Noi conoscevamo da sei
anni addietro il trattato. E il vostro? Voi avete fatto adesione a
codesto trattato». — «Noi non abbiamo che vedervi. L'Italia e la
Russia sono lontane l'una dall'altra, e tra loro non può esservi
alcun conflitto d'interessi». — «Benissimo. Ma allora perchè vi
siete alleati?» — «Il nostro trattato nulla ha da fare con quello
pubblicato. Del resto, anche il nostro è un trattato difensivo». —
«Ma noi non attaccheremo, e se dovessimo fare la guerra, manderemmo
altrove le nostre truppe. Noi ci difenderemo se saremo attaccati». —
«Ma chi volete che vi attacchi? La Russia non può temere una guerra
aggressiva. È difesa dal suo clima e da' suoi soldati. Napoleone I,
che volle invadere il vostro paese, dovette pentirsene. E se la
Russia non vuole la guerra, perchè non si accorda con l'Europa per
sciogliere la questione orientale?» — «Credete anche voi nella
favola del testamento di Pietro il Grande? Noi non vogliamo che la
libertà degli Stretti». — «E allora perchè non proporre un
accomodamento?» — «E a chi dareste Costantinopoli?» — «Si
determinerebbe». — «Noi sosteniamo la Turchia e la sostenete anche
voi». — «Non se ne può fare a meno. Però voi l'avete assalita più
volte, e avete dichiarato che non può reggersi e deve finire». —
«Ebbene, lasciamola vivere».
_7 febbraio._ — Solms, incaricato dal principe di Bismarck, viene a
domandarmi scusa per aver egli nel suo discorso di ieri commesso una
_étourderie_, col parlare del trattato di alleanza con l'Italia
senza avermene chiesto il permesso. Il Principe si dichiara
dolentissimo di ciò. Rispondo che dò al principe l'assoluzione
papale. Del resto, il silenzio non avrebbe giovato a nulla: tutti
sanno dell'esistenza del trattato italo-tedesco. Lo informo del
colloquio avuto il 5 corrente coll'ambasciatore di Russia.
— Il ministro della marina mi avverte che due ufficiali francesi,
sotto la veste di pittori, furono in questi giorni alla Spezia, e
che abbiamo quest'anno in Italia molti sedicenti artisti francesi.
Anche il giubileo ha facilitato questa calata di ufficiali.
_10 febbraio._ — Ressman, Incaricato d'affari a Parigi, mi fa sapere
che il signor Flourens ha compreso la necessità di dare un
successore al signor de Moüy e fatto analoga promessa; ma che gli
sembra di non poter fare immediatamente tale richiamo, perchè molto
lo imbarazza la scelta di un nuovo ambasciatore. Anche
l'ambasciatore Menabrea aveva insistito presso il Flourens perchè
fosse dato, sino al suo definitivo richiamo, almeno un pronto
congedo a quel diplomatico, senza aspettare un nuovo incidente di
Firenze.
Il ministro francese desidera un accordo sulla situazione dei
sudditi tunisini dimoranti in Italia, rispetto agli Agenti del
governo francese, e sull'interpretazione del trattato italo-tunisino
del 1868. Il Flourens accolse con premura la proposta di uno scambio
di note o dichiarazioni per definire l'inviolabilità degli archivi
consolari.
Alle osservazioni sul contegno di una parte dei giornali francesi,
fatte al signor Flourens e al signor Tirard, i due ministri
risposero di esservi estranei; il Tirard si dichiarò pronto a
pubblicare qualunque dichiarazione che ci potesse convenire per
ripudiare gli attacchi mossi contro il governo italiano e il suo
capo.
Sembra che gli attacchi perfidi del _Figaro_ contro di me siano
inspirati dal Vaticano, del quale sarebbe portavoce Mgr. Galimberti.
_11 febbraio._ — Solms: l'arrivo della flotta inglese della Manica
nel Mediterraneo ha suscitato i sospetti della Francia.
Si è detto da alcuni giornali che l'imperatore di Germania avrebbe
scritto al Negus. Cotesta notizia è falsa.
La restituzione di Zeila al Sultano non si farà più. I colleghi di
Salisbury furono anche contrari che fosse data all'Italia per timore
di complicazioni con la Francia. Said-pascià è favorevole che Zeila
resti agli inglesi per timore che vi vadano i francesi.
Prestiti russi: all'Aja, di 300 milioni col _Comptoir d'escompte_,
Banca di Parigi, Banca dei Paesi Bassi.
_12 febbraio._ — Visita dell'ambasciatore turco: mi parla dei
conflitto di Beyrouth tra cristiani e mussulmani.
Presenta una protesta per la cessione di Assab. Rispondo che non ne
prendo atto; l'acquisto nostro fu legittimo.
— Rascon, ministro di Spagna:
Mi annunzia che sono giunti i delegati spagnuoli per il trattato di
commercio. Li vedrò domani al palazzo Braschi.
Voci di guerra. Pessime impressioni a Madrid. La guerra sarebbe
minacciata dalla Francia. Gli spagnuoli metterebbero un corpo di
truppe dinanzi Perpignano, ed un altro dinanzi Baiona.
_14 febbraio._ — Apprendo che il ministro Flourens ha detto
all'ambasciatore britannico a Parigi, lord Lytton, che il trattato
di alleanza tra la Germania, l'Austria e l'Italia metteva la Francia
in una situazione penosa. Cotesto trattato forzerebbe la Francia a
gettarsi nelle braccia della Russia. Per evitar ciò Flourens ha
proposto un trattato segreto tra la Francia, l'Inghilterra e le
altre Potenze interessate al mantenimento dello _statu-quo_ nel
Mediterraneo.
_20 febbraio._ — Il conte Solms è venuto ad informarmi delle
comunicazioni fatte dall'ambasciatore russo a Berlino al Gran
Cancelliere per la questione bulgara. Il conte Schouvalow con sua
lettera del 13 corrente chiedeva al principe di Bismarck di
associarsi alla Russia allo scopo di persuadere la Turchia a voler
dichiarare la illegalità del soggiorno del principe Ferdinando in
Bulgaria. A questa lettera erano aggiunti due documenti, uno senza
data e senza firma, nel quale si spiegavano le intenzioni del Gran
Cancelliere, ed un altro del 31 dicembre 1887, firmato Giers, nel
quale si spiegavano gli scopi del gabinetto di Pietroburgo. Bismarck
crede che quella dichiarazione soddisferebbe l'amor proprio dello
Czar e che noi dovremmo adoperarci a farla ottenere. Rispondo quello
che ho già detto ad Uxkull; dubito delle conseguenze di quella
dichiarazione, le quali non potrebbero essere benigne.
Il Solms mi parla della impressione fatta sull'animo del Sultano
dalla pubblicazione di sir Elliot. Il Sultano sarebbe inquieto
contro Kiamil pascià, Gran Visir, che ritiene partigiano della Gran
Brettagna; egli teme altresì che si attenti alla sua vita. Si è
stentato molto a fargli riacquistare la calma.
L'affare di Damasco non suscita più i malumori della Francia, la
quale, considerata la loro poca importanza, non pensa più ad agire.
La Francia si oppone all'intervento della Turchia alla Conferenza
pel Marocco. La Turchia non prese parte al trattato del 1880 e non
ha interesse nel territorio marocchino. Il signor Moret, invece,
sarebbe favorevole a cotesto intervento.
_23 febbraio._ — Il signor Flourens si è lagnato con l'ambasciatore
d'Inghilterra a Parigi dell'Italia e di me, che accusa di un
contegno ostile e provocatore. Cotesta imputazione è formulata
troppo vagamente per avere un valore. La tendenza del governo
francese è di posare a vittima. Se si esamineranno i miei atti uno
ad uno, si troverà che in ogni occasione ho spinto la condiscendenza
sino agli estremi limiti.
Sulla situazione politica della Francia l'on. Crispi ricevette nei primi
giorni di febbraio le seguenti informazioni:
«Il governo appare ogni giorno più debole di fronte alle esigenze
che intorno a lui si accampano. Una minoranza audace e
irresponsabile gli forza continuamente la mano, senza che gli
elementi d'ordine ancora numerosi, nella provincia specialmente,
valgano a controbilanciare tale azione. Speculatori intelligenti e
spregiudicati, molti dei quali forestieri, che al primo pericolo
scomparirebbero, prezzolano una stampa senza convinzioni che crea
tali correnti di opinione nel pubblico, le quali porranno il governo
in balìa della piazza.
Sullo scorcio del 1887 il governo non era fortissimo, ma resisteva.
Il vecchio presidente Grévy era un elemento pacifico e moderatore, e
il Ministero abbastanza buono, sbarazzato di persone compromettenti
come il generale Boulanger e l'ammiraglio Aube. Ma appunto per
questo era inviso alla piazza, la quale andava lagnandosi che il
presidente parteggiasse per l'opportunismo. I radicali decisero
perciò di muovergli guerra, e profittarono della condotta scorretta
del genero del presidente, il deputato Wilson, affarista noto già da
anni nei circoli parlamentari. Lo scandalo appassionò l'opinione
pubblica, e il presidente Grévy fu costretto a dimettersi.
Nella confusione, che regnò durante i giorni della crisi
presidenziale, i radicali cambiarono parte. Spaventati dalla
possibilità di cadere da Grévy a Ferry, si provarono a rimontare
l'opinione pubblica per la rielezione di Grévy e ad ogni modo
minacciavano le barricate a Parigi se Ferry fosse stato eletto
presidente. Una forte corrente moveva l'assemblea di Versailles a
dare il voto a Giulio Ferry, ritenuto come l'uomo di Stato più
energico e di maggior valore dei concorrenti; ma, in verità, la
Francia e Parigi stessa assistevano indifferenti alla soluzione di
quella crisi strana e improvvisa. I radicali soli si agitavano, i
parigini sopra tutti, e nell'assemblea trovarono alleata una
frazione della destra, la quale, odiando la repubblica, la desidera
debole e perfino comunarda, per potersene sbarazzare più presto.
Mentre il Congresso sedeva a Versailles, tutte le misure erano state
prese dalla maggioranza radicale del Consiglio municipale per
proclamare un governo provvisorio nel caso che il signor Ferry
avesse riunito sul suo nome la maggioranza dei voti. I consiglieri
municipali si erano dichiarati in seduta permanente e avevano
chiamato all'_Hôtel de ville_ parecchi delegati del Comitato
rivoluzionario centrale, per poter disporre, occorrendo, del loro
concorso. Avevano anche cercato di ottenere dal prefetto della Senna
le chiavi delle porte che chiudevano i corridoi sotterranei per i
quali l'_Hôtel de ville_ era messo in comunicazione con altri
edifici, specialmente con le caserme «Lobau» e «Napoleone». Il
prefetto della Senna avendo rifiutato di consentire alla predetta
domanda, i consiglieri municipali avevano sbarrato il passaggio con
una catena di ferro per impedire che per quella via si potesse
penetrare nell'_Hôtel de ville_.
Le minaccie dei radicali portarono frutto: la maggioranza, sempre
timida, se ne commosse, e credendo prossimo un gran pericolo
abbandonò il Ferry ed elesse il signor Sadi-Carnot, senza partito e
senza amici.
Tutti ormai sanno che, se fosse stato eletto Ferry, qualche migliaio
di arruffoni sarebbe sceso da Montmartre e da Belleville. Il
governatore militare di Parigi, generale Saussier, che aveva
accresciuto il presidio della capitale e di Versailles e prese
misure energiche, era preparato agli eventi, e sarebbe stato gran
ventura lo sbarazzarsi in una volta di una caterva di _souteneurs_,
ladri e assassini che insozzano la capitale, e di sottrarre il
governo alla tirannia dell'estrema sinistra che lo paralizza.
La crisi presidenziale si mutò in crisi ministeriale, che finì con
la formazione di un gabinetto senza forza. A dare un saggio delle
difficoltà che si dovettero superare per comporre il gabinetto,
basti ricordare in qual modo divenne ministro il generale Logerot.
Quel portafoglio, offerto a molti che lo rifiutarono, era rimasto
vacante, quando il presidente del Consiglio, Tirard, si presentò
all'Eliseo per annunziare la composizione del suo Ministero. Il
Tirard, riferiti i passi inutilmente fatti per trovare un ministro
della guerra, opinava per l'annunzio della composizione ministeriale
senza il titolare del Ministero della guerra; ma la proposta non
garbò al signor Carnot. Cercando come uscire d'imbarazzo, il
Presidente si sovvenne di avere udito presso Digione, dove possiede
una terra, ma non ricordava da chi, forse da un guarda-caccia o da
un giardiniere, che il generale comandante della guarnigione era un
brav'uomo. Non ne sapeva il nome. Un ufficiale d'ordinanza,
interrogato, rispose che il corpo d'armata di Digione era l'ottavo,
e che il suo comandante si chiamava Logerot. Il signor Tirard ebbe
ordine di telegrafargli subito per proporgli il portafoglio della
guerra. Logerot rispose: «Arriverò domani ore 9 ant.». Queste parole
furono interpretate come un consenso, e il _Journal officiel_ si
affrettò a dar l'annunzio del nuovo Ministero, compreso Logerot alla
guerra. Quando questi arrivò alle 9 per scusarsi, la cosa era fatta,
e lo persuasero a star tranquillo per non mettere il governo in
imbarazzo e, peggio, in ridicolo.
Questo gabinetto ebbe così poca vitalità sin da principio che,
appena insediato, non essendo ancora discusso il bilancio per il
1888, la Camera non volle accordargli che tre dodicesimi provvisori,
ed i profeti di crisi ministeriali ne proclamano la fine ad ogni
episodio parlamentare.
Ma se esso pare debole all'interno, dimostra qualche energia
all'estero, resistendo alle seduzioni russe. Da molto tempo la
Russia semina in Francia, e se ne vedono già i frutti. Granduchi e
granduchesse vengono, vanno, cercando simpatie nella grande società.
Letterati francesi più o meno convinti, e probabilmente ben pagati,
traducono le novelle e i romanzi russi, pieni d'ingenuità grossolane
e barbare, come di nomi strani che li rendono originali. Il
giornalismo chiama la Russia «la nation sœur». Il popolo francese
si abitua così a considerare la Russia come un'alleata; non sono
mancate neppure manifestazioni di militari, certi passi del generale
Boulanger, un discorso del generale Saussier, molti discorsi
dell'addetto militare russo. Ma il governo sembra sinora non esser
vinto da questa corrente, forse perchè sa di potervisi abbandonare
quando vorrà, e malgrado che l'ambasciatore di Russia, barone di
Mohrenheim, non tralasci occasione per accarezzare la Repubblica.
In una delle ultime crisi ministeriali pareva che il solo Floquet
potesse formare un gabinetto, ma la sua candidatura venne scartata
per non dispiacere allo Czar che ricordava il grido di «Vive la
Pologne, monsieur», lanciato dal Floquet nel 1867 allo czar
Alessandro. Un anno fa il Floquet era studiosamente evitato da tutti
i russi. Un giorno il barone di Mohrenheim trovandosi in visita
dalla marchesa Menabrea, era seduto presso alla signora Floquet, e
senza conoscerla conversò con essa, trovandola amabile e spiritosa.
Quando essa uscì dal salone, il barone domandò chi fosse, e,
saputolo, scattò come una molla, esclamando un «bigre» che stupì
tutti i presenti, ai quali non dissimulò il suo dispiacere. Pochi
mesi son passati, e due o tre giorni sono il signor di Mohrenheim si
è fatto presentare dal ministro degli esteri, in un ricevimento del
ministro del commercio, al presidente della Camera, signor Floquet.
Per l'appunto un gabinetto Floquet si disegna all'orizzonte in caso
di crisi, e questo passo dell'ambasciatore russo sembra diretto a
far comprendere che la Russia è disposta ad assolvere il signor
Floquet per amore della Repubblica.»
Il 21 gennaio l'agenzia telegrafica Reuter comunicava che una grande
attività era notata nell'arsenale di Tolone. Si preparava una squadra di
corazzate e d'incrociatori, e si facevano esperimenti di mobilitazione.
Le maestranze dell'arsenale lavoravano oltre il consueto. Il _Petit
Journal_, il più diffuso foglio della Francia, spiegava quell'insolita
attività con l'irritazione prodotta dall'incidente di Firenze.
In febbraio e in marzo a Modane erano giunti un vagone di dinamite e
grande quantità di munizioni; i forti di Esseillon, Braman, Sassey e
Replaton erano stati rinforzati di mille uomini di fanteria, artiglieria
e genio.
Il primo febbraio l'ambasciatore Menabrea telegrafava:
«Debbo prevenire V. E. che qui all'Ambasciata di Germania si è molto
preoccupati della mobilitazione e concentramento Mediterraneo della
maggior parte della flotta francese. Il Prefetto Marittimo di Tolone
ha ricevuto l'ordine di allestire la squadra d'evoluzione e quella
di riserva, in tutto quattordici corazzate che debbono essere pronte
in pochi giorni. Inoltre debbono poter entrare in servizio entro due
o tre settimane, altre otto corazzate. Nella Manica non resterebbero
che quattro o cinque corazzate, oltre qualche guarda-coste non
destinate all'alto mare. Sarebbe utile conoscere che cosa pensino di
questo concentramento l'Inghilterra e la Germania.»
Pochi giorni dopo era annunziato l'arrivo nel Mediterraneo della squadra
inglese della Manica.
Nel campo finanziario le ostilità della Francia erano principiate mentre
si negoziava per la rinnovazione del trattato di commercio. Tutti i
titoli italiani furono artificiosamente deprezzati da un'acerba campagna
della stampa, a cominciare dal Consolidato, che i giornali, nei
bollettini della borsa, indicavano col dispregiativo di “macaroni„; il
piccolo risparmio francese, che lo prediligeva e ne possedeva grandi
quantità, fu consigliato a disfarsene.
La finanza germanica, per i buoni uffici del principe di Bismarck, fece
quanto potè per attenuare i danni di questa guerra, e opporre una diga
alla discesa dei corsi della rendita italiana, sia acquistandone sul
mercato di Parigi, sia scontando gli effetti cambiari del nostro
commercio e mostrandoci quella fiducia che la Francia ci negava.
Nella tornata del 5 marzo della Camera dei Deputati, l'on. Sonnino
propose con elevate parole l'invio di un telegramma di auguri al
Principe Imperiale di Germania, venuto a chiedere salute al mite clima
della nostra Liguria. L'accoglienza che la Camera fece a quella
proposta, appoggiata calorosamente dall'on. Crispi, fece la migliore
impressione. Il principe di Bismarck ringraziò l'assemblea italiana
della “nobile manifestazione„, la quale provava che l'amicizia dei due
paesi, oltre che sulla identità dei loro interessi, era fondata sulla
base solida e durevole dell'aspirazione comune al mantenimento della
pace.
Ma il soggiorno in Liguria di Federico Guglielmo ebbe breve durata. Il 7
marzo l'ambasciatore germanico comunicava a Crispi questo telegramma del
principe di Bismarck:
«Je prie Votre Excellence de communiquer confidentiellement à
Monsieur Crispi que depuis quelques jours l'état de santé de S. M.
l'Empereur est devenu inquietant. Sa Majesté n'a pas pu recevoir des
communications et malheureusement pas non plus celle de l'imposante
manifestation au Parlament Italien. J'avais l'intention de prendre
des ordres de Sa Majesté qui m'auraient autorisé à une reponse
destinée à Sa Majesté le Roi Humbert. L'état de l'Empereur ne le
permet pas. Nous sommes depuis ce matin très-alarmés.
BISMARCK.»
Dopo due giorni l'imperatore Guglielmo I moriva e il Gran Cancelliere
rispondeva nei seguenti termini alle condoglianze di Crispi:
«Le télégramme que Votre Excellence vient de m'adresser prouve
qu'elle comprend la profonde douleur dans laquelle m'a plongé la
mort du Souverain que j'ai eu le bonheur de servir jusqu'à la
dernière heure de sa vie.
Je remercie Votre Excellence de ce témoignage de sympathie. Il m'a
apporté une grande consolation en ce moment d'épreuves et m'a
profondément touché. C'est dans la certitude de voir notre deuil
partagé par tous les hommes de bien dans ce monde, qu'avec l'aide de
Dieu je puise la force dont j'ai besoin pour remplir la tâche qui
m'incombe.
Von BISMARCK.»
Federico III dovette partire subito per recarsi ad assumere l'Impero e a
rendere al Padre gli estremi onori. Re Umberto volle fare personalmente
al suo augusto amico gli augurii in terra italiana, e giunse alla
stazione di Sampierdarena mentre dalla riviera di ponente vi giungeva il
convoglio germanico. In quella piovosa e fredda mattina del 10 marzo
l'incontro dei due Sovrani fu molto triste. L'Imperatore chiuso nella
sua vettura, ricevette commosso il Re e Crispi. Non poteva parlare:
ascoltava e dava risposta scritta sui fogli del suo taccuino. A Crispi
porse un foglietto sul quale erano queste parole: “J'ai été bien touché
des paroles prononcées dans les deux Chambres„.
[Illustrazione: Nota manoscritta.]
È ignorato che durante il soggiorno di Federico Guglielmo in Liguria gli
anarchici avevano deciso un attentato contro di lui. Un rapporto su
questo argomento dava le seguenti notizie:
“Nei conciliaboli già segnalati era stato dapprima deciso che
l'assassinio del Principe imperiale sarebbe stato tentato per mezzo di
bombe cariche di dinamite, in occasione del viaggio a San Remo di S. M.
il Re d'Italia, che sarebbe stato ucciso insieme al Principe. Il Re non
avendo fatto quel viaggio, l'esecuzione del delitto è stata aggiornata.
Una nuova riunione ha avuto luogo recentemente a Nizza, e in essa si
sarebbe deciso che l'esecuzione del Principe imperiale solo avesse luogo
in quella stessa settimana. L'individuo incaricato del delitto sarebbe
un certo G. A., garzone di cucina a Mentone.
Gli anarchici sanno benissimo che il successo dell'attentato non
potrebbe avere nessuna conseguenza politica favorevole alla loro causa;
essi vogliono solamente affermare pubblicamente la potenza del loro
partito con un gran fatto.„
Dal _Diario_:
_27 marzo._ — Il conte Solms mi annunzia che Moret ha ritirato
l'invito mandato alla Porta per intervenire alla Conferenza sul
Marocco. Chiede il mio parere, ed io gli dichiaro di esser contrario
e di essermi manifestato in tal senso col conte Rascon. Ho
telegrafato a Londra per conoscere l'opinione di lord Salisbury. Il
Solms mi previene che l'Austria ha risposto che avrebbe seguìto il
parere delle Potenze mediterranee.
_27 marzo._ — In seguito ad una lettera particolare
dell'ambasciatore d'Italia a Madrid, conte Tornielli, nella quale si
partecipava la speranza del ministro Moret che l'Italia volesse fare
una dimostrazione di simpatia alla Spagna, inaugurandosi nel
prossimo maggio dalla Regina Reggente l'Esposizione di Barcellona,
telegrafo al conte Nigra, a Vienna:
«Mi risulta che il governo spagnuolo vedrebbe con viva soddisfazione
che la nostra squadra, sotto il comando del duca di Genova, si
trovasse a Barcellona alla metà del mese di maggio, cioè per
l'arrivo colà della Regina Reggente. Questa dimostrazione di
simpatia, la quale gioverebbe a rafforzare il principio monarchico
in Ispagna in un momento in cui la Francia cerca d'indebolirlo, e ad
affermare l'intesa dei due paesi, potrebbe acquistare una
significazione politica d'importanza anche maggiore se la squadra
austro-ungarica si unisse alla nostra. Parmi che cotesto governo non
possa non essere favorevole a tale progetto. Voglia parlarne a
Kálnoky e telegrafarmi se l'idea è da lui bene accolta.»
_29 marzo._ — Risposta di Nigra:
«Kálnoky mi dice che divide il parere di V. E. circa la convenienza
dell'invio delle squadre a Barcellona durante il soggiorno colà
della Regina Reggente, ma che deve informarne l'Imperatore e
prendere i suoi ordini. Egli si riserva di far conoscere la
decisione di S. M. a V. E.»
_(?) aprile._ — L'ambasciatore d'Austria-Ungheria mi comunica il
seguente telegramma di Kálnoky:
«Vogliate dire a S. E. il signor presidente del Consiglio che noi ci
associamo con grande soddisfazione al progetto di riunire le squadre
dei due Stati per salutare S. M. la Regina Reggente di Spagna a
Barcellona, e che diamo un gran valore all'incontro e alla riunione
delle squadre che mostreranno così unite le due bandiere delle due
Potenze alleate. S. M. l'Imperatore e Re ha consentito col più
grande piacere a questa idea e ha già dato gli ordini necessari al
Comando della marina.»
_6 maggio._ — Avendo proposto al conte Kálnoky che le squadre
italiane e austro-ungarica giungessero a Barcellona simultaneamente
a quella inglese, l'ambasciatore Nigra mi comunica che la squadra
imperiale è partita ieri per Barcellona, dove arriverà l'11 maggio.
Le due squadre potrebbero partire insieme da Barcellona.
_30 marzo._ — Ambasciatore di Spagna: gli dico di non opporsi
all'intervento della Turchia alla Conferenza sul Marocco. La Spagna
avendo fatto l'invito, non può ritirarlo.
_1.º aprile._ — Telegrafo al principe di Bismarck: «Prego V. A. di
gradire nel giorno anniversario della sua nascita i miei voti più
sinceri. Confrontando la Germania di oggi, ch'è in gran parte opera
vostra, con la Germania del 1815 che vi vide nascere, ammiro la
grandezza del vostro genio e la potenza della vostra volontà; sono
orgoglioso dei buoni rapporti che intercedono tra noi e mi conforta
che il mio paese proceda di conserva nella storia della nostra epoca
con quello di cui V. A. con mano sicura e ferma guida i destini».
— Il conte di Launay mi telegrafa di essersi recato a far visita al
Gran Cancelliere. «Egli mi ha detto — così il Launay — di essere
stato commosso del telegramma grazioso in ogni modo che in occasione
del suo giorno natalizio gli ha indirizzato V. E. Il Principe non
potrebbe essere più soddisfatto dell'amicizia che regna tra i due
governi. Una perfetta intesa è tanto più necessaria dinanzi
all'avvenire incerto. Nessuno può prevedere ciò che avverrà in
Francia, dove i partiti estremi prevalgono sugli elementi moderati.
Noi non attaccheremo perchè non vogliamo rappresentare la parte di
provocatori. Il vostro governo evita saggiamente tutto ciò che possa
aver l'aria di una provocazione. Ma se malgrado questa attitudine,
la guerra dovesse scoppiare, noi siamo in condizione di affrontare
la sorte con successo. Ho approfittato di questa occasione per
ringraziare il Cancelliere dell'appoggio che continua a darci per
impedire il deprezzamento della nostra rendita. S. A. mi ha risposto
che faceva questo di gran cuore. Sono questi i servizi che si
debbono rendere gli amici».
_3 aprile._ — Solms mi dà lettura di una Nota colla quale si
risponde ad un mio telegramma diretto ad ottenere che il principe di
Bismarck volesse persuadere Salisbury a permettere alle nostre
truppe di Massaua, che soffrono per il gran caldo in quel porto del
Mar Rosso, di passare l'estate in Egitto. Il governo inglese ci ha,
invece, offerto l'isola di Cipro, ed ho risposto che tanto valeva
ritirare le truppe in Italia.
_4 aprile._ — Il conte Rascon viene a parlarmi dell'intervento turco
nell'affare del Marocco. Il Marocco rifiuta tale intervento.
_13 aprile._ — Solms mi dà notizia di una Nota di Radowitz da
Costantinopoli, secondo la quale i francesi avrebbero dato a credere
al Sultano che noi abbiamo mandato da Massaua ottomila soldati a
Suez, con animo di occupare l'Egitto.
La sera del 10 Radowitz ha pranzato a Yldiz-Kiosque. Poco avanti il
pranzo, il Gran Visir gli ha comunicato la notizia ricevuta
dall'Ambasciata di Francia relativa all'invio delle nostre truppe a
Suez, soggiungendo confidenzialmente che il conte di Montebello
aveva offerto alla Turchia tutto l'appoggio della Francia per quelle
misure che giudicasse necessario prendere in vista di un tal fatto.
Era cotesta una maniera di spingere la Porta a una decisione
irriflessiva. Il Gran Visir dubitava egli stesso dell'esattezza di
tale notizia; ma non poteva non esserne preoccupato. Il Sultano
pareva allarmatissimo, e durante il pranzo ha parlato continuamente
con l'Ambasciatore di Germania. Radowitz non ha mancato di fargli
osservare che la notizia, venendo da fonte che non offre garanzie
d'imparzialità, non poteva essere accettata senza controllo, e che
prima di emettere un giudizio qualunque bisognava assicurarsi della
sua esattezza; in ogni caso la sua opinione personale era che la
politica italiana escludeva qualsiasi attentato all'integrità
dell'Impero Ottomano e ai diritti del Sultano. Coteste parole hanno
contribuito a calmare lo spirito di Sua Maestà.
_15 aprile._ — Photiadès-pascià m'informa di essere stato
interpellato da Costantinopoli circa l'invio a Suez di ottomila
soldati nostri sotto il comando del generale Saletta. Egli avrebbe
smentito la notizia soggiungendo che si tratta del ritorno delle
truppe da Massaua. L'insinuazione sarebbe stata fatta dal
vice-console francese a Massaua.
_3 giugno._ — Il conte Solms m'informa di un colloquio tra il conte
di Bismarck e l'ambasciatore di Francia a Berlino, signor Herbette.
Rispondendo alla domanda che la Germania concorra alla sola
esposizione di belle arti del 1889, il Conte si sarebbe rifiutato
con parole assai vive. Egli avrebbe detto che il governo francese
sarebbe impotente a tutelare l'ospitalità dovuta ai tedeschi. Se i
francesi li oltraggiassero e maltrattassero le loro opere d'arte, il
governo francese si troverebbe in una posizione difficile, e siccome
la Germania vuole conservare lo stato di pace tra le due nazioni, è
meglio evitare ogni occasione di dissidio. Dopo i casi di Belfort, i
tedeschi non sono punto sicuri in Francia e fanno male ad andarvi;
si troverebbero più sicuri ed incontrerebbero minori pericoli nel
fondo dell'Africa.
Herbette restò scosso da coteste parole ed esclamò: «C'est que vous
êtes les vainqueurs et nous les vaincus.»
Il Bismarck rispose che vi erano state altre guerre tra i due paesi,
e qualche volta furono vinti i tedeschi; ma non avvenne mai quello
che è avvenuto dopo il 1870, cioè che gli spiriti in Francia fossero
rimasti così inquieti e molesti da rendere difficili le relazioni
che sono necessarie tra popoli civili.
L'Herbette osservò che in Francia vi sono trentamila tedeschi che vi
fanno affari.
— Ve n'erano più di trecento mila prima del 1870, — replicò il
Bismarck, — e tutta cotesta massa di nostri concittadini dovette
ritirarsi. Desidererei che tra la Francia e la Germania vi fosse una
muraglia chinese e nessuna ragione di rapporti e di dissidi.
Herbette espresse l'avviso che francesi e tedeschi avvicinandosi e
frequentandosi, finirebbero per conoscersi e stimarsi. Così solo
potrebbero cessare i rancori. Ma il conte di Bismarck non nutre la
stessa speranza.
Così il colloquio terminò.
Il Solms torna a parlarmi della favola che le flotte unite di
Italia, Austria e Inghilterra sarebbero andate a Costantinopoli per
fare una dimostrazione. Il Radowitz assicura che la notizia a
Costantinopoli sia stata mandata da Photiadès-pascià. Costui sarebbe
l'organo, volontario o involontario, delle due legazioni di Francia
e di Russia presso il Quirinale. Gérard e Paparigopoulo sarebbero
l'anima di cotesto intrigo.
_15 giugno._ — Il re Umberto riceve il seguente telegramma:
«Accablé de douleur je fais part de la mort de mon père bien aimé
Empereur et Roi Frédéric III. Il s'est éteint doucement ce matin à
onze heures et quart.
GUILLAUME.»
— Ricevo dal Re questo telegramma:
«La morte dell'Imperatore di Germania mi impone il doloroso obbligo
di richiamare la di Lei attenzione sui provvedimenti che si debbono
prendere per questo triste avvenimento.
Ella avrà notato che in varj giornali e ad epoche diverse si è
accennato alla probabilità della mia gita a Berlino per porgere
ancora una prova di amicizia all'Augusto infermo.
Ciò che io non avrei creduto opportuno vivente l'Imperatore, diverrà
invece conveniente ed utile dopo la sua morte?
Certo risponderebbe ai sentimenti del mio cuore e forse al delicato
sentire del Popolo Italiano, che io rendessi questo estremo onore a
chi fu per lunghi anni il migliore amico mio e dell'Italia.
Ma poichè il sentimento non dev'essere la sola e precipua guida
delle decisioni di Stato, è dovere nostro di ponderare se le
considerazioni politiche conducono alla stessa risoluzione.
Non nascondo che non mi sentirei molto propenso a far il primo la
visita al nuovo Imperatore, che è più giovane di me e che non ha
ancora avuto occasione di compiere atti dai quali tragga speciale
autorità.
D'altra parte, però, non mi rifiuterei al sacrifizio di un viaggio a
Berlino, se con questo avessimo la certezza di raggiungere lo scopo
di rendere saldi ed intimi i nostri rapporti anche col nuovo
Imperatore e di dargli nel tempo stesso occasione di ricambiarci la
visita in Roma nell'epoca che Ella preventivamente stabilirà col
P.pe di Bismarck.
Questo scopo è di fronte alle Potenze Europee pienamente coperto
dalla nota mia amicizia con Federico Guglielmo e dalla mia intimità
colla sua famiglia.
La prego di considerare tutto ciò e di telegrafarmi se Ella crede
necessario il mio viaggio nell'interesse del Paese; ed in caso
affermativo, se Ella pensi di poter stabilire preventivi accordi col
principe di Bismarck.
In qualunque ipotesi Le sarò grato se vorrà sollecitamente
telegrafarmi le sue proposte.
Ho telegrafato direttamente all'Imperatore di Germania le mie
condoglianze.
La prego, malgrado ciò, di volere esprimere in nome mio i sentimenti
di rammarico all'ambasciatore conte Solms.
Le stringo la mano
Aff.mo
UMBERTO».
— Mia risposta al Re:
«Il consiglio dei ministri esprime la sua ammirazione per lo slancio
generoso del cuore di V. M. Il Consiglio però fu unanime nell'avviso
che politicamente non convenga che il Re d'Italia vada a Berlino,
sopratutto perchè i funerali dell'imperatore Federico, per espressa
volontà del defunto, saranno fatti in forma privata, senza
l'intervento di principi esteri o di missioni speciali.
Una visita a Berlino sarà argomento da trattarsi a tempo debito e
quando le convenienze delle due Corti e dei due paesi
permetteranno».
— Telegrafo al principe di Bismarck:
«Le malheur qui frappe votre pays plonge aussi l'Italie dans le
deuil.
Quoique prévue et redoutée depuis long temps, cette fin tragiquement
simple et grandiose est un coup cruel pour nos souverains qui
perdent un ami éprouvé, pour la nation italienne qui voyait en
Frédéric III la personnification sympathique et vénérée de la
glorieuse nation allemande, sa fidèle alliée. Le Gouvernement du Roi
transmet, par mon entremise, à Votre Altesse et au Gouvernement
Impérial et Royal les expressions d'une douleur profonde et les
vœux les plus ardents pour la prospérité du nouveau Règne. Je
prie Votre Altesse de recevoir personnellement l'assurance de la
part très-sincère et très-large qui je prends à sa douleur. Il faut
toute la force d'âme dont Votre Altesse a donné tant de preuves pour
supporter avec fermeté des pertes si rapprochées et si
douleureuses.»
_16 giugno._ — Ricevo questa risposta:
«En ces temps de douleureuses épreuves que traverse l'Allemagne, les
paroles si sympathiques que Votre Excellence vient de me transmettre
et que j'ai fait connaitre aux membres du gouvernement Impérial, ont
apporté des consolations qui nous aident à supporter les grandes
douleurs qui depuis trois mois se sont appesanti sur l'Allemagne.
Les sentiments du noble peuple italien qui se confondent en ce
moment avec les nôtres dans le mêmes regrets et les mêmes
espérances, trouveront un écho reconnaissant dans tous les cœurs
allemandes; les condoléances que votre Excellence m'adresse
personnellement m'ont profondément touché. Elle voudra bien ne pas
en douter et croire à la sincérité de ma gratitude et de mon
affection.
DE BISMARCK.»
— Visita di Solms: Ringraziamenti per le parole pronunziate alla
Camera e al Senato per la morte dell'Imperatore Federico. Il Solms
fa gli elogi del nuovo Imperatore.
In conseguenza della rottura di relazioni dell'Italia col Sultano di
Zanzibar, il conte di Bismarck ha sospeso l'invio a quel Sultano
della decorazione decretatagli. Aspetterà l'accordo.
_17 giugno._ — L'ambasciatore Rascon mi partecipa la costituzione
del nuovo ministero spagnuolo. Moret ha il portafoglio dell'interno,
e il marchese de la Vega quello dell'estero. Il gabinetto ha un
colore più democratico.
_24 giugno._ — Visita di de Moüy: mi parla delle tasse a Massaua, e
gli rispondo sostenendo il nostro diritto, non vigendo più colà le
Capitolazioni pel fatto della nostra conquista. Sostenni questa tesi
col Gérard l'estate scorsa, a proposito del giudizio contro un
greco.
CAPITOLO NONO.
Un altro incidente franco-italiano.
La questione con la Francia per le tasse di Massaua: tre
Note diplomatiche di Crispi sui diritti dell'Italia e sulle
vessazioni francesi. — Le Potenze danno causa vinta
all'Italia. — Dal _Diario_ di Crispi: Spagna e Vaticano. —
Un allarme del re Luigi di Portogallo pel viaggio dei
Sovrani italiani in Romagna. — Seconda visita di Crispi al
principe di Bismarck. — Il Gran Cancelliere austriaco
incontra Crispi a Eger.
La questione accennata dal de Moüy e sollevata poi dal governo francese
per l'applicazione a Massaua delle tasse municipali a tutti i suoi
abitanti, italiani e stranieri, offrì un'altra prova della tendenza
della Francia a cercare pretesti di litigi coll'Italia.
Crispi fu accusato di essere un provocatore, di obbedire così agendo
alla volontà del principe di Bismarck che voleva la guerra, di dare alla
triplice alleanza un atteggiamento inquietante. Per molti anni la stampa
francese e quella parte della stampa italiana che le faceva eco, hanno
ricamato su cotesto tema, e si continua ancora in pubblicazioni
recentissime a dipingere un Crispi di maniera, arrogante, dalle passioni
autoritarie, precipitoso nei giudizi[22].
[22] Cfr. Comte CHARLES DE MOÜY, _Souvenirs et causeries d'un
diplomate_. Paris, librairie Plon, 1909. Pag. 256.
Quanta giustizia contenessero tali accuse, può rilevarsi dall'incidente
per le tasse di Massaua.
Il fatto che vi dette occasione e gli argomenti messi in campo dal
ministro Goblet, succeduto al Flourens, per contrastare l'esercizio
della sovranità dell'Italia su quella terra già bagnata da tanto sangue
italiano, si desumono dai documenti che riferiamo.
In tre Note, due del 25 e una del 31 luglio, dirette agli ambasciatori
per essere comunicate alle Cancellerie delle grandi Potenze, Crispi
combatteva le obiezioni francesi. Le riassumiamo:
«Il generale comandante superiore a Massaua, per sopperire in parte
alle spese d'igiene, illuminazione, ecc., ha imposto il 30 maggio
scorso, a tutti i proprietari di immobili e a tutti i commercianti
della città, nazionali e stranieri, una tassa variante da 2 a 7 lire
al mese. Un'altra ordinanza, data con lo stesso scopo il 1 giugno,
ha sottoposto ad una tassa di patente le rivendite di bibite, di
commestibili, ecc. Ventitrè commercianti, tra i quali, oltre due
francesi, uno svizzero e venti greci che nell'assenza di un console
della loro nazione godono della protezione del vice-console di
Francia, solo Agente straniero che vi sia a Massaua (tale è lo stato
delle cose da noi trovato al momento della nostra occupazione),
hanno rifiutato di pagare.
Il governo francese sostiene i loro reclami e ci contesta il diritto
d'imporre tasse sui suoi nazionali e protetti, invocando le
capitolazioni _esistenti a Massaua_.
Data e non concessa l'ipotesi dei nostri avversari, che a Massaua
vigano le capitolazioni, saremmo obbligati a non sottoporre ad una
tassa, di natura municipale, i soggetti e i protetti stranieri senza
il consenso dei loro governi?
Vediamo quello che avviene a questo proposito nelle antiche
provincie ottomane, sebbene esse si trovino giuridicamente in
condizioni ben diverse da Massaua, e anche nei paesi di
capitolazioni. Nella Bosnia-Erzegovina tutti i privilegi fiscali e
comunali in favore degli stranieri sono scomparsi al momento
dell'occupazione austro-ungarica. A Cipro la facoltà d'imporre tasse
sugli stranieri è limitata dai trattati di commercio con la Turchia
e non dalle capitolazioni. La Bulgaria, che ha ora creato i
municipii, ha dovuto imporre tasse comunali, contro le quali le
Potenze europee non hanno fatto obiezioni.
L'Egitto ha promulgato una legge che sottopone tutti gli stranieri
ad una tassa di patente, e sinora nessun governo ha fatto
rimostranze al Cairo. La Sublime Porta ha tentato di applicare
cotesta tassa di patente nel territorio dell'impero; i
rappresentanti delle grandi Potenze, pure riconoscendo la violazione
delle capitolazioni, non hanno fatto opposizioni di principio e si
sono limitati a volerne regolata l'applicazione. A Tunisi il
Municipio, creazione francese, percepisce le tasse.
Ma l'ipotesi che a Massaua vigano le capitolazioni non regge.
Innanzi tutto la Turchia non ha mai esercitato a Massaua un'autorità
incontestata, e i tribunali ottomani non vi hanno mai funzionato; ma
se pure vi fossero esistite, esse sono venute meno dopo
l'occupazione italiana. Allorquando una nazione cristiana amministra
un paese musulmano, le capitolazioni non hanno più ragion d'essere.
Le capitolazioni sono possibili quando tra due popoli, dei quali
l'uno si è stabilito nel territorio dell'altro per esercitarvi la
sua attività commerciale, esiste una grande differenza di religione,
di costumi, di leggi e di consuetudini. Senza garenzie eccezionali,
a cominciare dall'introduzione della giustizia nazionale, non vi
sarebbe per gli stranieri alcuna sicurezza nè per le persone, nè per
i beni. Or questa non è certamente la condizione delle cose a
Massaua dove un'amministrazione regolare, la quale presenta tutte le
desiderabili garenzie d'ordine e d'imparzialità, funziona da quasi
tre anni. Inoltre a Massaua abbiamo stabilito tasse di natura
fiscale, come quelle marittime, di porto, di dogana, che sono state
pagate da tutti indistintamente e senza reclami. Ed è avvenuto
questo fatto singolare, che i greci i quali ora, per pressioni e
istigazioni che non vogliamo qualificare, si rifiutano di pagare
tasse d'interesse locale, hanno tutti ricorso in questi ultimi tempi
alla giustizia italiana, ovvero ne hanno, senza obiezioni, accettato
le sentenze.
Non è, infine, inutile rilevare che il governo ellenico, prima di
essere stato dalla Francia attirato alla sua tesi, non aveva
invocato le capitolazioni, ma l'art. 2 del trattato di commercio del
1877 tra l'Italia e la Grecia, dove è stabilito che «i cittadini dei
due Stati saranno perfettamente assimilati ai nazionali nel
pagamento delle imposte». Le tasse in questione, colpendo egualmente
gl'italiani e i greci residenti in Massaua, la Grecia ha dovuto
ammettere il nostro diritto.
Abbiamo seguito i nostri avversarii sul terreno da loro stessi
scelto, e confutato i loro argomenti; ma la discussione è ormai
inutile per noi, giacchè la sovranità dell'Italia su Massaua è
effettiva e incontestabile.
L'Italia occupò Massaua il 5 febbraio 1885 in circostanze che
meritano di essere ricordate.
Dinanzi ai progressi minacciosi dell'insurrezione mahdista, l'Egitto
concentrava le sue forze e richiamava le guarnigioni lontane.
Massaua posta al di là della linea di difesa adottata dal governo
Kediviale, doveva essere evacuata. Invitata ad occuparla, la Turchia
si rifiutò, e con tale rifiuto rinunciava implicitamente ai diritti,
molto incerti del resto, che si era attribuiti su quel punto
importante del mar Rosso.
Massaua, così abbandonata, stava per essere esposta al doppio
pericolo di cadere in balìa dell'insurrezione mahdista o
nell'anarchia. Nell'interesse generale bisognava che una Potenza
occupasse quella città e la difendesse, occorrendo. L'Italia era
pronta; ella possedeva uno stabilimento coloniale non lontano di là,
che poteva essere a sua volta minacciato. Gli Stati amici vedevano
senza dispiacere e gelosia, anzi forse con soddisfazione, estendersi
la sua autorità sulle rive del mar Rosso. L'occupazione di Massaua
fu decisa....
L'Italia non solamente occupò Massaua quando, pel ritiro degli
egiziani e per l'abbandono della Porta, ogni autorità vi cessava, ma
cominciò subito a esercitarvi i diritti afferenti alla sovranità.
Dieci mesi non erano trascorsi che tutti i servizi pubblici si
trovavano nelle nostre mani e scomparivano le ultime tracce
dell'occupazione precedente.... L'occupazione di Massaua fu portata
alla conoscenza delle grandi Potenze da due telegrammi del 9 e del
13 febbraio 1885....
D'altronde i reclami non ci vengono dalla Turchia, la quale, dopo
aver fatto per un momento delle riserve, si adattò al fatto
compiuto. Non vogliamo citare di questo altra prova che il testo,
emendato dalla Porta, della Convenzione pel Canale di Suez dove,
all'art. 10, è riconosciuto che la Turchia non ha nel mar Rosso
altre possessioni che sulla costa orientale.
Le obiezioni, ci vengono, come sempre, dalla Francia, che ha saputo
attrarre la Grecia nell'orbita dei suoi reclami, dalla Francia, alla
quale i progressi pacifici della nazione italiana sembrano una
diminuzione della sua propria potenza ed autorità, come se il
continente africano non offrisse sufficiente posto all'attività e
alla legittima ambizione civilizzatrice di tutte le Potenze che ne
occupano i confini.
_31 luglio._ — Col dispaccio che ho indirizzato a V. E. il 13
corrente, e cogli altri due successivi del giorno 25, dei quali l'ho
autorizzata a dar lettura e lasciar copia a codesto ministro degli
affari esteri, parmi aver dimostrato all'evidenza il buon diritto
dell'Italia su Massaua, e come la Francia, senza alcun plausibile
motivo, avesse tentato di sollevare contro noi la questione delle
capitolazioni, le quali in quel territorio posseduto da Potenza
cristiana e civile non possono essere invocate.
Rimane ora a far conoscere quale sia stato costantemente il contegno
degli agenti francesi a Massaua fino dai primi giorni della nostra
occupazione, poichè è da quel contegno che si originarono le
presenti difficoltà.
Gioverà premettere che la Francia è la sola Potenza che mantenga una
rappresentanza a Massaua, benchè non abbia colà interessi
commerciali, e solo due sudditi francesi vi si trovino da pochi mesi
esercitandovi il piccolo commercio.
La sua rappresentanza non ha dunque evidentemente che uno scopo
politico. Vuolsi che essa si colleghi ad una missione di lazzaristi
residenti in Abissinia, ma il contegno dei suoi agenti lascia pur
troppo supporre che ben diverso e più vasto ne sia l'obbiettivo.
Al momento della nostra occupazione noi non abbiamo trovato a
Massaua alcun agente consolare francese, e solo otto mesi dopo, e
propriamente il 20 ottobre 1885, quando gli egiziani, abbandonando
quella località, ce ne lasciavano il pieno dominio, giunse colà un
signor Soumagne, il quale si disse vice-console di Francia.
Scambiate le visite colle nostre autorità, più che di mantenere con
esse quei rapporti di cordiale amicizia che avrebbero dovuto essere
scopo precipuo della sua presenza a Massaua, pare egli si
preoccupasse di stringere legami coll'Abissinia. Lo vediamo infatti
recarsi nella primavera seguente ad Adigrat, dove si incontra con
Ras Alula, e pochi mesi dopo, nell'agosto del 1886, ad Adua per
ossequiarvi il re Giovanni.
E de' suoi intimi rapporti col Negus egli stesso teneva discorso col
Comandante superiore delle nostre truppe, al quale confessava di
aver proposto al Re di stringere colla Francia formale trattato; del
quale trattato la clausola più importante, come si venne poi a
conoscere da altra fonte, sarebbe stata la protezione della Francia,
accordata all'Abissinia contro qualsiasi Potenza.
Questi segreti rapporti e maneggi del rappresentante di Francia col
Negus e con Ras Alula autorizzarono il sospetto che egli intrigasse
contro di noi, sicchè quando per motivi di salute, ottenuto un
congedo, lasciava Massaua, nel marzo del 1887, quelle autorità
ebbero a rallegrarsene come dell'allontanamento di persona non
amica.
Ma pur troppo dalla sua non dissimile doveva essere la condotta del
suo successore, certo signor Mercinier, commesso del consolato
francese in Alessandria, che il signor Soumagne prima di partire
presentava al Comandante in capo come incaricato di reggere
provvisoriamente il vice-consolato di Francia.
Anzi da quell'epoca ebbe principio una serie non interrotta di
reclami e di difficoltà sollevate dal nuovo rappresentante francese,
il quale non perdeva occasione di ingerirsi inconsultamente anche
negli affari che non lo riguardavano. Così egli teneva nel suo
ufficio un registro aperto a tutti coloro che volevano farsi
inscrivere tra i protetti, ed aveva rilasciato patenti di
protezione, non solo a Greci, ma anche a Persiani, Turchi, Svizzeri
e perfino ad un cittadino nord-americano, e quella protezione pareva
accordasse più segnatamente a tutti coloro che avevano relazioni coi
nostri nemici.
Inutile qui far menzione dei reclami e delle proteste elevate
sistematicamente dal signor Mercinier contro pressochè tutti i
provvedimenti adottati dalle autorità italiane di Massaua, fino a
minacciare che userebbe la forza contro le nostre autorità e ad
istigare alla resistenza ed all'aperta ribellione, come ha fatto
ultimamente in occasione delle tasse municipali alle quali erano
stati sottoposti tutti, senza distinzione di nazionalità, gli
abitanti del paese. Inutile pure far parole degli abusi di autorità
da lui commessi, abusi che giunsero fino a minacciare d'infliggere
multe ed anche di espellere da Massaua coloro fra i protetti che non
avessero obbedito ai suoi ordini ed avessero pagate le tasse
suddette.
Questo contegno continuamente ed apertamente ostile degli agenti
francesi, e la necessità di mantenere l'ordine in una piazza forte
ed in un territorio dove vige tuttora lo stato di guerra, in faccia
ad indigeni che dobbiamo amministrare ed a stranieri che vi
frequentano, ci hanno costretti a non tollerare più oltre il signor
Mercinier nella assunta sua qualità di reggente il vice-consolato di
Francia. Non potendo esser questione di ritirare l'_exequatur_ a un
funzionario il quale provvisoriamente suppliva ad un vice-console
che non ne era munito dal regio governo, il generale Baldissera
dovette naturalmente limitarsi a fargli noto (il 23 luglio) che non
avrebbe più avuto relazioni con lui.
Appena occorre, poi, avvertire che al signor Mercinier, tornato così
privato cittadino, non poteva essere consentito di corrispondere in
cifra col suo governo, questo metodo di corrispondenza essendo
vietato a Massaua a qualsiasi privato.
Ho stimato opportuno d'informare di questi fatti V. E., affinchè ne
possa trarre norma di linguaggio nelle sue eventuali conversazioni,
su tale argomento, con codesto ministro degli Affari esteri.»
È naturale che il ministro Goblet[23] non si arrendesse alle
argomentazioni del governo italiano e che sull'on. Crispi si rovesciasse
l'ira della stampa francese. Ma Crispi fu inflessibile. Aggredito,
difese la posizione senza eccessi verbali, ma energicamente. Portò la
contesa dinanzi alle Cancellerie europee; dimostrò che la Francia
sosteneva una tesi sbagliata e che, non questioni di principio o di
dignità la movevano, ma bensì il dispetto per lo spirito d'indipendenza
che animava la politica italiana.
[23] Nel citato volume, a pagg. 257-258, il conte de Moüy fa questo
ritratto del Goblet: «L'accession de M. Goblet au Ministère des
Affaires étrangères avait soulevé dans les journaux français des
objections sérieuses: on disait avec raison que cet homme politique,
estimé d'ailleurs, orateur disert, logicien exercé, était mal
préparé, par son caractère raide et irascible, au maniement des
choses diplomatiques qu'il traitait pour la première fois: on lui
reprochait ses opinions anguleuses et son style peu engageant. Je
n'étais pas, à cet égard, sans quelque souci, et je regrettais
l'éloignement de M. Flourens dont j'appréciais vivement la
connaissance parfaite de notre situation délicate à Rome, la douceur
et l'abile sagesse.» _(N. d. C.)_
Come risulta dai documenti che seguono, l'Europa dette ragione a Crispi,
il quale, dopo ottenuto tale consenso, chiuse la vertenza dichiarando
che non avrebbe più risposto al signor Goblet.
«Parigi, 25 luglio 88.
Oggi Goblet si lamentò con me perchè V. E. non aveva potuto ricevere
ancora il signor Gérard e perchè il comandante militare di Massaua
aveva dichiarato al signor Mercinier di cessare di considerarlo come
rappresentante della Francia, non essendo egli provveduto d'alcun
_exequatur_ regolare. Mi parve venuto il momento di dare al signor
Goblet conoscenza della sostanza dei due ultimi telegrammi di V. E.
relativi all'incidente di Massaua, ma le buone ragioni svolte
dall'E. V. non valsero a rimuovere Goblet dalle sue prime idee. Egli
persiste ad invocare le capitolazioni che noi non riconosciamo, ed a
pretendere che ogni atto coattivo per far pagare la tassa doveva
cessare dopo la protesta inoltrata contro la medesima; mentre noi
riteniamo che anzitutto si doveva obbedire alle autorità
governative, salvo ad esaminare dopo le proteste. Goblet si animava
sempre più, mentre io prontamente dichiarava che, visto assoluta
divergenza sui due punti capitali anzi accennati, io non poteva
continuare la discussione, che avrebbe finito per sviare. Goblet fra
altre cose mi disse che la Francia era disposta condiscendere ai
nostri desideri in cambio di qualche concessione per parte nostra.
Non mi disse quale, ma suppongo che alludesse alla Tunisia, giacchè
questo ambasciatore d'Austria-Ungheria che aveva avuto una
conversazione in proposito, mi disse riservatamente che Goblet aveva
nel suo discorso, parlando di Massaua, fatto anche allusione alla
Tunisia.
Mi si assicura che a questo Ministero degli Affari esteri si è
alquanto preoccupati del contegno della Grecia, dalla quale da più
giorni non si hanno comunicazioni....
MENABREA.»
«Londra, 26 luglio.
Salisbury m'ha detto aver già dichiarato all'ambasciatore di Francia
e quindi all'ambasciatore di Germania, che, secondo il governo
inglese, allorquando un paese musulmano è amministrato da una
nazione cristiana civile, le capitolazioni non hanno più ragione
d'essere. Avendo proposto a Salisbury di firmare sul momento un
documento analogo a quello tra l'Inghilterra e l'Austria-Ungheria,
Sua Signoria mi manifestò la fiducia che l'E. V. sarebbe senz'altro
soddisfatta della dichiarazione chiara ed esplicita che mi aveva
fatto.
CATALANI.»
_Lettera di lord Salisbury al comm. Catalani, del 29 luglio 1883:_
«Ella mi chiese l'opinione del governo della Regina rispetto
l'obbligo delle capitolazioni nei territori i quali, come Massaua,
sono stati sotto un'amministrazione musulmana, ma che più non vi
sono sottoposti. La mia risposta è la seguente. L'opinione del
governo della Regina è contraria alla validità delle capitolazioni
in tal caso. Le capitolazioni debbono la loro origine alla
difficoltà di adattare le singolarità della legge e
dell'amministrazione musulmana ai negozianti che fanno il commercio
coi paesi cristiani; quindi nei territori che sono giunti ad esser
sottoposti all'amministrazione di un governo cristiano, come quello
d'Italia, le capitolazioni cessano d'essere applicabili e perdono la
ragione d'essere.»
«Roma, 1 agosto.
_A S. E. il Cav. Nigra_,
Signor Ambasciatore, V. E. mi ha fatto conoscere che S. E. il conte
Kálnoky, in risposta alla domanda che gli ha indirizzata in nome del
governo del Re, ha dichiarato che il governo I. e R. Austro-Ungarico
ritiene le capitolazioni inapplicabili a Massaua e che per
conseguenza i sudditi austro-ungarici dovranno sottomettersi alla
legislazione ivi vigente.
Invito V. E. a informare il governo I. e R. Austro-Ungarico che il
governo del Re prende atto di codesta dichiarazione, e la prego di
volerne ringraziare S. E. il conte Kálnoky.
CRISPI.»
Infine, i tentativi fatti dalla Francia per indurre la Turchia a
protestare contro l'Italia, fallirono. Il signor di Radowitz telegrafava
il 6 agosto aver l'impressione che la Porta non si sarebbe fatta
influenzare dalla Francia, e che egli aveva dichiarato al Sultano che se
avesse servito la politica della Francia e della Russia, non poteva
nello stesso tempo rimanere amico dalla Triplice.
Dal _Diario_:
_11 luglio._ — Visita del conte Solms: questione dei passaporti per
i missionari in Cina. La Germania segue la nostra politica. Ha
prevenuto il governo del Celeste Impero affinchè non permetta che i
cattolici tedeschi vi siano ricevuti con passaporti non tedeschi.
Durante la visita delle squadre a Barcellona, fu tenuto un
banchetto, al quale intervennero l'ambasciatore d'Italia, Tornielli,
e l'ambasciatore di Francia, Cambon. Facendo un brindisi, il
ministro spagnuolo non ricordò la Francia. Si alzò il Tornielli e
riparò all'omissione. Dopo questo brindisi avvenne il
riavvicinamento delle squadre italiana e francese.
_28 luglio._ — Solms: esprime la speranza che la questione con lo
Zanzibar sia risoluta amichevolmente. La Germania non fa obbiezioni
che l'Italia acquisti colà dei terreni. Ricordo il contegno seguito
dal Cecchi, le scuse del Sultano, e manifesto la speranza di un
amichevole componimento.
Massaua. La Germania compromessa nella questione di diritto, avendo
sostenuto la tesi contraria alla nostra. Pronta a rinunziare alle
capitolazioni, finchè gl'italiani siano a Massaua.
_3 agosto._ — L'ambasciatore a Madrid, conte Tornielli, ha conferito
col ministro de la Vega de Armijo sulla Circolare Rampolla relativa
alla cosidetta Conciliazione tra l'Italia e il Vaticano. «Appena il
Nunzio Mons. di Pietro entrò nell'argomento lo interruppi — gli ha
riferito il Ministro — dicendogli:
«Non venga, M.gre, a parlarmi della necessità in cui si troverà il
Papa di andar via da Roma. Vi sono due cose ugualmente impossibili,
la partenza del Papa dal Vaticano e la sortita degli Italiani dalla
loro Capitale. Gl'incidenti che possono creare qualche difficoltà,
non renderanno mai possibili le cose impossibili. Miglior consiglio
sarebbe acconciarsi in pace ai fatti compiuti.» Poi, soggiunsemi il
M.se de la Vega de Armijo, la conversazione fu da lui portata sovra
le provocazioni che negli ultimi tempi non erano mancate per parte
della Santa Sede e che doveano necessariamente aver prodotto qualche
risentimento nell'opinione pubblica in Italia. Prima di lagnarsi
della sua situazione, la Santa Sede avrebbe dovuto evitarsi il
rimprovero di aver eccitato il clero alla resistenza circa
l'applicazione della legge sulle decime, e nella sua condotta
politica il Vaticano avrebbe potuto evitare il dispetto provato
dell'amicizia intima stabilitasi fra l'Italia e la Germania. Pare
che il Nunzio, il quale in verità non suole mettere insistenza molta
in siffatte comunicazioni, lasciasse tosto cadere il discorso e che
più non abbia tentato di ripigliarlo in altro giorno.
_6 agosto._ — Solms mi comunica che il console tedesco a Zanzibar ha
annunziato essere quel Sultano pronto a recarsi al Consolato
italiano ed anche a bordo dell'_Archimede_ per offrire le sue scuse
al governo italiano. Avverto il Conte che l'affare sta per essere
composto.
_8 agosto._ — Solms mi legge un telegramma di ier sera del principe
di Bismarck. Il Principe accoglierà con gioia una mia visita a
Friedrichsruh. Egli non può muoversi da quella sua residenza, e
quest'anno non potrebbe recarsi a Kissingen.
Mi legge un dispaccio della Cancelleria sulla visita dell'imperatore
Guglielmo a Peterhof. La visita avrebbe tolto ogni dubbio e resa più
cordiale ed intima l'amicizia dei due Sovrani. Non si sarebbe
parlato di politica, ma confermata l'opinione che la pace sarà
conservata. L'imperatore Guglielmo ritornò soddisfatto della visita.
Alla vigilia del viaggio dei Sovrani italiani in Romagna, dove non si
erano mai recati pel pregiudizio che quella regione fosse pericolosa e
inospitale per i principii repubblicani che vi erano largamente diffusi,
l'on. Crispi, che quel viaggio aveva consigliato sfidando gli asseriti
pericoli, ebbe dal re Luigi di Portogallo, padre dell'infelice re Carlo,
l'avviso che un attentato anarchico minacciava la vita di Umberto:
«Berlino, 12/8/88.
Ho visto or ora il Re di Portogallo che aveva premura incontrarsi
con me, per dirmi sapere egli da «fonte certa che in occasione del
prossimo viaggio del nostro augusto sovrano nelle Romagne si stava
preparando un attentato a Bologna o altrove.» Profittando del
momento in cui la folla circonderebbe gli equipaggi reali, i
congiurati farebbero risuonare in mezzo alle acclamazioni il «viva
la repubblica, abbasso il Re» e farebbero uso del revolver contro S.
M. Sarebbe in qualche modo un'edizione riveduta e corretta, e meglio
calcolata dell'attentato di Passanante a Napoli. Chiesi al Re di
Portogallo se era in grado di fornirmi particolari ancora più
precisi e sopratutto di dirmi onde gli era venuto un simile avviso.
S. M., senza spiegarsi altrimenti, ripetevami tenere la cosa da
«fonte certa», aggiungendo che si doveva comprendere il suo vivo
desiderio che l'avvertimento ne fosse dato a chi di ragione. Il Re
era assai commosso nel parlarmi. Io non lo sono meno nel comunicare
quanto precede a V. E. come ho promesso di farlo, affinchè tutte le
precauzioni siano prese a tempo per scongiurare il complotto e
preservare una esistenza altrettanto preziosa quanto necessaria per
l'Italia.
LAUNAY».
«13/8/88.
_Launay, ambasciatore d'Italia_,
Berlino.
Re Luigi avrebbe fatto cosa utile se invece di parlare dei modi con
cui il complotto dovrebbe effettuarsi, avesse rivelato la «fonte
certa» donde gli venne la notizia. Il mistero nel quale si è avvolto
mette il dubbio negli animi, ma non dà le fila per giungere alla
scoperta del supposto reato.
Il governo ha già preso tutte le precauzioni perchè tutto proceda
regolarmente.
CRISPI.»
«Berlino, 13/8/88.
Re di Portogallo, cui feci oggi di nuovo visita per ottenere
maggiori schiarimenti, mi disse di non poterne dare essendo legato
dal vincolo del secreto da chi teneva le notizie del complotto; ma
che nel nostro primo incontro aveva già dato tutti i ragguagli, tali
quali li aveva saputi da persona meritevole di ogni fede.
Quella persona gli riferì quanto venne a sua conoscenza dopo aver
preso lettura di lettere indirizzate forse da Parigi da capi
socialisti a comitati rivoluzionari delle Romagne. S. M. ebbe in
altre circostanze e dalla stessa persona avvisi preventivi sopra
movimenti che si preparavano in Spagna e che si verificarono
esattamente. Il Re Don Luigi ha aggiunto che la fonte può dunque
dirsi sicura e che egli adempiva affettuoso dovere nel dare
quell'avvertimento.
LAUNAY.»
«13/8/88.
_Conte Nigra ambasciatore d'Italia_,
Vienna.
_(Personale riservato)._ — Il Re di Portogallo parlò misteriosamente
a Launay a Berlino di una cospirazione contro la vita del nostro
augusto sovrano che si spiegherebbe in Bologna od in altra città in
occasione delle prossime manovre militari nelle Romagne.
Ho ragione di credere e i miei agenti me lo confermano, che nulla
abbia a temersi per la nostra gloriosa e patriottica dinastia.
Prego in ogni modo V. E. voler avvicinare Re Luigi e stringerlo a
rivelarci la fonte dalla quale ebbe la notizia, cosicchè io possa
giudicare della sua attendibilità, e fare le necessarie indagini per
giungere anche, ove ne sia il caso, a scoprirne gli autori.
Il silenzio da parte di S. M. Portoghese non sarebbe scusabile.
Poichè ha gettato il dubbio nell'anima nostra, ci apra la porta alla
scoperta della verità.
CRISPI.»
«Vienna, 13/8/88.
_(Confidenziale-riservatissimo)._ — Il Re di Portogallo deve essere
in Vienna soltanto il 18 corrente. Mi troverò alla stazione,
domanderò udienza e farò a Sua Maestà Fedelissima la commissione di
cui V. E. mi ha incaricato. Intanto V. E. prenderà senza fallo ogni
debita precauzione, ma deve sapere che il Re Luigi è pieno di
misteri che spesso non esistono.
NIGRA.»
«13/8/88.
_R. Ambasciata Italiana_,
Parigi.
Per rivelazioni di un alto personaggio sappiamo essersi combinato da
alcuni socialisti francesi, d'accordo con quelli delle Romagne, un
complotto contro la vita del Re in occasione delle prossime manovre
militari e della visita reale in alcune città di quelle provincie.
Siccome le cose inverosimili sono anch'esse possibili, la incarico a
fare per mezzo dei nostri agenti le indagini opportune per scoprire
l'attendibilità di tale notizia.
Le nostre relazioni colla Francia non permettendoci di ricorrere a
cotesta polizia, anzi potendo questa esserci nemica, voglia Ella
servirsi di mezzi interamente italiani nella delicata missione.
M'informi di tutto.
CRISPI.»
«Vienna, 21/8/88.
Ho chiesto al Re di Portogallo d'indicarmi le fonti e i particolari
della cospirazione di cui parlò a Launay. S. M. mi disse che non
poteva svelare quella sorgente che al nostro Re in persona e che S.
M. la Regina Maria Pia aveva scritto tutto al suo augusto fratello.
Benchè io abbia vivamente insistito, non ho potuto ottenere dal Re
Luigi altra notizia che quella che la sorgente procede dai
socialisti di Ginevra e Zurigo.
NIGRA.»
_14 agosto._ — Solms mi dà notizia di un colloquio che il signor
Raindre, Incaricato d'affari di Francia a Berlino, ha avuto col
conte di Bismarck.
Il signor Raindre si è lagnato della diffidenza mostrata dal signor
Crispi verso la Francia pei suoi reclami contro le tasse municipali
in Massaua. La Francia non vuole suscitare ostacoli, ma desidera
soltanto di veder sciogliere una questione di principii.
Il Bismarck difese la condotta del governo italiano e diede ragione
della sua diffidenza. Invocò la calma e pregò il governo francese di
non ingrossare una questione che per sè stessa era piccola e di poca
importanza. Soggiunse che aveva raccomandato la calma anche a Roma.
Il signor Raindre soggiunse che il governo francese era pronto a
riconoscere le pretese dell'Italia su Massaua; chiedeva, però, che
in corrispettivo l'Italia cedesse i suoi diritti su Tunisi.
Il Conte rispose che non potevano confondersi le due questioni, non
essendo identiche le posizioni dei due governi a Tunisi ed a
Massaua. Non identiche perchè a Tunisi v'è ancora un Sovrano
musulmano, e perchè la Tunisia è un gran territorio, mentre Massaua
è una piccola terra. Concluse, rinnovando consigli di prudenza e
avvertendo che se sorgesse un vero dissidio la Germania sarebbe
costretta a mettersi dal lato dell'Italia.
Il Raindre ricordò che le piccole questioni surte sulla frontiera
tedesca furono facilmente risolute dalle due Potenze. Se l'Italia
usasse la stessa condiscendenza della Germania, potrebbero
amichevolmente risolversi le questioni tra essa e la Francia. Al che
il Bismarck obbiettò che la questione di Firenze e altre di minore
importanza erano state composte.
Il conte Solms mi conferma che Kálnoky accetta il principio che le
Capitolazioni non possono essere applicate a Massaua e che
gl'italiani hanno diritto ad esercitarvi la loro giurisdizione.
Salisbury avrebbe scritto all'Incaricato d'Affari della Gran
Brettagna in Atene che consigli il gabinetto greco a non insistere
nella sua attitudine e ad accettare per le Capitolazioni a Massaua
il parere del gabinetto britannico.
Il direttore del Ministero degli affari esteri di Francia, signor
Charmes, avrebbe detto a Münster che la Francia vedrebbe di buon
occhio che l'Italia occupi Tripoli. L'ambasciatore di Germania
avrebbe risposto che la Francia dà quello che non è suo e permette
agli italiani ciò che non può proibire.
_16 agosto._ — Il signor de Meyendorf mi legge una Nota del signor
Giers in data del 9 agosto (28 luglio, stile russo).
Il sig. Giers ha ricevuto le due Note italiane del 25 luglio. Sulla
questione delle Capitolazioni non ha da pronunziarsi. Egli non
contrasta che l'amministrazione italiana sia migliore della
musulmana. Non crede però che le Capitolazioni siano venute meno pel
fatto solo della occupazione italiana in Massaua. Il signor Giers
ricorda che al 1885 Mancini dichiarò alle Potenze che l'Italia era
andata in quel territorio a scopo d'ordine e di sicurezza e per
salvarlo dai mahdisti.
_17 agosto 1888._ — Alle 9,45 partenza da Roma.
_18 agosto._ — Arrivo alle 7,40 pom. a Sant'Anna di Valdieri per
conferire col Re che mi attende sulla terrazza della Casina Reale.
Si va a pranzo, quindi dalle 9,40 alle 11 e un quarto il Re mi dà
udienza.
_19 agosto._ — Mi alzo alle 4,30; non è ancora l'alba. Fo toletta,
esco e non trovo anima viva. Il cielo è di un puro azzurro. Alle 7
il Re scende sulla terrazza; alle 7,15 ant. riparto. Giungo alle
8,40 a Cuneo. La città è migliorata di molto dal 1849, l'ultima
volta che la visitai.
Giungo a mezzogiorno a Torino; alle 5,30 a Milano; alle 8,15
partenza pel Gottardo.
_20 agosto._ — Alle 8,30 del mattino a Basilea; alle 4 pom. a
Francoforte sul Meno.
_21 agosto._ — Alle 9,5 ant. da Francoforte, per Hannover a
Friedrichsruh. A Büchen si trova l'espresso, al quale viene
attaccato il mio vagone.
Alle 9,30 si giunge a Friedrichsruh. Gli urrah annunziano che il
Principe è alla stazione ad attendermi. Scendo, gli dò il braccio e
saliamo nella vettura che ci trasporta in pochi momenti
all'abitazione del Principe. La molta gente raccolta ci accompagna
con applausi e grida «Viva l'Italia».
La principessa è ai bagni di Homburg. Fa gli onori di casa la
contessa di Rantzau, figlia del Principe, insieme al marito. I tre
bambini Rantzau ci danno il benvenuto in italiano.
Si prende il thè, quindi si vanno a vedere i fuochi d'artifizio
preparati in mio onore[24]. Si ritorna in salotto a conversare. Si
parla della guerra del 1870, del trattato di pace, di Nizza, di
Garibaldi, dell'imperatrice Eugenia. Il pericolo della restaurazione
dell'Impero affrettò la firma del trattato. Thiers fu minacciato e
il piccolo Lulù sarebbe rientrato a Parigi alla testa dei
duecentomila uomini prigionieri della Germania.
[24] I fuochi erano preparati al di là del cancello che chiudeva la
proprietà Bismarck. Il Principe, recandosi in mezzo alla folla
plaudente venuta in gran parte da Amburgo, la invitò a gridare «Viva
Crispi». La folla ripetè tre volte l'acclamazione, stando il
Principe a capo scoperto. _(N. d. C.)_
Alle 11 e un quarto andiamo a coricarci.
_22 agosto._ — Sono in piedi alle 6 e mezza. Alle 11 e un quarto il
Principe viene nella mia camera. Ha con sè parecchi documenti.
Impegna subito il discorso su Massaua, e spiegando una carta chiede
di conoscere il luogo dove avvenne l'ultimo fatto d'armi. Egli
desidererebbe che l'Italia non s'impegnasse molto in quelle
località, ma si limitasse ai punti fortificati. Dò notizie del fatto
di Saganeiti, ed egli conviene che non sia stato menomato il
prestigio delle nostre armi. Dice che anche l'Austria teme che ci
compromettiamo in Africa.
Inghilterra: necessità di tenercela amica. Anch'essa però ha bisogno
di migliorare i suoi armamenti per terra e per mare.
Per lo Zanzibar si conchiude che scriverà a Londra perchè Salisbury
sciolga lui la questione, o ci lasci le mani libere.
Turchia. Convenienza di non distrarre da noi il Sultano e di
trattarlo benevolmente.
Ritorna al suo antico concetto che la Russia in Costantinopoli
sarebbe più debole. Nei Balcani sarebbe attaccabile e potrebbe
esservi schiacciata. Non sarebbe lo stesso entro le attuali
frontiere.
Francia. Boulanger. Non teme la guerra, ma preferisce la pace.
Papa. Chiesa cattolica e Chiesa ortodossa. La guerra all'Italia
gioverebbe a quest'ultima. Partenza del Papa da Roma: andrebbe
temporaneamente in un convento della Svizzera. Cardinale Schiaffini.
Agenzie telegrafiche.
Gli ultimi giorni dell'imperatore Federico — uomo debole — si
lasciava dominare dalla moglie, la quale subiva alla sua volta il
dominio della madre: voleva britannizzare tutto. Un giorno ragionava
coll'Imperatore; eran d'accordo. Giunge la moglie; si manifesta di
contrario avviso; S. M. volta la testa.
Alle 9 di sera, dopo pranzo, circolo. Vari aneddoti: la guerra del
'66 — l'Italia debole — il Re vuole andare a Vienna, poscia in
Ungheria: Bismarck si oppone. Questioni e rimproveri. Egli non volle
prendere provincie all'Austria, perchè non volle umiliarla. Nè
umiliata in Italia, grazie a Napoleone III, nè umiliata in Germania,
grazie a Bismarck.
_23 agosto._ — Alle 8,30 il Principe viene a visitarmi. Mi annunzia
di aver telegrafato a Londra; teme che lord Salisbury non vi sia.
Parliamo nuovamente dello Zanzibar. Gli manifesto che farebbe buona
impressione in Italia se egli accompagnasse a Roma l'Imperatore.
Risponde esponendomi le ragioni che si opponevano al suo viaggio.
«Se l'Imperatore mi volesse, andrei con lui; ma bisogna che lui mi
domandi. Sarei andato in Russia; egli non lo chiese. In verità, il
giovane Imperatore se la fa meglio con Herbert».
Alle 9,15 il colloquio ha termine.
Ci disponiamo alla partenza. Commiato cordialissimo. Il Principe, la
figlia, il genero, i bimbi, sono tutti dinanzi alla casa, dove mi
attende la vettura. «Arrivederci l'anno venturo». Si parte alle
9,30.
Alle 5,40 pom. siamo a Lipsia.
_24 agosto._ — Da Lipsia alle 8,40 per Dresda a Karlsbad.
«Vienna, 21 agosto 1888.
Kálnoky ha espresso più di una volta il desiderio di incontrarsi con
V. E. Declinare questo desiderio non mi sembra conveniente. Ad ogni
modo se Ella non crede utile il convegno, voglia incaricarmi di
dirne qualche motivo a Kálnoky.
NIGRA.»
«Vienna, 23 agosto 1888.
Kálnoky crede Karlsbad pericoloso perchè vi sono troppe conoscenze.
Propone a V. E. convegno a Eger, che è vicino e là attenderebbe
sabato 25 dalle 7 del mattino per tutta la giornata all'albergo
Wenzel. È urgente che V. E. mandi risposta subito.
NIGRA.»
«Lipsia, 23 agosto.
_Conte Nigra, Ambasciatore d'Italia_,
Vienna.
Karlsbad vale Eger. Dovunque avvenga il convegno sarà certamente
subito conosciuto. Comunque sia, accetto proposta. Mi fermerò sabato
25 a Eger e scenderò albergo Wenzel.
CRISPI.»
«Wittenberga, 23 agosto,
_A Sua Maestà il Re_,
Milano.
Ritorno da Friedrichsruh dove sono rimasto dalla sera del 21 sino
alle 9 di stamane. Il Principe mi ha incaricato dei suoi omaggi per
V. M. Bismarck ed io siamo stati d'accordo in tutte le questioni. Ho
trovato in lui non solo il primo ministro di un potente e sicuro
alleato di V. M., ma un amico nostro fedele e devoto. Sempre agli
ordini di V. M.
_Crispi._»
_24 agosto._ — Rispondendo ai miei ringraziamenti per l'accoglienza
fattami, il principe di Bismarck mi telegrafa per confermarmi «les
sentiments d'amitié personnelle et politique pour vous et pour la
grande nation dont le gouvernement vous est confié par la haute
sagesse de votre souverain et dont l'alliance avec nous donne une
des garanties les plus solides de la paix de l'Europe».
_25 agosto._ — Partenza da Karlsbad alle 8,30 ant. Arrivo ad Eger
alle 10,10. Alla stazione il Cancelliere austro-ungarico conte
Kálnoky cortesemente mi attende. Andiamo all'hôtel Wenzel dove ci
tratteniamo a conferire su tutte le questioni del giorno. Bulgaria,
Tunisia. Turchia; situazione finanziaria di essa, che la tiene sotto
tutela. Il Sultano, fra i due gruppi se la cava; sua abilità.
Russia: ha la stessa opinione di Bismarck che s'indebolirebbe se
andasse a Costantinopoli. Al 1877 non poteva più continuare la
guerra. Difficile ricostruire la flotta nel mar Nero; deficienza di
personale. Condizioni interne deplorevoli: in Russia tutti rubano.
Il re di Grecia si dichiarò anti-russo; è il suo interesse, non è la
politica del suo governo. Tricupis liberale; educato alle idee
inglesi.
Germania: l'Alsazia si germanizzerà; non così la Lorena; gli
alsaziani in Francia. Danni alle fabbriche ed ai commerci. L'ultima
legge draconiana, ma necessaria. Manteuffel li trattava bene, ma in
18 anni non si è riusciti a germanizzarli, e si è dovuto cangiar
metodo — L'imperatore Federico debole di carattere.
Difficoltà di governo in Austria in conseguenza delle diverse
nazionalità. Confederazione. Due milioni di rumeni — La Rumania non
russa; il partito d'opposizione si atteggia a russofilo, ma
giungendo al potere opererebbe con spirito nazionale — Re Milano
intelligente. Kálnoky gli ha consigliato di pacificarsi con la
moglie. Forse il Concistoro non ammetterà il divorzio; se
l'ammettesse, molte le questioni. Natalia dovrebbe prendere
l'iniziativa.
Necessità della nostra unione. Beneficio di essa nelle quistioni
europee — Il Papa: querimonie; Galimberti — Nel 1849 l'Austria era
disposta a cedere la Lombardia a Carlo Alberto, prima della
battaglia di Custoza, ma non la Venezia, perchè riteneva che essa
avrebbe trascinata la Dalmazia, dove lingua e tradizioni sono
italiane.
Alle 2,45 pom. dopo cordiale commiato da Kálnoky, riparto per
l'Italia.
Lungo la via, da Ratisbona, spedisco il seguente telegramma al Re:
«Ho passato quattro ore ad Eger col conte Kálnoky venuto
appositamente da Vienna, e sono assai soddisfatto del colloquio
avuto. Sempre agli ordini, ecc.
CRISPI».
_26 agosto._ — Alle 3,45 pom. a Milano; alle 6,30 a Monza dal Re,
cui fo relazione dei colloqui con Bismarck e Kálnoky; quindi di
nuovo a Milano.
_28 agosto._ — Telegrafo all'ambasciatore a Berlino:
«Parlai col Principe della necessità di associare le Agenzie
telegrafiche italiana, germanica ed austriaca allo scopo di
stabilire un servizio in tutta Europa. Il Principe accolse l'idea
con entusiasmo. Ho parlato oggi a Nigra perchè si adoperi in Vienna
a fare riuscire tale associazione. Egli pure riguarda l'attuazione
del progetto come altamente desiderabile e non mancherà di fare
quanto occorre. Sarà però bene che il Principe avvisi il principe di
Reuss acciocchè questi cooperi con Nigra al successo di questo
affare».
La stampa germanica e austriaca rilevò l'importanza della visita
dell'on. Crispi a Friedrichsruh. Meritano speciale menzione le
considerazioni fatte dalla _National Zeitung_ nel suo numero del 23
agosto. Dopo aver constatato che Crispi si era recato a visitare di
nuovo il principe di Bismarck prima che il termine di un anno dalla
prima visita fosse spirato, l'articolo esprimeva l'avviso che fra le tre
Potenze alleate, l'Italia si trovava allora nella posizione più esposta.
“L'Austria ha da fare con una potenza la cui politica estera è diretta
da diplomatici di carriera che non si lasciano troppo sopraffare dalle
passioni popolari e che danno fondate speranze di saper tutelare gli
interessi dell'Impero degli Czar senza trascurare i necessari riguardi
verso gli interessi vitali del paese vicino. In Francia il governo
trovasi, invece, in mano di uomini come Floquet e Goblet, il cui sovrano
è l'“aura popolaris„, di semplici tribuni privi di sangue freddo e di
moderazione, e assolutamente dipendenti dal favore di un popolo così
vano, ardente, bellicoso, quale il francese. E un simile stato di cose
non potrebbe che peggiorare in seguito ad un cambiamento di governo, che
mettesse la cosa pubblica nelle mani del generale Boulanger. Per quante
dichiarazioni pacifiche egli abbia fatte recentemente, il suo passato e
l'appoggio degli _chauvins_ più accaniti lo costringerebbero ad assumere
un'attitudine provocatrice, sia che egli diriga lo sguardo verso
l'Alsazia-Lorena, sia che aspiri a ricuperare la perduta preponderanza
nel Mediterraneo. Nei due casi l'Italia sarebbe complicata in una guerra
colla Francia o a fianco della Germania, o a fianco dell'Inghilterra. I
disgraziati combattimenti in Africa sembra abbiano risvegliato le
speranze dei politicanti della Senna, i quali credono pure che
l'alleanza italo-tedesca assicuri all'Italia l'aiuto della Germania solo
nel caso di un'invasione francese nella penisola, e calcolano sulla
possibile astensione della Germania nel caso che l'Italia dichiarasse
guerra alla Francia in seguito ad una occupazione di Tripoli da parte di
quest'ultima. Nè minore sarebbe il pericolo per l'Italia ove di nuovo
sorgesse la questione egiziana, nella quale i suoi legittimi interessi
le impongono di sostenere energicamente l'Inghilterra contro le
pretensioni francesi. Date queste circostanze, così conchiude
l'articolo, il convegno tra i due uomini di Stato che dirigono la
politica della Germania e dell'Italia avrà un fondo essenzialmente
positivo. Non già che catastrofi sieno imminenti o addirittura
inevitabili; la solidità della lega dell'Europa centrale, la gloria che
circonda l'esercito germanico e il timore che esso inspira sono
eccellenti istrumenti di propaganda per la pace dei popoli; ma le
condizioni in Francia si sono dal 1.º ottobre 1887 in poi, avvicinate di
alcuni gradi al punto nel quale il _caos_ comincia e l'avvenire più
prossimo diventa imprevedibile. Quando il signor Crispi venne a
Friedrichsruh l'anno scorso dominava un apprezzamento relativamente
ottimista della situazione in Francia. Il ministero Goblet-Boulanger era
caduto, e il ministero moderato Rouvier dirigeva gli affari della
Repubblica francese. Le persone ragionevoli non vedono anche ora alcun
fantasma, ma si dicono tuttavia, che ci avviciniamo all'esplosione a
Parigi e che nessuno è in grado di dire fin dove si sperderanno le
rovine o le scintille. Per il momento il viaggio del Presidente del
Consiglio italiano avrà un buon effetto sugli animi irrequieti della
Senna. L'alleanza tra la Germania e l'Italia presa astrattamente,
esercita sul francese del volgo il suo giusto effetto di intimidazione,
soltanto quando appare ai suoi occhi sotto una forma sensibile e
palpabile.„
_3 settembre._ — Il signor Goedel, Incaricato d'affari
d'Austria-Ungheria, mi dà lettura di una Nota nella quale è riferita
una conversazione del conte Kálnoky con l'Incaricato d'affari di
Francia. La Nota è del 29 agosto. Il rappresentante francese voleva
conoscere l'opinione del conte Kálnoky sull'ultima Nota francese e
sulla Nota turca per Massaua. Il ministro austro-ungarico diede
consigli di prudenza. Disse che non conveniva dare importanza alla
questione e che bisognava lasciarla cadere. Dal colloquio di Eger
egli aveva portato la convinzione che il ministro Crispi non se ne
sarebbe occupato ulteriormente. Il Kálnoky consigliava sopratutto a
localizzare il dibattito e a non portarlo dal mar Rosso nel
Mediterraneo. Le Potenze non permetterebbero che fosse turbato lo
_statu-quo_ nel Mediterraneo.
Circa la protesta turca il Conte manifestò il pensiero che non
convenisse darvi gran peso, e che si dovesse lasciar da parte anche
la interpretazione dell'articolo X della convenzione pel canale di
Suez. Non esser equo per la Francia dare appoggio alla Turchia. Del
resto la Francia non avrà dimenticato la protesta fatta dal Sultano
al 1881 per l'occupazione della Tunisia. Certamente la protesta del
1881 per la Tunisia non può avere un valore minore di quella fatta
ora per Massaua. Se la Francia non dette importanza alla prima, non
può darne alla seconda.
L'Incaricato francese non seppe che cosa rispondere a questa ultima
argomentazione. Disse che il governo francese riterrebbe chiuso
l'incidente dopo l'ultima Nota di Goblet. Teme che non faccia
altrettanto l'Italia, la quale mandando la sua flotta in Oriente
potrebbe avere velleità bellicose. Il conte Kálnoky assicurò che la
flotta italiana era andata in Oriente per i consueti esercizi
annuali.
— Il conte di Goltz è venuto a leggermi un telegramma ricevuto ieri
sera da Berlino. Il conte Hatzfeldt avrebbe scritto al principe di
Bismarck la risposta di lord Salisbury per l'affare di Kisimayo. Sua
Signoria desidera che il governo italiano voglia attendere per la
concessione di un territorio, garantendo che Kisimayo non sarà
conceduto ad alcuno. L'Inghilterra si adoprerà affinchè l'Italia
abbia quanto chiede. Lord Salisbury intanto chiede che gli siano
mandati i termini della promessa fatta all'Italia dal defunto
Sultano dello Zanzibar.
Ho risposto al conte Goltz che attenderò l'opera dell'Inghilterra e
manderò intanto a lord Salisbury copia dell'atto di concessione.
Prego il Goltz di ringraziare il Principe per l'interesse da lui
preso in questo affare.
_4 settembre._ — Il signor di Goedel è venuto a dichiararmi che il
conte Kálnoky, dividendo pienamente le nostre opinioni, si rifiuta
di aderire alla domanda del governo dei Paesi Bassi per la
modificazione dell'articolo IX della convenzione per la libertà del
canale di Suez.
_15 settembre._ — Il signor di Goedel per incarico del conte
Kálnoky, è venuto a riferirmi le istruzioni date al suo Incaricato
d'affari a Costantinopoli circa talune domande fattegli da
Sadullah-pascià. L'ambasciatore turco avrebbe chiesto se nel
colloquio di Eger il Crispi aveva manifestato i suoi concetti
intorno alle intenzioni del governo italiano in Africa, e se si era
convenuto qualche cosa per la Bulgaria. Il Kálnoky rispose che la
questione di Massaua è cessata. Il ministro Crispi non intende farne
argomento di ulteriori discussioni; ad Eger manifestò sentimenti
pacifici, e non è suo interesse dar seguito ad un dibattimento ormai
esaurito. Conviene però che la Francia non risusciti il conflitto
con pretese nel Mediterraneo. Allora l'affare potrebbe attirare
l'attenzione delle Potenze che hanno interesse al mantenimento dello
_statu-quo_. Per la Bulgaria il governo italiano è concorde con
l'austriaco circa la convenienza di lasciare al tempo la soluzione
del problema. Nulla sarà fatto per ridestare questioni ormai sopite
e per richiamare l'attenzione dell'Europa su di un popolo che fa
bene i suoi affari. L'Italia e l'Austria si adopreranno in ogni
occasione perchè la pace non sia turbata nei Balcani.
_24 settembre._ — Il conte di Goltz, venuto in Napoli, mi ha parlato
di vari argomenti, tutti di qualche importanza.
La missione dei preti abissini presso il governo russo non ebbe
successo. Gli abissini offrivano allo Czar un'isola nel mar Rosso;
ma l'offerta, dubbia in sè stessa perchè manca l'isola, non invogliò
il sovrano. Giers non celò che nella Russia vi sono simpatie per
l'Abissinia, per motivi religiosi.
Missionari tedeschi in Cina: ottennero quanto chiedevano
dall'Imperatore del Celeste Impero, e il governo di Berlino domanda
se abbiamo ottenuto altrettanto, essendo suo desiderio che l'Italia
abbia gli stessi benefici. I missionari tedeschi che si recassero in
Cina con passaporto non germanico, non otterrebbero il visto. Ho
ripetuto la risposta fatta all'Incaricato d'affari italiano a
Berlino. Il ministro di Germania a Pechino appoggerà le domande del
governo italiano.
In Russia si attendeva che la Bulgaria il 18 corrente avesse
proclamata la sua indipendenza. Erano voci di giornali; tutto passò
tranquillamente.
CAPITOLO DECIMO.
Il terzo incidente con la Francia.
Una lettera apocrifa di Felice Pyat. — Guglielmo II a Roma.
— Colloqui di Crispi col conte Erberto di Bismarck. —
Storia documentata dell'incidente per le scuole italiane in
Tunisia. — Dal _Diario_ di Crispi. — La situazione in
Francia alla fine del 1888.
Nei primi del settembre l'on. Crispi ricevette questa lettera:
«Parigi, 7 settembre 1888.
_Mon cher Crispi_,
J'attendais des paroles pacifiques de vous avant de vous écrire. Le
reportage vous a chargé, tous ces jours-ci, de tant de projets
sinistres que ceux qui vous connaissent en ont été, eux mêmes,
déconcertés. La vérité se fait jour enfin: vous n'avez jamais songé
à allumer une guerre entre nos deux nations.
Ceux qu'anime l'amour du Progrès et de la Démocratie souffrent de
cette tension de rapports qui existent entre nos deux grandes et
généreuses nations. Nous sommes faits pour nous entendre et nous
aimer: vous le pensiez, du moins. Comment donc ne trouvez vous
aucune parole pour faire tomber de ridicules préventions?
Je vous assure, mon cher Crispi, que notre Démocratie sympathise
avec l'Italie, la noble contrée des Arts et de la Liberté.
Des hommes comme moi, qui vous sont attachés, sont désespérés de ce
qui se passe. Faites un effort de votre côté. Ne vous décidez pas,
au nom de la civilisation, à rompre tout rapport avec nous. Floquet
a fait les premiers pas à Toulon; vous devez faire le reste. Le
monde vous applaudirait.
Agréez, mon cher Crispi, avec l'assurance de ma vieille amitié pour
vous, mes vœux les plus sincères.
FÉLIX PYAT.»
Crispi, anzichè rispondere direttamente al Pyat, telegrafò
all'Ambasciata a Parigi nei seguenti termini:
«Torino, 11/9/88
_R. Ambasciata Italiana_,
Parigi.
Ricevo da costì una lettera di Felice Pyat che mi prega ed esorta di
fare quanto dipende da me per ricondurre i buoni rapporti tra la
Francia e l'Italia. Non gli rispondo direttamente perchè non voglio
impegnare alcuna polemica. Prego invece la S. V. di recarsi da lui e
di dirgli che i miei sentimenti verso la Francia sono i medesimi di
quelli che io nutriva 32 anni addietro, quando eravamo esuli a
Londra. Io mi sono difeso contro provocazioni diplomatiche che non
mi sarei aspettate dal governo francese. La politica nostra è
difensiva, non offensiva, e giammai da parte nostra sarà mossa
guerra alla Francia. Io desidero le più cordiali relazioni col
popolo vicino, ma i francesi sono talmente ingannati dalla stampa
locale che le mie speranze di un accordo fra i due paesi comincia a
languire. Ora, se Félix Pyat si sente le forze di persuadere i suoi
concittadini in nostro favore sciogliendo l'inganno in cui essi si
trovano, io ne sarei lietissimo, ed Ella può assicurare l'amico Pyat
che l'Italia non mancherebbe di fare il debito suo.
CRISPI.»
Ma la lettera del Pyat era apocrifa:
«Da Parigi, 14 settembre 1888.
(_Personale_). — La lettera direttale con la firma Felice Pyat è un
falso. Pyat mi ha assicurato or ora che egli non ne fu l'autore, nè
l'ispiratore, e che non ne ebbe conoscenza alcuna. Siccome però egli
in questa occasione mi fece le più ardenti proteste di simpatia per
l'Italia che nella sua bocca sono sincere, gli dissi che mi era caro
di potergli dare una prova dei sentimenti personali di V. E., e gli
diedi lettura del suo telegramma dell'undici. Egli se ne mostrò
lietissimo, assolvendo il falsario che aveva provocato tali
dichiarazioni. Promise di fare per parte sua tutto il possibile per
rendere i suoi concittadini più benevoli e meno ingiusti verso
l'Italia e verso Lei e dichiarò che quando se ne verrà alla
revisione, farà con i suoi colleghi uno sforzo supremo per finirla
con quella perenne provocazione all'Italia che è il mantenere un
rappresentante della Repubblica presso la Santa Sede. Inveì poi
contro il presidente della Camera dei deputati e col governo
repubblicano che ha alla sua testa un Re e plaudì a Lei che negava
l'elezione del proprio sindaco ai Comuni piccoli e meno colti,
lasciandola ai maggiori più illuminati, mentre qui si continua a
negarla al Comune più colto della Francia, a Parigi. Ricordò come a
Marsiglia le sue esortazioni per una cordiale convivenza con
l'Italia siano state accolte con entusiasmo e disse che continuerà a
seminare colà, ove fra giorni ritorna. Mi domandò infine se volessi
lasciargli la traduzione del telegramma di V. E. impegnandosi a non
servirsene se non d'accordo con Lei e con me. Io risposi che non lo
potrei senza interpellarla, giacchè in fatto V. E. non poteva
rispondere a lui per lettera da lui non _scritta_, e che io soltanto
confidenzialmente aveva potuto mostrargli il suo telegramma. Voglia
darmi su ciò le sue istruzioni. Alcune parole pacifiche e benevoli
alla Francia, pronunziate ieri da S. M. il Re nell'udienza data ai
francesi invitati dal principe Napoleone, produssero qui una
eccellente impressione.
RESSMAN.»
«15/9/88.
Leggo nel _Journal des Débats_ d'oggi: «Si rimarcò ieri nei corridoi
della Camera la presenza del signor Ressman, Incaricato d'affari
d'Italia, che venne a conferire con il signor Felice Pyat». Fu
infatti alla Camera che Pyat, venuto nel pomeriggio a Parigi, mi
aveva dato convegno. Si direbbe che noi torniamo agli usi della
Serenissima di Venezia, giacchè se questa in sè così insignificante
notizia non vuole essere una insinuazione, essa prova per lo meno
con quale pavida diffidenza sia qui sorvegliato ogni nostro passo.
Crederei però prudente al momento opportuno di dire nella udienza
ordinaria del prossimo mercoledì una parola al signor Goblet per
renderlo consapevole della ragione del mio colloquio col Pyat,
porgendomi occasione di leggergli il sì conciliante telegramma di V.
E., che è una prova di più de' suoi personali sentimenti. Prego
telegrafarmi se ella mi vi autorizza.
RESSMAN»
Naturalmente, l'on. Crispi dette l'autorizzazione richiestagli, e il
Goblet ebbe una prova di più della lealtà del ministro italiano.
Le eccellenti relazioni esistenti tra l'Italia e la Germania ebbero
nell'ottobre di quell'anno una solenne affermazione: l'Imperatore
Guglielmo decise di visitare Re Umberto nella Capitale del Regno. Era il
primo sovrano di una grande Potenza che veniva a Roma e le accoglienze
che vi ebbe furono grandiose.
In tale circostanza vi fu tra Crispi e Bismarck, tra il Re e
l'Imperatore, questo scambio di telegrammi:
«Roma, 11/10/88.
Au milieu de l'enthousiasme qui a accueilli et qui entoure, dans la
capitale de l'Italie, votre auguste Souverain, l'ami de notre Roi et
le chef de la grande Nation alliée de notre pays, ma pensée émue se
reporte vers Votre Altesse. Je voudrais que l'écho des vivats dont
Rome retentit arrive jusqu'à vous et vous dise combien le peuple
italien aime l'Allemagne et apprécie l'amitié de ce pays devenu, par
les conseils de Votre Altesse, si glorieux et si grand. Que notre
union soit toujours aussi cordiale et aussi intime pour la gloire
des deux dynasties, le bonheur des deux peuples et la paix de
l'Europe!
CRISPI.»
«Friedrichsruh, 11/10/88.
Je remercie Votre Excellence de tout mon cœur d'avoir bien voulu
penser à moi au moment où vous assistiez à cette entrevue de nos
Souverains qui est l'expression solennelle de l'amitié cordiale de
deux grandes nations.
La conscience d'avoir travaillé en commun à consolider cette amitié
mutuelle de nos Souverains et de nos pays, et notre ferme volonté de
la maintenir en la rendant plus intime, forment un trait d'union,
cher a mon cœur, entre les fêtes brillantes qui se célèbrent à
Rome et la forêt solitaire que Votre Excellence m'a fait l'amitié de
parcourir avec moi, il y a deux mois.
Von BISMARCK.»
«Ala-Roma, 20/10/88.
Il me tiens à cœur de te répéter en quittant ton beau pays si
hospitalier, combien j'ai été heureux en Italie, et à quel point je
suis sensible à l'amitié que tu m'as montrée. Je te prie de croire
que je te la rends bien sincèrement et que je n'oublierai jamais la
magnifique réception que tu m'as faite dans ta capitale. Je
t'embrasse de grand cœur et je baise les mains à Sa Majesté la
Reine.
GUILLAUME.»
«Roma-Ala, 20/10/88.
Avant que tu quitte l'Italie je veux t'exprimer encore une fois ma
reconnaissance pour ta chère visite et mon profond regret pour ton
départ.
Nous n'oublierons jamais, l'Italie et moi, la preuve éclatante que
tu nous a donnée de ton amitié. Tu as entendu la voix d'un peuple
entier saluer en toi l'ami sûr et désiré, l'allié fidèle,
l'interprète Auguste de ta noble et grande Nation.
Nos vœux te suivent dans ton voyage; ils t'accompagneront
incessamment dans toute ta vie que nous te souhaitons remplie de
gloire et de bonheur. La Reine et mon fils veulent être rappelés à
ton souvenir et s'associent à moi pour te prier de déposer nos
hommages aux pieds de S. M. l'Imperatrice ton Auguste Epouse.
HUMBERT.»
L'Imperatore fu accompagnato a Roma dal conte Erberto di Bismarck, col
quale Crispi ebbe due colloqui:
_19 ottobre 1888 — 6 ½ pom._ — Visita di Bismarck Erberto.
Mi fa una relazione del colloquio con lo Czar del principe di
Bismarck. — Truppe russe alle frontiere (500 a 600 mila); lo Czar
non sapeva darne conto. — Influenze danesi sullo Czar. Tutte le
principesse, compresa la Regina, contrarie al governo imperiale
tedesco. Queste donne influiscono sullo Czar e gli han dato a
credere che la Germania vorrebbe attaccarlo. — Bismarck fece il
possibile per dissuaderlo, assicurando che la triplice alleanza ha
uno scopo puramente difensivo. Dopo la pubblicazione del trattato di
alleanza austro-germanico, nulla v'è di segreto. Le due Potenze non
hanno mire aggressive. Se la Russia attaccasse l'Austria, la
Germania è chiamata a difenderla.
La posizione della Germania e dell'Italia è identica. Bisogna che la
Francia attacchi una delle due Potenze alleate, perchè l'aggredita
possa invocare il _casus foederis_. Del resto ciò avverrebbe anche
se non ci fosse trattato. La Germania non potrebbe lasciare
aggredire l'Italia senza muoversi a sua difesa. Lo stesso farebbe
l'Italia verso la Germania se la Francia tentasse di passare il
Reno. Si è convinti che ove la Francia vincesse la Germania, si
rivolgerebbe subito contro l'Italia per abbatterla e riprendere in
Europa quella egemonia alla quale aspira. Farebbe lo stesso con la
Germania nel caso che l'Italia fosse vinta per la prima.
La triplice alleanza non ha alcun interesse a trarre con sè la
Turchia. Se questo proposito fosse in lei, si saprebbe subito, il
Sultano non essendo un principe che sappia mantenere il segreto. La
Turchia ha buone truppe, ma esse non hanno potenza che in una guerra
difensiva. È assurdo quindi il presumere che si voglia trarla nella
triplice; non vi sarebbe scopo.
Questo linguaggio crudo, ma leale del principe di Bismarck, fece
impressione sullo Czar, il quale partì da Berlino convinto delle
buone intenzioni del governo tedesco.
Lo Czar invitò l'imperatore Guglielmo alle grandi manovre militari
che nell'estate venturo saranno tenute in Russia. La convinzione
dell'imperatore Guglielmo e del principe di Bismarck è che per un
anno almeno è assicurata la pace.
Il giudizio su Alessandro III è ch'egli ami e desideri la pace. Le
sue abitudini, i suoi studi, la nessuna esperienza di governo, la
nessuna cura per l'esercito, il suo fisico stesso lo fanno bramoso
di calma. Egli però è circondato da qualche generale di cui il
Principe teme e che può influire sull'animo suo. Non andrebbero
meglio le cose col suo successore, giovine ancora e non abbastanza
educato alle arti del governo.
_20 ottobre — 1 pom._ — Secondo colloquio con Erberto Bismarck.
Ho esposto come l'Austria sia sempre la stessa nei suoi metodi di
governo. Costituita come essa è da varie genti, con lingue e civiltà
diverse, non può esser salda, nè sperare che non si disfaccia che ad
una sola condizione, cioè che rispetti tutte le nazionalità. Orbene,
nell'Impero, meno l'Ungheria, la quale, avendo un governo autonomo,
e grazie al buon senso di Tisza, si regge sicura, nell'Austria il
governo favorisce l'elemento slavo, vive con esso a danno delle
popolazioni tedesche e italiane. Or questo è male, e a noi crea
imbarazzi. Se gli italiani fossero ben trattati, se la loro
autonomia fosse rispettata, gl'italiani del Regno non avrebbero
ragione a doglianze e mancherebbe il pretesto all'irredentismo.
Le durezze usate a Trieste sono inopportune, non giovano all'Impero
e nuocciono a noi. Aggiungete gl'indugi nel compimento dei processi.
Il processo di Ulmann si protrae da oltre cinque mesi; era meglio
non lo avessero fatto, ma ora è opportuno che lo conducano a termine
rapidamente.
Il conte di Bismarck, rispondendo, consente nelle mie idee. Egli
incolpa il Taaffe, il quale per rimanere al governo non guarda al
modo. L'Imperatore ha fiducia nel suo ministro, e fa male. Erberto
mi afferma di aver di ciò scritto a suo padre affinchè ne parli al
Kálnoky, il quale fra giorni si recherà a Friedrichsruh.
L'argomento è di una grande importanza, io replicai. L'Austria non è
amata in Italia, essa non ha saputo far obliare il suo dominio sulle
terre italiane, anzi lo ricorda pel modo come si regola a Trieste.
Noi dobbiamo tenerci stretti all'Impero austriaco. L'Italia non può
avere due nemici, l'uno a destra e l'altro a sinistra delle sue
frontiere. L'Austria deve però considerare che anche la nostra
alleanza è a lei di vantaggio. Il Bismarck fece eco a queste mie
considerazioni ed io soggiunsi:
— Non vi nasconderò che l'alleanza più simpatica all'Italia è quella
con la Germania. Io non so se il Principe vostro padre vi abbia mai
parlato dei nostri colloqui a Gastein nel 1877. Allora io non aveva
altro desiderio che quello di congiungere in stretto vincolo
l'Italia e la Germania, anche in previsione di ostilità che ci
potessero venire dall'Austria. Il Principe in quel tempo preparava
con Andrássy l'alleanza dei due Imperi, e vedeva lontana l'ipotesi
che l'Austria, la quale ha in Polonia interessi opposti ai vostri,
potesse divenirvi nemica. Allora contrastai che l'Austria ottenesse
la Bosnia e l'Erzegovina. È vero che vostro padre proponeva di dare
all'Italia compensi territoriali che non ebbe, ma il fatto provò che
l'Austria uscì dal Congresso di Berlino più forte nell'Adriatico di
quello che era prima, e le mie speranze andarono deluse.
— Voi avete ragione! ma al 1878 non eravate più al governo, e le
sorti d'Italia erano affidate ad un ministro il quale amoreggiava
con la Francia.
— Su questo non ho che dirvi. Ma la Francia anch'essa fu aiutata e
le fu permesso di occupare a tempo opportuno la Tunisia.
— Mio padre credeva che aiutando la Francia in Africa, avrebbe
potuto distrarla dall'Europa.
— Comprendo. È storia passata, e non la ricorderemo che per trarne
insegnamento per l'avvenire. Il certo si è che l'Italia non ha
frontiere sicure, e che alla prima occasione bisognerà che la
Germania ci aiuti a ricuperarle. Per ora teniamoci uniti; teniamo
per quanto è possibile stretta l'alleanza delle tre monarchie e non
avremo nulla a temere.
— Le tre monarchie unite basteranno a mantenere la pace. Bisognerà
però non distrarci l'amicizia del governo inglese, le cui forze sono
tanto necessarie a voi nel Mediterraneo.
— Per parte mia ho fatto quanto potevo per coltivare l'amicizia di
lord Salisbury.
— E vi siete riuscito. Non sarò indiscreto rivelandovi le cose dette
da lord Salisbury all'Imperatore nell'ultimo viaggio di questi in
Inghilterra. Salisbury dichiarò che nel Mediterraneo egli agirà
d'accordo col governo italiano. Soggiunse che in conseguenza Sua
Signoria aveva dato speciali istruzioni al comandante della flotta
inglese nelle vostre acque.
A questo punto il colloquio è interrotto dall'arrivo del Re e
dell'Imperatore.
Le leggi sull'insegnamento e sulle associazioni in Tunisia promulgate il
15 settembre 1888 da Alì Bey, “possessore del reame di Tunisi,„ furono
un tentativo di rivincita del Goblet per lo scacco subito nella
questione delle tasse a Massaua. Quelle leggi, sebbene sotto una forma
generale, non riguardavano che le associazioni e le scuole italiane. Un
giornale ufficioso della Residenza francese, il _Petit Tunisien_, lo
diceva esplicitamente.
Allorchè la Francia impose il suo protettorato al Bey di Tunisi, nel
trattato di Casr-el-Saïd si dichiarò che il governo della Repubblica
francese garentiva l'esecuzione dei trattati esistenti tra il governo
della Reggenza e i diversi Stati europei. Il trattato dell'8 settembre
1868 tra l'Italia e la Tunisia stabiliva all'art. 1 che “tutti i
diritti, privilegi e immunità„ conferiti agli italiani nella Reggenza
dagli usi e dai trattati erano confermati. Il governo della Repubblica,
quindi, si rendeva garante dei diritti derivanti dalle Capitolazioni e
acquisiti in favore degli italiani.
È ben vero che nel 1884 i gabinetti di Parigi e di Roma presero degli
accordi per regolare l'esercizio della giurisdizione a Tunisi, e il
gabinetto di Roma consentì la _sospensione_ della giurisdizione
consolare italiana, ma fu espressamente convenuto nel protocollo
relativo (25 gennaio 1884) che tutte le altre immunità, vantaggi e
garenzie assicurate dalle Capitolazioni, dagli usi e dai trattati
rimanessero in vigore.
Data cotesta situazione di diritto non poteva non sembrare strano
all'on. Crispi che il Bey avesse promulgato le suddette leggi, e che
esse portassero anche la firma del rappresentante del governo della
Repubblica.
La legge, la quale voleva: sottoporre le scuole italiane all'ispezione
del direttore dell'insegnamento pubblico nella Reggenza o dei suoi
delegati, — fare di costui il giudice della validità dei diplomi, —
rendere obbligatorio l'insegnamento della lingua francese, — imporre
condizioni arbitrarie all'istitutore italiano che volesse aprire una
scuola privata, — proporre pene ed ammende, — era evidentemente un
attentato alle nostre prerogative e ledeva i nostri diritti. Altrettanto
deve dirsi dell'altra legge che pretendeva imporre condizioni
agl'italiani che volessero riunirsi in associazione, sciogliere le
associazioni esistenti, ecc. Infatti nelle “immunità vantaggi e
garenzie„ che ci erano assicurati dalle Capitolazioni, dagli usi e dai
trattati con la Reggenza, erano: 1.º l'immunità delle associazioni e
delle scuole italiane in Tunisia di non dipendere che dal diritto
italiano; 2.º il vantaggio per i nostri connazionali di fare educare ed
istruire i loro figli nelle istituzioni italiane o regolate dalle nostre
leggi, — quello di associarsi, come si erano sempre associati, con fini
di solidarietà, di beneficenza, di mutuo soccorso, ecc.; 3.º la garanzia
che lo _statu-quo_ non sarebbe stato turbato durante i trattati
esistenti.
Le proteste di Crispi e la questione che ne seguì sono chiarite dai
documenti che qui sotto riassumiamo:[25]
[25] Il conte de Moüy nei suoi _Souvenirs_ (pagg. 264-266) riconosce
che il Goblet cercò, col creare la questione della quale ci
occupiamo, una rivincita dello scacco subito per le tasse di
Massaua, ma riferisce molto inesattamente lo svolgimento di essa.
Egli afferma che l'on. Crispi «avait un esprit trop fin et trop
pratique pour soulever la moindre objection(!)». I documenti che
pubblichiamo dimostrano quante e quali obiezioni sollevasse l'on.
Crispi, e come riuscisse a vincere il punto. Deve avvertirsi, a
spiegazione dell'errore del de Moüy, che egli non era più a Roma
quando l'incidente delle scuole della Tunisia si svolse. _(N. d.
C.)_
22 settembre 1888.
Da Tunisi (Berio, Console generale d'Italia). — Avverte che una
legge del Bey, ispirata a concetti annessionisti, sottomette tutte
le scuole all'ispezione francese. Un'altra legge proibisce le
associazioni non autorizzate. Entrambe le leggi sono evidentemente
fatte contro i soli istituti italiani.
23 settembre.
Crispi, a Berlino, Vienna, Londra. — Segnala il fatto; ritiene le
nuove leggi del Bey non applicabili agli italiani, 1.) per il
diritto che viene loro dalle Capitolazioni (art. 2 del Prot. 25
gennaio 1884); 2.) per l'art. 14 del Trattato colla Tunisia dell'8
sett. 1868. Si prega avvertirne il governo locale, osservando che
dette leggi sono un avviamento ad una celata annessione ed una
risposta agli ultimi eventi di Massaua.
24 settembre.
Da Parigi (Ressman). — L'_Havas_ pubblica che i decreti sulle scuole
e sulle associazioni hanno un carattere permanente e furono resi dal
Bey nei limiti de' suoi diritti alto-sovrani. Goblet fece dire
indirettamente a Ressman che nell'applicazione di quei decreti sarà
usata la massima arrendevolezza e prudenza a nostro riguardo.
28 settembre.
Crispi, a Parigi. — Ripete che i decreti tunisini violano le
Capitolazioni riconosciute dal Bey e dalla Francia. «Se il Bey di
Tunisi fosse indipendente — telegrafa Crispi — saprei come
provvedere. Ma essendo sotto la protezione francese, quasi pupillo
sotto tutela, sono costretto a rivolgermi alla Potenza protettrice
affinchè voglia spiegarsi in così grave questione. Abbiamo in Tunisi
28 mila italiani.... Non possiamo rinunciare alle nostre
prerogative.... Non bisogna dimenticare che la giurisdizione
consolare in Tunisi è sospesa, non soppressa....»
29 settembre.
Crispi, al Console italiano a Tunisi. — Ebbe per le vie di Parigi il
testo delle leggi tunisine. Il governo beylicale ha il diritto di
riordinare le scuole pubbliche, ma i suoi poteri si fermano alla
soglia delle scuole istituite da privati o da società straniere.
Spera che le leggi in questione rispetteranno i diritti acquisiti e
riconosciutici esplicitamente. Osserva che esse definiscono come
delitti certi atti i cui autori dovrebbero essere tradotti innanzi
ai tribunali. La giurisdizione consolare non è soppressa, ma
solamente sospesa. Incarica Berio di presentare queste osservazioni
al ministro residente di Francia, affinchè il nostro silenzio non
s'interpreti come acquiescenza.
29 settembre.
Da Parigi (Ressman). — Ebbe un colloquio con Goblet che rimproverò
di essersi deciso a simili atti senza previa amichevole intelligenza
col governo italiano. Goblet rispose che l'affare di Massaua avevalo
scoraggito: sostenne che i decreti beylicali non potevano dirsi
lesivi nè delle Capitolazioni nè di alcun diritto acquisito, tutto
dipendendo dalla loro applicazione. Goblet aveva dato istruzioni a
Massicault perchè nulla facesse per la esecuzione dei decreti senza
chiedere il consenso e il concorso del R. Console. Non pare a Goblet
che si possa da noi contestare la legittimità di un ispettorato
delle scuole, puramente igienico, ch'egli del resto ammetterebbe che
fosse esercitato anche da noi, in Italia, sovra istituti francesi.
Protesta di voler evitare ogni questione e rispettare le
Capitolazioni e i nostri diritti; esige però che dal nostro canto si
riconosca alla Potenza protettrice il dovere e il diritto di guidare
nelle vie della civiltà il popolo protetto. Goblet trovò strano la
nostra suscettibilità, mentre annunciamo di voler creare in Tunisia
un ispettorato nostro e una direzione delle scuole. In conclusione
dice «aspettate l'applicazione de' decreti: o non saranno applicati
o lo saranno nella misura conveniente d'accordo tra noi e il vostro
console.» Ressman avverte che si prevede la caduta del Ministero e
che forse sarà più facile intendersi col successore, il quale
sentirà meno dolorosamente le ferite di Massaua e Zula.
30 settembre.
Da Parigi (Ressman). — L'_Havas_ pubblicò il sunto del colloquio fra
Ressman e Goblet. Le polemiche si riaccesero. Ci accusano di voler
dare il fuoco alle polveri. Goblet è assente. Ressman chiede
istruzioni pel prossimo colloquio che dovrà avere con lui.
1 ottobre.
Crispi, a Parigi. — «Un governo serio quando tratta con altro
governo si astiene dal dare pubblicità ai colloquii che avvengono
tra esso e i ministri stranieri. Di simile pubblicità si fa uso
soltanto quando non si vuole comporre amichevolmente un dissidio.
Noi non possiamo nè direttamente nè indirettamente ammettere il
diritto nel Bey di decretare discipline per l'esercizio
dell'insegnamento privato de' nostri concittadini in istituti
italiani in Tunisia. Ripeto quanto già dissi. Se siffatto diritto
fosse ammesso e l'Europa lo acconsentisse, noi ci sentiremmo in
dovere di applicare analoghi decreti qui in Roma a tutti gli
istituti e corporazioni straniere, la maggior parte de' quali è
francese. Se avessimo voluto sollevare una questione internazionale
col nostro reclamo, non vi avremmo telegrafato come già fecimo.
Senonchè il signor Goblet pare animato da ben altri sentimenti. In
conclusione noi non possiamo accontentarci delle assicurazioni
dateci circa il modo di applicazione dei decreti ai nostri istituti.
Sono i decreti stessi che respingiamo in principio come illegali,
violatori de' nostri diritti, contrari alle Capitolazioni e ai
trattati vigenti....»
1 ottobre.
Da Parigi (Ressman). — Tornerà nel prossimo colloquio con Goblet a
parlare dei decreti tunisini. Goblet per dimostrare i riguardi che
ci voleva usare, disse di aver prescritto a Massicault di nominare
membro del Consiglio d'istruzione pubblica da istituirsi nella
Reggenza anche un direttore delle scuole italiane.
3 ottobre.
Da Parigi (Ressman). — Ha una intervista con Goblet che gli ripete
tutti gli argomenti delle antecedenti interviste. Ressman gli
dichiara che noi respingiamo i decreti. Goblet risponde che non ci
ha mai domandato di accettarli: da parte sua, egli mantiene che il
Bey o il protettorato avevano il diritto di emanarli, perchè fatti a
scopo di buona amministrazione e di civiltà. Goblet non ci chiede
che di riservare il nostro giudizio per il caso in cui si venisse ad
una applicazione che senza il concorso del Console italiano a Tunisi
non sarà tentata.
7 ottobre.
Da Tunisi (Berio). — Conferì con Massicault: questi propone di
escludere l'autorizzazione obbligatoria per le scuole già esistenti
e di mettere la più gran cortesia nelle ispezioni che avverranno,
prevenutone il Console del Re ed in presenza del Console. Esige però
autorizzazione per le scuole da creare e diritto di sorveglianza.
Massicault non crede che le Capitolazioni ci diano diritto a tale
riguardo. Berio propone a Massicault (_ad referendum_) di
comunicargli una o due volte all'anno la statistica
particolareggiata delle nostre scuole con la situazione materiale e
morale di esse. Massicault accetta la proposta e ne informerà
Goblet.
9 ottobre.
Da Berlino (Riva, Incaricato d'Affari d'Italia). — L'Ambasciatore di
Germania a Parigi informò il governo della Repubblica essere
desiderio del Gabinetto di Berlino che la questione si mettesse in
via diplomatica e non in via amministrativa. Fece insieme
comprendere che il testo delle Capitolazioni non era in favore de'
nuovi decreti tunisini. Ciò parrebbe sufficiente per far capire al
governo francese che, come avvenne per la questione di Massaua, la
Francia, qualora persistesse nell'atteggiamento assunto, si
troverebbe di fronte anche la Germania.
11 ottobre.
Da Parigi (Ressman). — Münster (ambasciatore germanico) gli lesse
una nota di Bismarck in cui sono date istruzioni all'ambasciatore di
Germania a Parigi analoghe a quanto è contenuto nel documento
precedente.
12 ottobre.
Da Parigi (Ressman). — Le dichiarazioni di Goblet a Münster furono
estremamente concilianti e pacifiche. La Francia trovarsi nella
necessità di evitare complicazioni: volersi rispettare assolutamente
le nostre scuole esistenti: neppure l'ispezione si farebbe senza
l'intervento del Console italiano. Lord Salisbury aveva dal canto
suo dichiarato che non vedeva obbiezioni contro l'applicazione dei
decreti beylicali alle scuole inglesi di Tunisia. Goblet soggiunse
che le minaccie di una nostra rappresaglia rispetto le scuole
francesi a Roma, non tornerebbe sgradita ai radicali francesi,
essendo quelle scuole, in generale, clericali. Goblet ripetè più
volte a Münster che intendeva rispettare integralmente i nostri
diritti e le Capitolazioni.
16 ottobre.
Crispi, a Parigi. — Ressman dovrà dichiarare a Goblet che i due
decreti beylicali sulle scuole e sulle associazioni non sono
applicabili ai cittadini italiani residenti nella Reggenza. Münster
parlerà nello stesso senso. Crispi desidera comporre amichevolmente
la vertenza.
19 ottobre.
Crispi, a Berlino, Vienna, Londra. — Di fronte ai decreti beylicali,
l'Italia trovasi in una posizione diversa da quella in cui si
trovano le altre Potenze le quali non hanno scuole od associazioni a
Tunisi. Per essi è questione di solo principio: per noi di principio
e di fatto. È probabile che alla ripresa dei lavori parlamentari, si
facciano interpellanze su ciò. Occorre quindi di sistemare la
questione.
19 ottobre.
Crispi, a Parigi. — A Berlino fu risposto all'ambasciatore francese,
Herbette, che la Germania ci appoggerà essendosi i giureconsulti
dell'Impero dichiarati favorevoli alla nostra tesi, nella questione
di diritto. A noi può bastare che Goblet faccia dichiarare da
Massicault a Berio che i decreti non saranno applicati ai nostri
istituti.
21 ottobre.
Crispi, a Parigi. — «In verità il signor Goblet vuol ripetere la
favola del lupo e dell'agnello, ed io non intendo prestarmi a far la
parte dell'agnello. Noi reclamiamo contro i decreti beylicali del 15
settembre dai quali siamo stati offesi e si vorrebbe dare a credere
che il nostro reclamo sia una provocazione. Il provocatore è colui
che ci ha offesi, e noi siamo i provocati. La posizione nostra in
Tunisia è singolare, e nessuna Potenza d'Europa si trova colà nelle
nostre condizioni. Nessuna Potenza vi ha scuole e nessuna Potenza ha
nella Reggenza una colonia popolare come la nostra ed alla cui
educazione ed al cui insegnamento bisogna provvedere. Se le altre
Potenze accettano i decreti beylicali e non reclamano, nulla danno
alla Francia perchè non è leso alcun loro diritto. Per esse non
sarebbe che una questione di principio. Volendo dar prova di
moderazione, dissi al conte di Bismarck che non tenevo si
pubblicasse un nuovo decreto che revocasse quello del 15 settembre.
A me bastava che il sig. Massicault dichiarasse al console Berio che
le nuove disposizioni legislative non sono applicabili alle nostre
scuole ed alle nostre associazioni in Tunisi e che nel fatto non
venissero applicate. Il conte di Bismarck deve avere telegrafato in
questo senso al conte Münster e ve ne informo acciocchè sappiate
essere nostre e non di Berlino le proposte concilianti per la
soluzione della questione. Sappiate ancora, e ciò confidenzialmente,
che cinque giorni addietro fu telegrafato da codesta Nunziatura al
Vaticano che Goblet era perplesso sul partito a prendere e che era
disposto a dar ragione all'Italia: vorrebbe però salva la sua
dignità. Ora io non tengo alla forma, ma alla sostanza, e la
soluzione da me proposta, appoggiata dalla Germania, converrebbe
alle due parti. In tale stato di cose, dipende dal contegno di
codesta Ambasciata ottenere giustizia.»
21 ottobre.
Da Vienna (Avarna, Incaricato d'Affari d'Italia). — Kálnoky
riconosce il buon diritto dell'Italia nella quistione.
L'Austria-Ungheria non ha però negli affari tunisini, come in quelli
egiziani, alcun interesse speciale.
21 ottobre.
Da Londra (Catalani, Incaricato d'Affari d'Italia). — _Il Foreign
Office_ domandò il parere dei consulenti legali della Corona
esprimendo intanto l'opinione 1.º) che la Francia non aveva diritto
a far emanare dal Bey un decreto che quest'ultimo non avrebbe avuto
diritto di emanare prima dell'occupazione francese; 2.º) che
l'Inghilterra, consentendo all'abolizione delle Capitolazioni per
ciò che concerne l'amministrazione della giustizia, non concesse
alla Francia alcun potere su ciò che riguarda le scuole inglesi.
22 ottobre.
Da Parigi (Menabrea). — Münster informò Menabrea delle conversazioni
di Crispi con Erberto Bismarck, relativamente ai decreti beylicali
sulle scuole ed associazioni. Menabrea si recò da Goblet a
presentargli la proposta conciliante di Crispi. Goblet rispose aver
dato istruzioni a Massicault di trattare la questione con Berio e
quindi non volerne discutere con Menabrea. Questi chiese quali
istruzioni erano state date al Residente francese. Goblet rispose
che «nulla sarebbe mutato alle cose esistenti e che il decreto non
verrebbe applicato alle nostre scuole ed associazioni esistenti se
non col consenso del nostro Console», al che Menabrea replicò che
non si trattava soltanto del presente e che il governo del Re non
acconsentirebbe a che il decreto minacciasse le istituzioni future.
«Pregai Goblet — scrive Menabrea — di ben considerare le conseguenze
di un conflitto qualora il R. Governo rifiutasse, in tal caso, di
permettere l'ispezione. Goblet si mantenne ostinato nella sua prima
risposta senza accettare alcuna osservazione, interpretando a suo
modo e il nostro trattato e il protocollo del 25 gennaio 1884, il
cui secondo articolo è abbastanza esplicito. Non potei trattenermi
dal dirgli che trattandosi di un decreto che muta sostanzialmente le
condizioni di istituzioni della colonia europea più antica e più
numerosa di Tunisi, mentre i francesi non sono che 3000, sarebbe
stato opportuno di presentire l'opinione dell'Italia. Al che Goblet
rispose: «Noi abbiamo le nostre truppe che proteggono i vostri
interessi italiani.» — Allora andai sulle furie dicendogli che
sapevo come le truppe francesi erano entrate in Tunisia e che
l'Italia non aveva bisogno della protezione francese: era buona a
proteggersi da sè, come si era protetta prima dell'entrata de'
francesi in Tunisia, della quale non avemmo mai a lagnarci.
L'Italia, d'altronde, ha diritto di essere rispettata, il che non si
sente abbastanza in Francia. Nel mettere fine a questa spiacevole
conversazione con un uomo impetuoso e cavilloso, io gli posi
l'_ultimatum_ conciliativo indicato da V. E. Egli non l'accettò e mi
ritirai lasciandogli la responsabilità di tutte le conseguenze del
suo rifiuto. Si vede ch'egli vuole lasciare la porta aperta a nuove
gherminelle, quando verrà il momento di creare nuove istituzioni
italiane in Tunisia. Mi pare che a Berio si potrebbe dare il mandato
di mantenere fermo presso Massicault la proposta di V. E. Prima di
recarmi da Goblet presi conoscenza de' suoi precedenti colloquii con
Ressman, di cui ammiro la fermezza e la prudenza per aver potuto per
tanto tempo sopportare i ragionamenti del suo interlocutore.»
23 ottobre.
Da Berlino (Riva). — Conferì con Holstein rimettendogli un
promemoria. Holstein riconosce il favorevole cangiamento del
Gabinetto inglese, dovuto agli ufficii della Germania; buon sintomo
la preoccupazione dell'Inghilterra per le scuole maltesi in Tunisia.
Nell'interesse della pace, è d'avviso di evitare tutto ciò che possa
rappresentare pel governo francese una umiliazione esplicita.
L'Italia potrebbe acconciarsi ad una soluzione meramente pratica
della vertenza, limitarsi, cioè, a conseguire una tacita rinunzia
all'applicazione dei decreti, riservandosi a segnalare e contestare
gli atti che implicassero violazione di quella rinunzia.
23 ottobre.
Crispi, a Tunisi. — Si limiti il Console a dichiarare
l'inapplicabilità de' decreti. Il Ministero ha deciso di trattare la
questione esclusivamente a Parigi. Non si comprometta il Console col
Residente francese.
20 ottobre.
Crispi, a Parigi. — Si approva la condotta di Menabrea. La questione
non può essere trattata che a Parigi. Berio ebbe solo istruzione di
dichiarare che i decreti sono nulli ai nostri occhi. Goblet ha dato
prova di non apprezzare la moderazione con cui ci siamo condotti.
Menabrea può fare un ultimo tentativo con Goblet dopo di essersi
inteso con Münster. Se fallirà, provvederassi al da fare. Si loda il
contegno di Ressman.
24 ottobre.
Da Parigi (Menabrea). — Conferì con Goblet. La conversazione fu meno
tempestosa della precedente. Si ripeterono da una parte e dall'altra
le argomentazioni dell'antecedente colloquio. Menabrea notò che il
Bey con quei decreti aveva proceduto ad un atto che il Sultano, suo
alto sovrano, non avrebbe osato di fare nell'impero ottomano ed al
quale i francesi stessi si sarebbero opposti. I tre ambasciatori di
Germania, Italia e Inghilterra si trovarono in quel dì (24) riuniti
al Ministero degli Affari esteri. Münster aveva già esortato Goblet
ad una attitudine conciliante. Lord Lytton dividendo perfettamente
la nostra opinione, aveva detto a Menabrea non essere esatto — come
asseriva Goblet — che Salisbury accettasse i decreti, ma che la
questione era stata sottoposta ai giureconsulti della Corona. Benchè
Goblet non abbia accettato per ora la proposta di Crispi, parve
alquanto scosso e si sarà forse convinto che il meglio a fare per
lui sarà di arrendersi quando Berio avrà fatto le note
dichiarazioni.
26 ottobre.
Da Vienna (Avarna). — Ebbe udienza da Kálnoky. Questi è lieto di
riconoscere la moderazione mostrata da Crispi nella questione.
L'Austria, quantunque non abbia diretto interesse nella questione
stessa, ne aveva degli indiretti e principalissimo quello che la
pace non fosse turbata, e l'Italia sua alleata non si trovasse
complicata in un conflitto. Kálnoky sa dei consigli pervenuti a
Parigi da Londra e da Berlino: tenere quindi fiducia che la Francia
avrebbe cercato di evitare qualsiasi conflitto.
26 ottobre.
Crispi, a Parigi, Vienna, Berlino. — (_Confidenziale_). — Avverte
come sia informato che lord Salisbury discorrendo col R. Incaricato
d'affari a Londra circa i decreti beylicali abbia detto di essersi
già pronunziato sui medesimi dal punto di vista politico, facendo
sapere a Goblet che li riteneva come un atto insensato ed
inopportuno.
26 ottobre.
Crispi, a Tunisi. — «Gli argomenti contenuti nella nota di
Massicault (comunicata da Berio) sono senza valore. Tunisi è per noi
paese a Capitolazioni, perchè sottoposto a Potenza musulmana e in
virtù del diritto incontestato di cui l'Italia godette da tempo
immemorabile. Questo diritto è ricordato dall'art. 1 del Trattato in
vigore col Bey e fu riconosciuto dalla Francia nel protocollo del 25
gennaio 1884. Secondo le Capitolazioni tutto quanto concerne la vita
intellettuale, morale, giuridica della colonia italiana è sottratto
all'autorità del governo beylicale. Gli articoli 15 e 18 sono
erroneamente invocati, perchè relativi alla vita materiale ed
economica, e non potrebbero essere applicati alle scuole ed alle
associazioni non industriali: di più, costituiscono una eccezione, e
in diritto l'eccezione non ammette interpretazione estensiva. Quanto
alla convenzione dell'8 giugno 1883 fra Tunisi e la Francia, non
potrebbe evidentemente alterare le stipulazioni fra il Bey e le
terze Potenze. È inoltre anteriore al protocollo del 25 gennaio 1884
fra noi e la Francia, dove è espressamente stipulato che ogni
immunità e vantaggio accordati dalle Capitolazioni, dagli usi, dai
trattati, resterebbe in vigore. In altre parole il Bey, prima del
protettorato non avrebbe avuto il diritto di emettere tali decreti
non più della Turchia per quanto concerne l'impero ottomano, e se la
Turchia ne emanasse, la Francia si opporrebbe. Ora il protettorato
non saprebbe modificare lo stato giuridico esistente di faccia ai
terzi: 1.º) perchè stabilito senza il loro consenso; 2.º) perchè pel
trattato del Bardo i diritti delle terze Potenze furono dichiarati
inalterabili; 3.º) perchè i nostri diritti, immunità, privilegi ci
furono riconosciuti e garantiti dalla stessa Potenza protettrice. Il
Bey si trova di fronte alla Francia in condizioni di vassallaggio
tali che noi non potremmo impiegare contro di lui i mezzi che
impiegheremmo verso un sovrano indipendente. Oltrecciò i decreti,
essendo stati redatti a Parigi e solamente _pro-forma_ rivestiti
della firma del Bey, è a Parigi che la soluzione dev'essere
concordata. Limitatevi quindi a dichiarare che, secondo il governo
italiano e per le ragioni suddette, i decreti non sono applicabili e
non dovranno essere applicati ai nostri istituti ed alle nostre
associazioni presenti o future, e domandate che di queste
dichiarazioni vi sia dato atto formale. Se il ministro residente si
rifiuta, voi potete dichiarare che vi è interdetta ogni discussione
ulteriore.»
27 ottobre.
Da Parigi (Menabrea) — Partecipò a Goblet il telegramma mandato da
Crispi a Berio (v. doc. 26 ott.), dichiarando i decreti non
applicabili e non da applicarsi mai ai nostri istituti (scuole ed
associazioni) presenti e future in Tunisia.
Pregò Goblet di prendere atto della dichiarazione. Goblet ne prese
atto, dichiarando alla sua volta che manteneva la precedente
interpretazione.
24 ottobre, 2, 7 e 14 novembre.
Da Tunisi. — (_Rapporti_). — Berio (contrariamente alle istruzioni
ministeriali) entrò in discussione con Massicault. Ne' suoi rapporti
si diffonde in particolari, riferendo i colloqui avuti col Residente
francese. Da segnalarsi il solo rapporto in cui Berio dà conto delle
probabilità che avrebbero le pratiche, suggeritegli dal Ministero,
per trarre nella discussione il Console britannico e per mezzo suo
il direttore del Collegio inglese della società per gli ebrei in
Tunisi. Questo direttore, certo Perpetuo di Livorno, uomo ambizioso
e senza carattere, benchè d'ingegno e di studi, erasi accostato alla
Residenza francese: era quindi difficile di giovarsene.
4 novembre.
Crispi, al Console a Tunisi. — «Non vi siete conformato alle mie
istruzioni del 26 ottobre. Dovevate chiedere che il governo del Bey
prendesse formalmente atto delle nostre dichiarazioni, che i decreti
tunisini non sono applicabili e non saranno applicati alle nostre
istituzioni e associazioni presenti e future. Se il governo del Bey
rifiutavasi a prendere atto di ciò, dovevate dichiarare che ogni
ulteriore discussione vi era interdetta. Voi dovevate quindi
ricusare di ricevere anche _ad referendum_ le nuove proposte di
Massicault. Il governo del Re ha una posizione inespugnabile in
diritto e vuol mantenervisi. Dite al signor Massicault che voi avete
sorpassato i vostri poteri accettando _ad referendum_ le proposte
ch'egli vi ha fatto e che il governo del Re si rifiuta d'esaminare.
Il governo del Bey non deve che dare atto della vostra
dichiarazione. Se lo nega, è a Parigi che intendiamo portare il
dibattito.»
11 novembre.
Da Tunisi (Berio). — Riferisce di avere nel corso di una
conversazione con Massicault parlato del mezzo di giungere ad un
accordo; non ha però presi impegni.
31 dicembre.
Da Parigi (Menabrea). — Goblet intrattenne Menabrea di un equivoco
nato tra Massicault e Berio, sulla facoltà di trattare, fra essi e
sul luogo, la questione dei decreti. Menabrea aveva ricevuto
istruzioni perchè fosse discussa esclusivamente a Parigi. Goblet
vorrebbe trattarla a Tunisi.
1 gennaio 1889.
Crispi all'ambasciatore a Parigi. — Sin dal principio eransi date
istruzioni a Berio di astenersi da qualsiasi trattativa sulla
questione delle scuole. Intanto il signor Massicault, sia
direttamente, sia per mezzo del signor Benoit segretario della
Residenza, tentò indurre Berio ad accettare alcune condizioni che
avrebbero potuto compromettere le ragioni di diritto da noi
sostenute presso il governo della Repubblica, che cioè i decreti
beylicali non erano applicabili nè pel presente, nè pel futuro alle
nostre scuole ed associazioni. Berio avendoci riferito delle
proposte di Massicault, gli fu proibito recisamente di accogliere
quelle pregiudicanti i nostri diritti e di limitarsi a redigere da
lui solo e mandare a Roma un progetto d'accordo perchè si potesse
studiarlo e deliberare sul medesimo interdicendogli, in ogni caso,
qualunque negoziazione colla Residenza. Crispi non può quindi che
confermare a Menabrea le precedenti istruzioni perchè la questione
si tratti a Parigi e non altrove.
18 gennaio.
Da Tunisi (Berio). — Massicault gli ha detto che la questione delle
scuole si è composta a Roma e a Parigi. Le basi sarebbero queste: le
scuole esistenti rimarrebbero sotto il regime dello _statu-quo_; le
scuole future verrebbero sottoposte al decreto beylicale.
19 gennaio.
Crispi, a Tunisi. — La notizia data da Massicault a Berio è
inesatta. Nessun accordo avvenne. Il governo italiano si rifiuterà
sempre a riconoscere validi i decreti beylicali, anche per le scuole
future.
16 gennaio.
Da Tunisi (Berio). — Trasmette copia di una Nota da lui diretta a
Massicault per stabilire: 1.º che le trattative erano state iniziate
non da lui (Berio) ma dal Residente; 2.º che Berio ha fatto
proposizioni _ad referendum_ e come sue emanazioni personali.
30 ottobre 1890.
Da Parigi (Menabrea). — Nel convegno ebdomadario Ribot ricordò
incidentalmente a Menabrea le discussioni che ebbero luogo con
Goblet relativamente alla creazione in Tunisia di nuove scuole
italiane che si volevano sottoporre ad una preventiva
autorizzazione. La questione rimase sospesa perchè il governo
italiano aveva finito col dichiarare che in quel momento non si
trattava di istituire nuove scuole, ma solo di mantenere le
esistenti come erano. Ora, vista la creazione iniziata di nuovi
istituti, Ribot domanda se il R. Governo è sempre della stessa
opinione intorno ai propri diritti, e se non avrebbe, non volendo
chiedere qualche autorizzazione, almeno informato l'autorità
beylicale delle sue intenzioni in proposito. Menabrea rispose di non
aver pel momento incarico di trattare siffatto argomento, ma che
teneva per fermo che il governo del Re non avrebbe receduto da ciò
ch'egli crede suo diritto, poichè nello stesso modo che nel
rimanente dell'Impero turco si riconosceva all'Italia la facoltà di
stabilire le sue scuole come le convenisse meglio, essa manteneva i
suoi diritti nella Reggenza, la quale, malgrado il protettorato
francese, non cessa di essere considerata come facente parte
dell'Impero ottomano, per cui manteniamo tuttora i diritti derivanti
dalle Capitolazioni, eccetto in quelle parti alle quali abbiamo
subordinatamente e provvisoriamente rinunciato e che si riferiscono
all'impianto de' tribunali. Ribot non insistette, esprimendo solo la
speranza che il governo italiano l'avrebbe informato della creazione
di nuove scuole e pregò Menabrea d'interpellare su ciò il Ministero.
1 novembre.
Crispi, a Parigi. — Si approva il linguaggio di Menabrea. Non si
crede però di acconsentire a promettere al governo della Reggenza
anche la semplice partecipazione dell'apertura di nuove scuole in
Tunisia. Del resto è questione oggi oziosa, non essendosi aperta
colà alcuna nuova scuola, nè intendendosi aprirne.
Come è manifesto, i diritti dell'Italia rimasero impregiudicati. Il
governo francese era dalla parte del torto, e tacitamente lo riconobbe.
Crispi avrebbe potuto denunziare il protocollo del 1884 e riattivare la
giurisdizione consolare italiana a Tunisi, ch'era stata solamente
sospesa; ma non volle. Della sua moderazione, però, nessuno in Francia
gli tenne conto.
Dal _Diario_:
_22 ottobre._ — Solms mi legge una Nota nella quale si raccomanda al
governo italiano il Sultano dello Zanzibar. La posizione di costui è
abbastanza scossa e bisogna aiutarlo a consolidarsi.
Mi ricorda quanto fu convenuto col conte Erberto Bismarck circa
un'azione comune per impedire la tratta degli schiavi.
Il Sultano del Marocco non va più a Tangeri; egli avrebbe paura
della Spagna. La conferenza per gli affari di quel paese dovrebbe
occuparsi a render possibile la stipulazione di un trattato di
commercio per rendere facili le relazioni coi vari Stati di Europa.
Dovrebbe inoltre determinare le norme per i tribunali misti, e
definire la sorte dei protetti e i limiti dell'autorità consolare
verso i medesimi, e infine assicurare la tutela degli stranieri.
Il viaggio dei gran duchi Sergio e Paolo di Russia a Costantinopoli
non ebbe intenti politici. Essi furono a visitare il patriarca di
Costantinopoli, il quale parlò loro della grande Chiesa ortodossa, e
domandò il patrocinio dello Czar. Il lavoro e l'influenza della
Chiesa ortodossa sembrano divenire importanti ed estendersi in
Oriente a danno della Chiesa latina.
«25 ottobre.
_Son Excellence Monsieur de Giers_,
Ministre des affaires etrangères. S. Pétersbourg.
Ce jour marque un jalon mémorable dans la carrière si meritante de
V. E. à qui cinquante ans de services fìdèles et dévoués constituent
le titre le plus enviable à la reconnaissance de Son Auguste
Souverain et à l'admiration des gens de bien.
Permettez-moi de Vous féliciter au nom du Gouvernement du Roi
d'Italie et en mon nom personnel. Nous poursuivons avec le même zèle
un but identique; le maintien de l'ordre. C'est donc aussi comme
collaborateur que j'exprime à V. E. le souhait le plus sincère que
ses sages conseils soient longtemps conservés à la Russie et à
l'Europe, comme un gage précieux de conservation et de paix.
CRISPI.»
_A Monsieur Crispi_,
Ministre des affaires étrangères d'Italie.
Je prie Votre Excellence d'agréer mes très sincères remercîments
pour les félicitations et les sentiments qu'elle à bien voulu
m'exprimer à l'occasion de mon jubilé. Veuillez croire que j'y
attache beaucoup de prix.
GIERS.»
_27 ottobre._ — Il conte Solms mi parla del nuovo ambasciatore di
Francia signor Mariani, conciliante, _souple_, autorevole in materia
di commercio.[26]
[26] Il signor Mariani, durante la sua breve missione (morì in Roma
nel gennaio 1890) non modificò, naturalmente, la politica francese
verso l'Italia, ma si fece apprezzare per l'animo sereno e la leale
condotta.
China — passaporti — non sono vistati quelli dei sudditi tedeschi
non provenienti dalla Germania. Ringraziamenti alla Francia per la
protezione sinora prestata. L'Italia farà lo stesso. Solms mi chiede
copia della nota che invieremo alla Francia su questo argomento.
_9 novembre._ — Solms: mi dà un lavoro su Biserta.
Mi parla del nuovo ambasciatore che il ministro Vega de Armijo vuol
mandare a Roma. Il Vega è puro cattolico e sarebbe lieto di poter
rendere qualche servizio al Papa. Si conserverà amico delle tre
Potenze, senza mostrarsi ostile alla Francia.
I francesi studiano una ferrovia da Oran a Figuig. Sarebbe una
ferrovia militare.
Da una Nota del 19 risulta che il Sultano fa l'amore ora col gruppo
franco-russo, ora con la triplice. Al Sultano non converrebbe
allearsi con le tre Potenze. Vorrebbe conoscere l'autore della
celebre lettera della _Correspondance de l'Est_.
_20 novembre._ — Il conte Kálnoky, al quale Sua Maestà ha conferito
l'Ordine supremo della Ss. Annunziata, mi scrive dicendosi vivamente
commosso di cotesta manifestazione di alto favore e
dell'approvazione che il Re accorda alla linea politica che
seguiamo, e mi esprime sentimenti di sincera cordialità.
L'alta onorificenza conferita al conte Kálnoky attestò i buoni rapporti
stabiliti fra l'Italia e l'Austria. L'imperatore Francesco Giuseppe
aveva sin dal giugno manifestato la sua soddisfazione per i buoni
risultati ottenuti dalla politica di Crispi. In una lettera privata del
2 giugno il conte Nigra scriveva:
«Il conte Kálnoky mi disse confidenzialmente che S. M. l'Imperatore
desiderava testimoniare a V. E. la sua particolare stima e
benevolenza, conferendole il Gran Cordone di Santo Stefano, che è
l'Ordine più elevato che si conferisca qui ai non-sudditi austriaci
(il Toson d'Oro essendo riservato ai nazionali e ai principi e
sovrani esteri.)»
_27 novembre._ — De Bruck. È venuto a manifestarmi i timori di
Kálnoky sulle cose tunisine. Gli sarebbe stato scritto che i
rapporti tra Berio e Massicault sono tesi e che da un momento
all'altro potrebbe esservi rottura. Il Kálnoky non vorrebbe che la
guerra scoppiasse in Africa.
Ho risposto che nulla v'è da temere. Berio ebbe ordine di non
trattare la questione delle Scuole, dovendo di essa occuparsi il
nostro Ambasciatore a Parigi, dove la questione dev'essere risoluta.
A Bukarest le tre Potenze sono d'accordo.
_3 dicembre._ — Visita di de Bruck. Boulanger dichiara di volere una
repubblica tollerante, aperta a tutti. Qualcuno crede che egli sarà
un secondo Monk. Audiffret-Pasquier in Senato ha dichiarato che si
emancipa da' suoi amici della Camera. Alle prossime elezioni
generali i conservatori voteranno per i loro e faranno tutto il
possibile per vincere. Non potendolo, voteranno per Boulanger.
Il Boulanger lavora con fortuna a preparare le elezioni. I radicali
contano sugli opportunisti per combattere i boulangisti e la destra.
Il presidente Carnot non darà a Floquet il diritto di sciogliere la
Camera, riserbandolo ad un nuovo ministero Freycinet.
Nei primi di dicembre l'on. Crispi riceveva sulla situazione interna
della Francia le seguenti informazioni:
«Attraversiamo una quindicina che non fu priva di incidenti ed
emozioni; essa principiò con l'annunzio fatto da parecchi giornali
di un _colpo di Stato_, ordito dal ministero Floquet contro il
generale Boulanger ed i suoi aderenti, e si entrava in alcuni
particolari circa le misure prese per compierlo, che al primo
momento davano un'apparenza di verità a quella notizia; ma tosto si
vide che essa non era che una finzione per dare luogo ad una
interpellanza alla Camera e costringere il Ministero a spiegarsi sui
progetti che gli erano attribuiti e smentire, in conseguenza, le
supposte misure dichiarandole contrarie alle leggi e legandosi con
ciò stesso in un certo modo. Benchè l'annunziato colpo di Stato sia
stato una finzione, tuttavia non vi ha dubbio che si sia studiato e
si pensi tuttora al modo di liberarsi dal generale Boulanger, la cui
influenza, anzichè diminuire, tende ad aumentare e che si teme di
più in più, a misura dell'approssimarsi delle nuove elezioni, che
debbono aver luogo nel venturo anno.
La grande dimostrazione del 2 dicembre ultimo, sulla quale si faceva
assegnamento, da una parte, per provocare manifestazioni contro
Boulanger, mentre dall'altra il municipio, che gli è ostile, sperava
crearsi un piedistallo per coronare i suoi tentativi di assumere la
suprema autorità sulla città di Parigi, quella dimostrazione, dico,
andò fallita. Al contrario, in quella simultanea di Nevers il
generale Boulanger ebbe occasione di raccogliere intorno a sè le
opinioni diverse, ma tutte concordi per mettere fine al sistema
attuale di governo, per il quale la considerazione pubblica va ogni
giorno maggiormente scemando, in seguito agli scandali che succedono
fra i membri del Parlamento, i quali si accusano a vicenda di
corruzione pecuniaria e si abbandonano, nelle sedute pubbliche, ad
eccessi contrari ad ogni principio di vivere civile. Così il
Boulanger ha bel giuoco e benchè non si veda quale sia il suo scopo
finale, se però ne ha uno, egli evita intanto di compromettere la
sua posizione rispetto all'opinione pubblica, dichiarando che tutta
la sua operosità ha per oggetto di conservare la Repubblica,
minacciata e compromessa dai disordini di ogni specie che si
rimproverano al sistema attuale.
Quale sarà la repubblica di Boulanger se egli giunge ad esserne il
capo? I due partiti orleanista e bonapartista sperano ognuno di
usufruttarlo per proprio conto; ma non è improbabile che fra i due
litiganti, il popolo esitando sulla scelta da fare, il generale
Boulanger prenda il partito di mezzo e rimanga lui stesso capo della
Repubblica che avrà ricostruito, la quale può, sotto lo stesso nome,
prendere varie forme, anche quella di un impero, come accadde con
Napoleone I, sulle cui prime monete si legge ancora, da una parte,
_République française_, e dall'altra _Napoléon empereur_. È dubbio
assai che il Boulanger possa giungere sino a questo punto; ma è pure
inutile di pronosticare sull'avvenire, imperocchè in questo paese,
più che in ogni altro, dell'indomani si è sempre incerti.
Di questo stato di confusione d'idee in cui si trova attualmente la
Francia si accagiona la libertà illimitata di cui abusa la stampa; i
primi a protestare contro di essa sono quelli stessi che, altre
volte, la propugnarono con convinzione, ed uno di questi è
l'ex-presidente Giulio Grévy, che si confessava una volta di avere
errato nel sostenere nel Parlamento la legge sulla stampa. Fra i
punti che dànno luogo ad attacchi contro il governo, uno dei
principali è il disordine finanziario dello Stato che trascina
dietro sè, da un esercizio a un altro, un disavanzo che cresce
sempre e che tosto raggiungerà il _miliardo_, senza che si veda
ancora il modo di coprirlo. Si è proposto a tale effetto una tassa
sulla rendita, ma questa venne or ora respinta quasi all'unanimità
dalla Commissione della Camera; per cui, a meno che il Ministero
ritiri il disegno di legge, questo provocherà, di certo, una
discussione vivissima in cui esso avrà probabilmente la peggio. Ad
ogni modo la questione finanziaria sarà quella che darà luogo alla
battaglia dei partiti contro il Ministero, gli uni per rovesciarlo,
gli altri per trasformarlo in senso ancora più radicale.
In mezzo a questi intrighi ed agitazioni parlamentari il ministro
che sembra avere preso la posizione la più solida e più rispettata è
quello della guerra, il signor di Freycinet, che, nel disimpegno
delle sue importanti funzioni, dimostra attitudini veramente
speciali, per cui benchè non sia militare, egli ha saputo
guadagnarsi la fiducia dell'esercito, rimanendo nei limiti delle sue
specialità ed occupandosi di perfezionare, sotto il doppio riguardo
morale e materiale, il potente strumento che gli uomini di guerra
dovranno maneggiare. Egli si studia di migliorare la condizione dei
soldati e degli ufficiali; cerca di fare sparire quelle rivalità che
furono così funeste alla Francia; attende a specializzare le
attribuzioni dei vari elementi che costituiscono l'esercito, fa in
modo di porre un freno a quelle supremazie colle quali alcune armi,
alcuni corpi tentano sempre d'imporsi; epperciò stabilisce che tutte
le armi siano ugualmente trattate e fa in modo che le attribuzioni
dei singoli elementi dell'esercito siano ben definite, affinchè
ognuno concorra con tutta la propria energia, allo scopo comune.
Nella sua qualità di distintissimo ingegnere egli si preoccupa
dell'ordinamento delle ferrovie, affinchè la mobilitazione, i
concentramenti si effettuino colla massima rapidità, e per secondare
i movimenti che possano accadere nello attacco come nella difesa.
L'ordinamento delle opere di fortificazioni per mettere in grado di
resistere ai potenti mezzi di attacco testè introdotti negli
eserciti, è oggetto della sua particolare attenzione. Questa si
rivolge più specialmente alla fabbricazione delle nuove armi adatte
alle potenti materie esplosive recentemente scoperte; si lavora con
febbrile attività per dotare l'esercito di tali nuovi strumenti da
guerra, affinchè esso ne sia interamente provveduto nella prima metà
del venturo anno. Si ha luogo di pensare che la Francia, in questo
momento specialmente per le materie esplosive, è più avanti di tutte
le altre nazioni, ed è su questa prevalenza che si fa assegnamento
per ottenere il vantaggio nell'attacco come nella difesa. I mezzi di
cui questo esercito sarà tosto provveduto sono tali che una nuova
tattica ne sarà una conseguenza necessaria; ed è perciò che si sta
ora pensando ad elaborare una tale tattica, che, non avendo ancora
alcun precedente, resta tuttora alquanto incerta. La superiorità che
la Francia ha acquistato e che finora si mantiene nelle confezioni
delle materie esplosive è dovuta a che quella parte del servizio di
guerra è affidato ad un corpo di ingegneri speciale, distinto da
quello di artiglieria ed interamente dedicato agli studi che si
riferiscono a quella importante materia. Le ricerche che hanno
condotto agli esplosivi ora adottati vennero eseguite nello
stabilimento centrale delle polveri in vicinanza di Parigi, e furono
sussidiate dal concorso dei più eminenti scienziati dell'Istituto di
Francia, fra i quali il signor Berthelot, ex-ministro della pubblica
istruzione ed autore di un trattato classico sulle materie
esplosive. La composizione chimica di queste nuove polveri è
sufficientemente conosciuta dopo che parecchie Potenze, fra le quali
la Germania, ne poterono avere alcuni saggi; ma ciò che non si
conosce bene ancora è la loro manipolazione. Intanto, finchè non si
siano potuti raggiungere i risultati ottenuti dalla Francia, è
opportuno di badare alla superiorità che sotto quel riguardo
possiede tuttora l'esercito francese. Un ufficiale delle armi
speciali, che ha assistito alle esperienze fatte in proposito, mi
narrava, non ha guari, che restò meravigliato degli effetti di
proiezioni della polvere. Essa non dà quasi fumo, il rumore di
esplosione del fucile rassomiglia a quello di una capsula ordinaria;
la traiettoria è talmente tesa che, sino a 500 metri, il cambiamento
dell'alzo è inutile e la forza di penetrazione col fucile Lebel è
tale che a quella distanza le palle possono attraversare lo spessore
di carte rilegate in libri da sette a otto centimetri. Si conoscono
già gli effetti prodotti dall'esplosione dei proiettili delle bocche
da fuoco; ma un risultato da notare è che i gaz sviluppati in queste
esplosioni sono _estremamente tossici_. Dò termine a questa
digressione militare col dire che fra i ministri attuali, quello che
ha preso la posizione più solida è, come dissi, il signor Freycinet;
egli si trova all'infuori delle dispute politiche, è tutto dedito al
suo presente ufficio, si riserva per l'avvenire.
Mi rimane a parlare dei rapporti apparenti attuali della Francia
colla Russia. È da notare che molti Principi della famiglia
imperiale russa fanno da qualche tempo soggiorni prolungati in
Francia come a Biarritz, e specialmente a Parigi, dove trovano una
festosa accoglienza dalla popolazione e dal rappresentante stesso
dello Stato, il presidente della Repubblica. In questo momento la
Russia è considerata quasi come un'alleata; il prestito di 500
milioni, testè da essa conchiuso con una delle principali Banche di
Parigi, è il legame che unisce i due paesi, per cui tutti gli sforzi
degli speculatori sono rivolti a fare riuscire l'imprestito a
detrimento degli altri valori, e specialmente degli italiani, che si
tenta di deprimere in tutti i modi col rappresentare il nostro paese
come rovinato per effetto della denunzia del nostro trattato di
commercio colla Francia. Non passa giorno senza che nei giornali
anche più seri vi sia qualche articolo di fondo sulla nostra
condizione finanziaria per indurre i portatori dei nostri titoli a
liberarsene per investire il loro denaro nei nuovi fondi russi.
Però, a quanto pare, i detentori di fondi italiani non si lasciano
facilmente sedurre, e quantunque il nostro paese sia dipinto sotto i
più cupi colori, qui si sente che l'Italia è tuttora considerata
come la _Frugum alma parens, saturnia tellus_, e che se vi manca un
po' di moneta per gli scambi, vi si produce sempre abbastanza da
_campare_ largamente sia per il vivere, sia per il _conforto_ della
vita.
L'irritazione contro l'Italia, benchè vada scemando, è lungi però
dall'essere sul punto di sparire; essa è mantenuta dallo spirito di
_chauvinisme_ che domina anche nelle menti più sane, e benchè grande
sia in molti il desiderio di un sincero e duraturo riavvicinamento
con l'Italia, questo popolo non può ancora assuefarsi a che
l'Italia, nel costituire la sua unità, sia sfuggita a quel
protettorato, almeno morale, che la Francia intendeva esercitare
sulla nostra nazione. Fra i più tenaci _chauvins_ non è cancellata
la speranza di uno sfasciamento dell'Italia; ed è perciò che i
lamenti del Papa per la perdita del potere temporale trovano la più
rumorosa eco, non solo nel clero, ma anche nei laici francesi,
perfino in quelli che sono i meno praticanti ed anche liberi
pensatori. Credo adunque che il nostro governo, mantenendo ognora
fermi i principî d'indipendenza e di unità coi quali si è
ricostituita la nazione, riuscirà — mostrandosi, d'altra parte,
arrendevole nelle cose meno importanti che non compromettono quei
principî — credo, dico, riuscirà a persuadere gli stranieri che
siamo oramai una rispettabile nazione, mentre si dissiperanno quelle
nubi che rendono tuttora difficili assai i nostri rapporti con
questo paese, rapporti che abbiamo pure grande interesse a mantener
buoni.»
CAPITOLO UNDECIMO.
1889.
Il suicidio dell'arciduca Rodolfo di Asburgo. — La
Federazione balcanica e una iniziativa di Crispi. —
L'inaugurazione dell'Esposizione di Parigi. — Il pericolo
di guerra con la Francia: missione del cardinale Hohenlohe
presso Leone XIII; missione del deputato Cucchi presso il
principe di Bismarck. — Italiani a Parigi. — L'abolizione
delle tariffe differenziali e l'ostilità della Francia. —
Giudizii di Spuller sulla stampa francese.
Il 1889 fu nella politica internazionale un anno di gravi preoccupazioni
e di dolorosi avvenimenti.
Gl'incidenti di Firenze, di Massaua e di Tunisi avevano esasperato
l'opinione pubblica in Francia, tantochè quel governo fu tentato di
risolvere a suo vantaggio la contesa circa le scuole italiane in Tunisia
con l'annessione della Reggenza, e, a un dato momento, la guerra parve
imminente. L'alleanza franco-russa fortunatamente era ancora _in fieri_;
chè anche in Russia l'irritazione era grande per la perduta influenza in
Bulgaria e in Rumania. La triplice alleanza “costeggiata„ cautamente
dall'Inghilterra, dette allora la misura della sua forza fronteggiando e
risolvendo man mano tutte le difficoltà, mostrandosi concorde e decisa,
ma tenendosi sempre sulla difensiva. Leggendo i documenti si ha la
spiegazione dell'ansietà che dominò in quell'epoca nelle Cancellerie
d'Europa, e si giustificano altresì le accuse che allora si movevano
alla Francia e alla Russia di essere esse la causa di tutte le
inquietudini e degli enormi armamenti.
L'amicizia e la reciproca fiducia del principe di Bismarck e dell'on.
Crispi si erano saldate al fuoco della lotta quotidiana. L'Italia era
senza restrizioni per la Germania, convinta che la politica di questa
sinceramente tendeva alla pace; la Germania, sicura dell'Italia, ne
sosteneva dovunque il prestigio e gl'interessi, oltre la parola del
trattato di alleanza. Dai brani del _Diario_ che precedono ciò risulta
luminosamente.
A capo d'anno vi fu tra i due uomini di Stato questo scambio di augurii:
Friedrichsruh, 31/12/1888.
Je prie V. E. vouloir bien agréer les vœux qu'avec ma femme je
forme pour sa sante et pour son bonheur et de me conserver son
amitié personnelle et les sympathies politiques qui nous uniront à
l'avenir comme dans le passé.
BISMARCK.
Roma, 1/1/1889.
Je remercie Votre Altesse de m'avoir si aimablement devancé. Les
vœux que Votre Altesse et Madame la Princesse de Bismarck veulent
bien m'exprimer sont ceux que je forme de grand cœur à leur
endroit. Mes sentiments personnels sont trop connus de Votre Altesse
pour que j'aie à lui dire combien profondes et sincères sont mon
amitié et mon admiration pour elle. Je souhaite que nos sympathies
politiques soient également inaltérables, car de même que nous avons
les amis communs, nos ennemis sont les vôtres.
CRISPI.
Alla fine di gennaio, la Casa imperiale d'Austria-Ungheria fu colpita da
una grave sciagura, il suicidio del principe ereditario Rodolfo.
Su questi avvenimenti l'on. Crispi ebbe da fonte attendibile le
informazioni che seguono: le quali pubblichiamo per contribuire a
distruggere le varie leggende che vorrebbero gettare una peggior luce
sull'infelice Arciduca:
«Vienna, 6 febbraio 1889.
Il mattino di mercoledì 30 gennaio scorso, l'Arciduca fu trovato nel
suo letto a Mayerling, ucciso da palla alle tempia. Giaceva sullo
stesso letto vicino a lui il cadavere, parimente traforato da palla
alla testa, della signorina Maria Wetchera, figlia della vedova
Baronessa e del fu barone Wetchera, già Agente austro-ungarico in
Egitto, giovanetta diciottenne assai nota nella società di Vienna
per la sua avvenenza.
Si tratterebbe quindi d'un doppio suicidio.
L'autopsia del cadavere della ragazza avrebbe rivelato che non era
intatta, ma che non era incinta, come era stato supposto.
Sembra che l'Arciduca avesse visto per la prima volta la giovane
Wetchera alle corse del _Derby_ di Vienna in primavera e fosse stato
vivamente colpito dalla di lei bellezza. Non era mistero in Vienna
che l'Arciduca non viveva in grande armonia colla consorte,
arciduchessa Stefania, e che in realtà i due sposi da molto tempo
non avevano più intimità. L'Arciduca non poteva più sopportare la
convivenza colla moglie, e si assicurava perfino che avesse chiesto
all'Imperatore di poter divorziare, per sposare la signorina
Wetchera, e che ne avesse ricevuto, come ben si può supporre, un
rifiuto accompagnato da rimproveri. La baronessa Wetchera madre, che
non ignorava le attenzioni dell'Arciduca verso sua figlia, ma che si
assicura avere ignorato fino a qual punto queste attenzioni fossero
intime, aveva passato colla figlia qualche tempo a Londra, durante
la stagione estiva, in giugno e in luglio; poi passò il resto
dell'estate a Reichnau, non lungi da Vienna. L'intimità fra la
giovane e l'Arciduca, favorita, dicesi, dalla compiacenza d'una
signora, amica della casa Wetchera, e dal comprato silenzio della
domesticità, avrebbe cominciato nello scorso ottobre e avrebbe
continuato fino al momento della catastrofe. I luoghi di convegno
sarebbero stati il Prater, il giardino ed il palazzo di Modena,
appartenenti all'arciduca Francesco d'Austria-Este, la casa stessa
della baronessa Wetchera, in di lei assenza, e la casa dell'arciduca
a Mayerling. Questa casa, o meglio l'agglomerato di case di
Mayerling, antico convento, poi residenza di campagna, era divenuto
da qualche anno proprietà dell'Arciduca, che ne aveva fatto una
residenza di caccia; ed è situato in una valle, fiancheggiata da
boschi, che si dirama dalla Helenenthal, valle principale di Baden
presso Vienna.
Domenica 27 gennaio scorso, l'arciduca Rodolfo assistette insieme
coll'Imperatore, con varii Arciduchi e Arciduchesse, e
coll'arciduchessa Stefania, sua moglie, ad una serata presso il
principe e la principessa di Reuss. A questa serata, a cui assisteva
tutto il Corpo Diplomatico estero e tutta l'alta società di Vienna,
c'era pure la baronessa Wetchera colla figlia. Parlai, io stesso,
alla prima e stetti qualche tempo vicino alla seconda, non senza
notare che i di lei occhi erano costantemente fissi sul Principe
Imperiale. Mi si dice che questi le parlò. Io non lo vidi. Ma sembra
certo che, sia di viva voce, durante quella serata, sia, come pure
si dice, con un biglietto mandato l'indomani, la signorina avvertì
il Principe che sarebbe andata a raggiungerlo a Mayerling.
Il lunedì 28 gennaio, nel pomeriggio, l'Arciduca si recò a Mayerling
e invitò a una partita di caccia, per l'indomani mattina, suo
cognato il duca Filippo di Sassonia Coburgo ed il conte Hoyos, suo
famigliare.
La signorina Wetchera, nel pomeriggio dello stesso giorno di lunedì
28 gennaio, eludendo la sorveglianza della dama di compagnia che era
entrata per qualche istante nel magazzino di Rodek al Kohlmarkt, si
mise in un fiacchero e pervenne, la sera stessa, alla casa di caccia
di Mayerling. La madre, inquieta di questa fuga, si sarebbe diretta,
per avere notizie della figlia, alla polizia, che non seppe o non
volle dargliene. Fatto è che la ragazza passò la notte del 28 al 29
gennaio coll'Arciduca e nella di lui camera. Il martedì mattina, 29
gennaio, l'Arciduca non prese parte alla caccia e fece dire al duca
Filippo di Coburgo e al conte Hoyos che avessero a cacciare senza di
lui. Dopo la caccia, nel pomeriggio, l'Arciduca, che avrebbe dovuto
far ritorno a Vienna per assistere ad un pranzo di famiglia, pregò
il duca Filippo di Coburgo, che doveva assistere allo stesso pranzo,
di scusarlo presso l'Imperatore e l'Imperatrice, e telegrafò pure
all'arciduchessa Stefania per iscusarsi, allegando una leggiera
indisposizione.
Il conte Hoyos rimase a Mayerling. La caccia doveva ricominciare di
buon'ora il mattino seguente, mercoledì 30 gennaio.
L'Arciduca passò ancora quella notte colla signorina Wetchera. Il
fiaccheraio dell'Arciduca, Bratfisch, fu ammesso, dicesi a tarda
sera, alla presenza dell'Arciduca e della giovane e cantò per
divertirli.
E qui si passò nelle prime ore del mattino del 30, la tragedia del
doppio suicidio.
La giovane parrebbe essere stata uccisa la prima di mano
dell'Arciduca, in seguito a risoluzione presa da entrambi di morire
insieme; ma è anche possibile che essa si sia uccisa di propria
mano. Pare certo però che sia morta per la prima, perchè fu trovata
ben composta nel letto colle mani incrociate. L'Arciduca invece
pendeva dalla parte superiore del corpo un po' fuori del letto, col
braccio penzoloni, e con spruzzi di sangue sul petto, gettati a
quanto pare dalla ferita della giovane morta.
Queste sono le supposizioni fondate sull'ispezione dei cadaveri. Non
hanno tuttavia il carattere di certezza. Le circostanze immediate e
concomitanti della doppia uccisione non ebbero testimoni. Per quale
straordinaria eccitazione d'animo e di sensi, per quale reciproca
esaltazione di spirito in delirio, o per quale follia dell'uno o
dell'altra o d'entrambi, tale catastrofe sia accaduta, è un segreto
che starà probabilmente sepolto nelle due tombe, nella modesta fossa
di Heiligenkreuz e nell'arca della Chiesa dei Cappuccini di Vienna.
Come la notizia sia stata portata a Vienna dal conte Hoyos, come sia
stata inviata sul luogo una Commissione imperiale di cui facevano
parte il prof. Wiederhofer, medico della Corte e il Cappellano della
corte, e come il corpo del defunto Arciduca sia stato trasportato a
Vienna nella notte dal 30 al 31 gennaio, fu raccontato, fin dai
primi giorni, dalla stampa ufficiale viennese.
Il cadavere della giovane, dopo fatta l'autopsia, fu sepolto colla
maggior possibile secretezza, ma coll'assistenza della madre nel
cimitero di Heiligenkreuz, vicino circa quattro chilometri a
Mayerling.
Come lugubre episodio del dramma, il cacciatore dell'Arciduca,
confidente o per lo meno conscio di questi amori, si sarebbe pur
egli suicidato. Il di lui corpo sarebbe stato seppellito a Baden; la
circostanza avrebbe contribuito ad accreditare la versione, corsa
nei primi momenti, che l'Arciduca fosse stato ucciso da un
guarda-caccia o guarda-foreste.
La lettera dell'Arciduca al sig. De Szögyeny, resa ora pubblica
nella sua sostanza per mezzo dei giornali, nella quale è annunziato
il proponimento del suicidio del Principe, è stata scritta nel
mattino del 30 gennaio, e quindi immediatamente prima, forse pochi
minuti prima del colpo. Ma rimane incerto, per ora almeno, se sia
stata scritta prima delle due morti, ovvero nell'intervallo fra
l'una e l'altra».
«Vienna, 14 febbraio 1889.
Aggiungo alcuni nuovi particolari, appresi da fonte autorevole,
intorno alla morte dell'arciduca Rodolfo. Il lunedì 28 gennaio, nel
pomeriggio, la giovane Maria Vetsera (così deve essere scritto
questo nome), uscì di casa in compagnia della contessa Maria Larich,
nata _von Wallersee_ (figlia di S. A. R. il duca Lodovico di
Baviera). Nella via del Kohlmarkt, la contessa Larisch entrò nel
magazzino dei fratelli Rodeck. Maria Vetsera colse questo momento
per fuggire, e si recò, come narrai precedentemente, a Mayerling,
dove l'Arciduca si era recato nello stesso giorno. La ragazza portò
con sè il revolver, col quale fu poi compiuto il doppio suicidio. La
madre, baronessa Vetsera nata Baltazzi, avvertita della disparizione
della figlia e presumendo dove essa doveva trovarsi, si recò nella
stessa sera presso il direttore di polizia, barone Francesco von
Krauss, e l'indomani presso il Ministro dell'Interno, che l'avrebbe
rassicurata, dicendole che l'Arciduca doveva venire il giorno stesso
a pranzo dall'Imperatore, che gli avrebbe parlato in proposito e che
intanto non conveniva fare scandali. Il 30, nel mattino, la madre
vieppiù inquieta si recò alla Burg e chiese dell'Imperatrice. Sua
Maestà che aveva di già appresa la notizia della doppia morte, volle
dare ella stessa alla baronessa Vetsera la dolorosa notizia, e
appena questa introdotta in di Lei presenza, le disse piangendo: «I
nostri poveri figli sono morti».
Nessuno sa, è bene ripeterlo, come la catastrofe sia accaduta. Ma è
certo che il revolver fu portato dalla ragazza e che questa morì per
la prima. Si deve supporre, che essa, o in seguito ad un rifiuto
dell'Arciduca, d'accondiscendere ad una proposta di fuga e di vita
comune, o per disperazione in previsione d'un abbandono più o meno
prossimo, o per sovreccitazione d'uno spirito dominato da prepotente
passione, si tirò alle tempia il colpo di revolver che l'uccise. Se
questa ipotesi che sembra probabile è vera, si spiega facilmente
come l'Arciduca, che non aveva con sè nessun revolver, che pareva
lieto, che aveva fatto inviti a caccia per quel giorno e per
l'indomani, che s'era divertito nella prima parte della notte a
sentire cantare il fiaccheraio Bratfisch, trovandosi, ad un tratto,
in presenza del cadavere d'una ragazza di buona famiglia, che s'era
uccisa per amor suo e nel suo letto, e prevedendo le conseguenze
d'una tale catastrofe per la sua fama, per il suo avvenire e per
l'onore della sua Casa, sia stato condotto al proposito d'uccidersi
anch'esso. Sembra che un certo tempo sia difatti trascorso fra la
morte della ragazza e quella dell'Arciduca. Nel frattempo questi
avrebbe scritto le lettere da lui lasciate e segnatamente quella al
sig. de Szögyeny.
L'ipotesi che l'Arciduca e la ragazza si siano uccisi per accordo
deliberato insieme non sembra ammissibile.
L'Arciduca aveva notoriamente altre relazioni simultanee, il che
escluderebbe in lui l'esistenza d'una passione prepotente e furiosa.
È più verosimile che l'Arciduca abbia considerato le sue relazioni
colla giovane Vetsera nello stesso modo che quelle che aveva avuto e
aveva con altre donne, e che abbia preso l'amore di questa ragazza
per lui con eguale leggerezza o indifferenza. Invece si sarebbe a un
tratto trovato in presenza d'una passione violenta che l'avrebbe
spaventato o annojato, e alla quale avrebbe voluto sottrarsi. Il
convegno di Mayerling, se pure vi fu convegno e non sorpresa,
sarebbe stato non chiesto, ma subìto dall'Arciduca; e la ragazza vi
si sarebbe recata, munita di revolver da lei procuratosi in Vienna,
come fu accertato, colla determinazione di uccidersi se avesse avuto
la certezza di un prossimo abbandono. Questa, ripeto, è pura
ipotesi, ma fra tutte quelle imaginate finora è la più fondata.
Contrariamente a quanto fu narrato in sulle prime, la madre,
baronessa Vetsera, non fu lasciata andare a Mayerling. Ci andarono
invece, avvertiti appositamente dalla polizia, un fratello di lei,
sig. Baltazzi e suo cognato barone di Stockau, e ciò nella sera del
30. Nel pomeriggio di quel giorno la Commissione Imperiale recatasi
a Mayerling fece trasportare il cadavere della ragazza, avvolto in
un lenzuolo, in una camera vicina, che fu chiusa e sigillata. Poi fu
fatta la ricognizione del cadavere dell'Arciduca e questo fu
trasportato nella notte a Vienna. In quella medesima notte il sig.
Baltazzi e il barone di Stockau furono autorizzati a portare con sè
il cadavere della propria nipote, ma secretamente, nella propria
carrozza. Essi difatti trasportarono il cadavere fino al Convento di
Heiligenkreuz, dove, chiuso in una cassa, fu provvisoriamente
seppellito nel cimitero. La madre ebbe poi il permesso di far
trasportare, quando vorrà, in altro luogo, la cassa, che intanto sta
nel cimitero di Heiligenkreuz.»
L'idea di cercare la soluzione della questione d'Oriente in una
Federazione dei gruppi nazionali della penisola balcanica è antica.
L'on. Crispi, il quale da lungo tempo l'apprezzava, anche in omaggio al
principio di nazionalità che aveva trionfato nel Risorgimento italiano,
prese l'iniziativa di tradurla in atto. Ne parlò dapprima a Bismarck e a
Kálnoky; e l'intento immediato essendo quello di opporre una diga
all'invadenza della Russia, e di rafforzare la Triplice in Oriente, ebbe
i due Cancellieri consenzienti.
In aprile 1889, Crispi propose, come avviamento alla Federazione, una
lega militare tra Rumenia, Bulgaria e Serbia. Ed ecco in quali
circostanze.
Il Re Carlo e i liberali rumeni, offesi per l'ingratitudine con la quale
la Russia, annettendosi la Bessarabia, aveva compensato il valido
concorso dell'esercito rumeno nella guerra del 1877, ostacolavano
l'influenza russa nel loro paese, e costruivano fortificazioni lungo il
Seret per precludere ai russi la miglior via d'invasione nei Balcani.
Il ministro rumeno a Pietroburgo presentando, nei primi di aprile di
quell'anno, le sue credenziali allo Czar, questi gli disse che “la
Rumania non comprendeva affatto i propri interessi„; e si espresse in
termini vivi “contro la dinastia colà regnante di principi stranieri„. E
anche il ministro degli Affari esteri, Giers, parlando in quei giorni
coll'ambasciatore d'Italia, Marocchetti, deplorò “i continui errori
della politica rumena„ e osservò che “l'attuale dinastia non essendo
ortodossa, non corrisponde ai veri interessi del paese„.
Andato al potere, per le esigenze della situazione parlamentare rumena
il partito conservatore, amico della Russia, il signor Lascar Catargi
che lo presiedeva fece le seguenti dichiarazioni:
“La politica estera che il signor Carp voleva seguire è talmente
antinazionale, che se egli osasse confessarla non potrebbe probabilmente
continuare a vivere in questo paese.
Il Ministero Rossetti-Carp, al pari del Governo di Bratiano, è stato un
governo personale del Re. — È dovere del Parlamento accusare qualsiasi
governo personale, e se il paese vuole che il Re non possa più fare una
politica personale, deve esso abbattere tutti i governi di questo
genere. _Non aggiustate il manico alla falce._„
L'irriverenza di siffatto linguaggio e l'esplicito biasimo inflitto alla
politica estera inaugurata dal Bratiano ed accettata dal Carp,
indisposero tutta la stampa liberale. Anche l'Inghilterra se ne
preoccupò e lord Salisbury si affrettò a far pratiche attive per
incoraggiare il re Carlo a non lasciarsi sopraffare dalla Russia.
L'on. Crispi, il 15 aprile, telegrafava agli ambasciatori italiani a
Vienna e a Berlino.
«Dalle nostre informazioni risulta che il linguaggio tenuto dal sig.
Catargi in Parlamento sarebbe assai poco rassicurante in quanto che
costituirebbe una vera requisitoria contro la politica estera del
Gabinetto caduto e sarebbe irriverente per il Re che accusa di avere
voluto avere un governo personale. Questo contegno del primo
Ministro rivela una situazione grave sulla quale crederei superfluo
richiamare l'attenzione di codesto Governo se non mi sembrasse
opportuno ed urgente stabilire una comune linea d'azione in vista di
possibili rivolgimenti in Rumania.
Voglia esprimere la mia preoccupazione e riferire.»
Il 18 aprile Crispi telegrafava all'Ambasciatore a Berlino:
Apprendo da Pietroburgo che il Governo russo togliendo pretesto
dalla espulsione di alcuni sudditi russi dalla Rumania, ha ordinato
al suo Ministro a Bukarest di chiedere:
1.) Inchiesta severa;
2.) Punizione dei funzionari che hanno espulso;
3.) Indennità pecuniaria.
È chiaro che tali domande conducono ad una di queste due
conseguenze: o far cedere il Governo rumeno in una questione
d'ordine interno e di polizia, nella quale è solo giudice
competente; o se il Governo non cede, far seguire le accennate
intimazioni da una azione che comprometta l'autonomia rumena.
Ho messo in avviso i Gabinetti di Vienna e di Londra. Credo
opportuno far notare anche a Berlino che una guerra in Oriente
potendo avere eco sul Reno, sarebbe bene che codesto Gabinetto
s'interessasse attivamente di quanto avviene in Rumania.
Da Berlino fu risposto che il Governo germanico divideva gli
apprezzamenti di Crispi, ma che non avendo la Germania interessi vitali
in Rumania, spettava più specialmente all'Austria di vigilare verso i
paesi danubiani. Il conte di Bismarck opinava che per ristabilire una
comune linea di azione in vista di eventuali rivolgimenti in Rumania,
sarebbe stato bene che Crispi si rivolgesse all'Austria e
all'Inghilterra “spiegando i motivi della sua provvida iniziativa„.
Il conte Kálnoky, invece, rispose di essere preoccupato della
situazione, ma che credeva il ministero rumeno poco vitale e la Russia
aliena dalla guerra; una intesa sarebbe stata allora prematura.
Il 20 aprile Crispi spediva i seguenti telegrammi:
_R. Ambasciata Italiana_,
Vienna.
(_Riservatissimo_). — Mi asterrò dall'apprezzare le opinioni del
conte Kálnoky riassunte nel suo telegramma di ieri. La situazione a
noi pare più seria che a codesto Governo, e sebbene esso sia più
direttamente interessato di noi nella questione, sento il dovere di
considerare certe possibilità, forse probabili eventualità. Non
insista per un'intesa poichè il conte Kálnoky non crede giunto il
momento, ma mostri la convenienza di promuovere fra la Serbia, la
Rumania e la Bulgaria, in previsione di una guerra, un patto
militare federale affinchè, scoppiando le ostilità, le loro forze
dipendano da un solo capo e procedano con un piano unico. Ho motivo
di credere che questo concetto sorriderebbe a Cristic e che il re
Carlo non sarebbe contrario ad unirsi agli altri Stati Balcanici,
egli che tempo fa manifestava l'intenzione di stringere accordi
doganali con la Bulgaria. Qualora il conte Kálnoky convenisse
nell'idea, si combinerebbe il modo per procedere d'accordo verso i
Governi interessati.
_R. Legazione Italiana_,
Belgrado.
_Agenzia Italiana_,
Sofia.
(_Riservatissimo_). — Desidero sapere se il concetto di una
federazione militare, che in caso di guerra nella Penisola balcanica
porrebbe gli eserciti Serbo, Bulgaro e Rumeno sotto un unico capo e
ne collegherebbe i movimenti con un unico piano, troverebbe
favorevole accoglienza presso codesto Governo. Metta avanti l'idea
con somma prudenza, facendone vedere i vantaggi, senza alcuna
proposta. Tastato così il terreno, riferisca.
Ma la proposta non incontrò il gradimento di Kálnoky.
«Riferii a Kálnoky — telegrafava l'ambasciatore Nigra il 23 aprile —
la opinione di Vostra Eccellenza su di un patto militare tra gli
Stati Balcanici. Kálnoky mi ha risposto che non domanderebbe di
meglio, ma crede: 1.) che la cosa non ha ora alcuna probabilità; 2.)
che non avrebbe probabilità se non nel caso di necessità e quando
gli eventi fossero prossimi. Ciò è ovvio; 3.) che lo Czar non ha
nessuna intenzione di guerra e che le Potenze alleate non devono
fornirgli alcun pretesto per cambiare attitudine, provocando una
lega militare nei Balcani.»
Alle quali argomentazioni rispondeva l'on. Crispi:
Per quanto riguarda una federazione balcanica sono d'avviso che
bisogna prepararla in tempo di calma e non quando gli avvenimenti
siano per precipitare. Ho ragione di pensare che l'idea di simile
confederazione non sia mal veduta a Berlino, e son certo che a
Belgrado si sia molto propensi ad attuarla. Proponendo un accordo a
questo riguardo tra le Potenze alleate, non dicevo che esso dovesse
esplicarsi in modo violento e subitaneo, bensì con la necessaria
prudenza, affinchè non sorgessero sospetti atti ad ottenere un
effetto contrario a quello cui mirerebbe l'accordo. Comunque sia non
turberò la calma del conte Kálnoky, nella speranza che le Potenze
non abbiano a pentirsi dell'indugio.
E il 25 aprile, in seguito a nuove notizie allarmanti circa le
intenzioni del governo russo verso la Rumania, soggiungeva:
Quest'ultimo concetto di federazione militare balcanica non può e
non deve, naturalmente, attuarsi che per via di consigli, acciocchè
paia spontaneamente voluta dai tre governi, non da altri suggerita,
molto meno imposta. Nè credo si debba attendere l'ultimo momento per
procurare quell'accordo. Ove la guerra scoppi non è più luogo a
federazione, ma ad alleanze, e queste si stringono secondo
l'interesse del momento. Non divido gli apprezzamenti ottimisti del
conte Kálnoky, al quale auguro, come a noi pure, che la Russia si
conduca con calma nella questione che pare voler suscitare in
Rumania.
Nella tornata del 3 maggio della Camera dei deputati l'onorevole Crispi,
interpellato e biasimato da alcuni deputati dell'Estrema sinistra per un
congedo accordato all'Ambasciatore d'Italia presso il governo francese
alla vigilia dell'inaugurazione dell'Esposizione di Parigi, rispose:[27]
[27] Cfr. _Atti parlamentari_.
«Il governo della Repubblica francese per la solennità del
centenario del 5 maggio e per l'inaugurazione dell'Esposizione
universale, non invitò il corpo diplomatico: quindi da parte nostra
non ci potevano essere rifiuti. _(Si ride a destra. — Rumori
all'estrema sinistra)._
Il congedo dell'onorevole generale Menabrea non fu nè imposto, nè
consigliato da me. Sin dal 3 aprile, il nostro Ambasciatore chiese
al Ministro degli esteri di permettergli di venire in Italia, e il
permesso subito gli fu concesso. _(Interruzioni all'estrema
sinistra)._
PRESIDENTE. — Non interrompano, onorevoli colleghi, li prego!
CRISPI, _presidente del Consiglio_. — Ciò posto cadono tutti i
ragionamenti politici, tutte le narrazioni dei nostri onorevoli
colleghi dell'estrema sinistra; e potrei qui terminare.
Io non ho nulla a cangiare alle cose dette il 25 giugno 1887 quando
risposi all'onorevole deputato Cavallotti.
Non ho da difendermi dalle accuse di debolezza o di mancanza a
doveri internazionali, poichè questi non sono in questione; non ho
neanche bisogno di dire alla Camera come intenda governare il paese,
imperocchè essa, dopo due anni da che sono al potere, ha potuto
sapere e sa come mi conduco all'interno, come mi sono condotto o mi
conduco all'estero.
Duolmi soltanto che il deputato Ferrari, dopo aver combattuto i
vivi, abbia ricordata la tomba di un principe, la quale è circondata
dalla pietosa simpatia di tutto il mondo. _(Benissimo! Bravo!)_
Lasciamo, signori, l'oratoria e le frasi grosse e grasse!
_(Ilarità)._ Giudichiamo il mondo quale è; non è necessario che si
facciano professioni di fede: siamo tutti figli della rivoluzione; e
qual maggiore rivoluzione, o signori, di quella per cui noi siamo
qui? _(Benissimo!)_
Ogni paese ha le sue date illustri, ed i nostri colleghi ricordando
quella del 5 maggio 1789, credo non abbiano ricordata la migliore
della rivoluzione francese.
Avrei capito che avessero ricordata la notte dal 4 al 5 agosto 1789,
quando furono aboliti i privilegi, e fu fatta la celebre
dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino. Del resto, noi
abbiamo qualche data migliore, quella del 20 settembre 1870 _(Bene a
destra e al centro)_ la quale, abolendo l'ultimo avanzo del
feudalismo politico, dette ai popoli completa ed intera la libertà
di coscienza. _(Scoppio di applausi da tutte le parti della
Camera.)_
Noi non abbiamo mai domandato agli altri che questa data
festeggiassero, perchè ogni paese festeggia le sue, e non so perchè
si abbia tanta fretta, tanta sollecitudine, tanto desiderio di
festeggiare le date celebri delle altre nazioni, quando abbiamo le
nostre che sono così gloriose. _(Bravo! — Applausi prolungati)_».
Realmente, l'ambasciatore Menabrea aveva chiesto il congedo con una
lettera del 3 aprile che cominciava con queste parole: “Avvicinandosi le
feste Pasquali, mi rivolgo alla cortesia di V. E. col pregarla di darmi
l'autorizzazione di recarmi per quell'epoca in Roma, come son solito a
farlo ogni anno, per conferire con l'E. V. sulle cose che interessano i
rapporti dell'Italia colla Francia.„
L'on. Crispi non aveva motivo di negare il congedo, poichè sapeva che
tutti gli ambasciatori accreditati presso il governo francese avevano
ordine dai rispettivi governi di non intervenire alla inaugurazione
dell'Esposizione e si disponevano ad assentarsi da Parigi. Quello che in
Italia parve un gesto ostile di Crispi verso la Francia, era una
decisione di tutta l'Europa monarchica, compresa la Russia.
Il 20 aprile fu tenuta una riunione degli ambasciatori presenti, a
Parigi. L'Incaricato d'Affari Ressman, il quale rappresentava il
Menabrea assente, informava l'on. Crispi che qualcuno degli intervenuti
negava anche di far intervenire alla cerimonia gl'Incaricati d'Affari;
però tale intervento poi fu deciso, ma ufficioso soltanto, così che gli
Incaricati non dovevano indossare uniforme, nè seguire il Presidente
della Repubblica nel giro d'inaugurazione. “Prevedendo — scriveva il
Ressman — la resistenza d'una parte del Corpo diplomatico, il governo
francese già da tempo dichiarò che per ben distinguere ogni
commemorazione politica da una festa d'indole puramente industriale,
egli celebrerebbe in Versaglia il centenario della riunione degli Stati
Generali, il di 5 maggio, e non vi chiederebbe l'intervento dei
Rappresentanti esteri, ma inviterebbe bensì il corpo diplomatico alla
cerimonia non politica del 6 maggio in Parigi. Gli ambasciatori non
ammettono questa distinzione, nè credono che la festa di Versaglia
possa, più di quella seguente del 6 maggio, considerarsi come un omaggio
alla rivoluzione. E in questo ordine d'idee, essi già convennero che
sarà loro ugualmente impossibile d'intervenire al banchetto che la
municipalità di Parigi darà il dì 11 maggio e cui annunzia di voler
convitare tutto il Corpo diplomatico, oppure alla rivista ed alle feste
del 14 luglio prossimo, centenario della presa della Bastiglia.„
Per una doverosa riserva, l'on. Crispi affermando alla Camera che il
Corpo diplomatico non era stato invitato, ne tacque i motivi, ma egli
non prese alcuna iniziativa e non si dimostrò in quella circostanza,
meno del Gran Cancelliere russo, amico della Francia.
L'orizzonte politico non era sereno; le condizioni interne della Francia
e il linguaggio aggressivo de' suoi giornali destavano gravi
preoccupazioni. Crispi da tempo si era dedicato a rafforzare la difesa
nazionale. Le seguenti lettere al ministro della Guerra, generale
Bertolè, esprimono le sue ansie:
«Roma, 19 aprile 1889.
_Caro Bertolè,_
Il 1889 è un anno di preparazione. A tale scopo abbiamo proposto
alla Camera ed abbiamo ottenuto, dopo lunga e viva discussione, la
legge del 30 dicembre 1888.
Siamo al quarto mese dell'anno e temo, almeno mi si dà a credere,
che tanto per la fabbricazione delle armi, quanto per la difesa
delle coste, i forti di sbarramento e la difesa della Spezia, il
lavoro sia appena cominciato o non lo sia ancora.
Voi comprenderete, amico carissimo, che la vostra e la mia
responsabilità sono gravi e se scoppiasse la guerra e non fossimo
pronti, potremmo, voi ed io, sentire le conseguenze di un disastro,
del quale veramente non sarebbe giusto che a me fosse data anche in
piccola parte la colpa.
Sento quindi il bisogno di pregarvi a voler provvedere con la
massima sollecitudine perchè la legge del 30 dicembre 1888 abbia la
sua esecuzione. Vi prevengo, che l'uguale preghiera ho dato ai
nostri colleghi della marina e dei lavori pubblici: al primo per le
fortificazioni della Maddalena e per quelle opere che da lui
dipendono per la difesa delle coste, ed al secondo per la
costruzione dei binarî e per l'ingrandimento delle stazioni, gli uni
e l'altro tanto necessarii in caso di movimento di truppe.
E poichè ho ricordato le truppe, permettete che io richiami la
vostra attenzione sul sistema di mobilitazione che la sola Italia,
fra tutte le grandi Potenze, continua a praticare e il quale è
costoso e lento, e in caso di guerra può essere pericoloso.
Ne parlai al generale Cialdini, il quale si disse favorevole al
metodo prussiano e per lo meno accetterebbe il metodo francese, il
quale è una via di mezzo tra il nostro ed il prussiano. Il generale
Cialdini fece una sola osservazione ed è quella della convenienza
politica della quale lasciò a me il giudizio.
Dopo 29 anni ch'esiste il regno d'Italia mi sembra strano, pur
troppo strano, che si possa dubitare del nostro paese. Il sentimento
nazionale è profondo in tutte le classi della popolazione e con le
29 leve si è talmente rimescolata cotesta popolazione che la fusione
è compiuta.
Aggiungete che la formazione dei corpi locali avrebbe il vantaggio
che viene dal pungolo dell'emulazione. Il Borbone aveva i reggimenti
siciliani costituiti con l'arruolamento dei volontari, e nessuno
dubitò mai del loro valore e della loro energia. A Curtatone uno di
cotesti reggimenti fu alla prova del fuoco e lasciò memorie gloriose
sul campo di battaglia.
L'impero austriaco è composto di parecchie nazionalità e quei
governanti i quali dovrebbero diffidare della divisione delle razze
e della varietà delle genti, non sempre amiche e spesso rivali,
adottarono il sistema territoriale. Grazie a Dio! l'Italia è tutta
di un pezzo e sono italiani tutti quelli che abitano la penisola.
Il sistema territoriale nell'esercito porterebbe un grande
discentramento dell'amministrazione militare e grandissime economie
nella medesima....
Del resto il sistema territoriale esiste nell'artiglieria e negli
alpini, ed a nessuno venne mai in mente che cotesti corpi siano
animati meno degli altri dello spirito nazionale e possano alla
prima occorrenza mancare ai loro doveri.
Coraggio, adunque, e sia vostra la gloria della riforma, della quale
vi ho parlato e della quale molti sono i partigiani nel nostro
esercito.
Conchiudo dopo ciò sintetizzando i concetti della mia lettera:
affrettate le opere della difesa nazionale e trasformate,
migliorandolo, il metodo della mobilitazione delle nostre truppe.
Non vi è tempo da perdere.
L'aff.mo Vostro
F. CRISPI.
Roma, il 10 luglio 1889.
_Mio caro Bertolè,_
_(Riservata)._ — Richiamo la vostra attenzione sulle continue
diserzioni, le quali avvengono nel Corpo degli Alpini. Esse indicano
un male cronico che bisogna curare con energia e presto....
Prendo questa occasione per farvi riflettere che i grandi comandi
del nostro Esercito non sono tutti bene affidati. Bisogna svecchiare
il corpo dei nostri Generali e questo il più presto possibile.
La Germania ha compiuto cotesta opera, tanto gelosa quanto
necessaria alla difesa dello Stato. Ed in Germania gli ufficiali
avevano l'aureola delle grandi vittorie, la quale manca intieramente
ai nostri.
Non tralascierò, scrivendovi, di raccomandarvi la maggiore
sollecitudine e le maggiori cure nella fabbrica delle armi, la
quale, a quanto io ne so, va molto a rilento.
L'Europa al presente è un vulcano, che può da un momento all'altro
erompere, e bisogna trovarsi pronti. Ogni giorno ci svegliamo col
pericolo che scoppi la guerra.
I grandi Stati affrettano gli armamenti con cura febbrile. Noi
sventuratamente siamo indietro a tutti e siamo i primi esposti agli
attacchi nemici.
La vicina Repubblica ha preparato, in mare e per terra, quanto
occorre per assalirci. Grande è la responsabilità che pesa sul
Ministero, e voi, al quale è affidata la difesa nazionale, dovete
comprenderlo meglio di tutti.
Ne ho parlato al Re ed ho fatto comprendere a S. M. essere suo
diritto e dovere l'occuparsene.
La prossima guerra non può essere ristretta nelle proporzioni di
quelle del 1859 e del 1866, e le ire ed i risentimenti son tali — e
gli strumenti della lotta sono così potenti, che qualunque ne sia
l'esito, sarà una catastrofe.
Ricordatevi che questa volta non basterà l'onore di saperci battere,
ma bisognerà vincere, vincere a qualunque costo.
I francesi, per darsi ragione contro di noi, han voluto costituire
la convinzione, nel loro paese e nel nostro, che io voglio fare la
guerra. I miei avversari in Italia si prestano a cotesta indegna ed
antipatriottica manovra.
Nessun uomo di Stato può volere la guerra. Ed io non posso volerla e
perchè non siamo forti abbastanza e perchè, se fossimo forti, non
oserei affrontare i risultati di un conflitto, il cui esito non è
mai sicuro.
Vogliate, caro Bertolè, riflettere a tutto ciò e fate per la parte
vostra che il Re e la patria nostra non abbiano a dolersi di noi.
Vostro aff.mo
F. CRISPI.
In luglio, l'irritazione della Francia, cresciuta sino al parossismo,
cagionò un grande allarme. Da varie parti, Crispi era informato che quel
governo cercava un pretesto per rompere con l'Italia, e aveva notizie
sicure di pressioni francesi sul Vaticano, intese a indurre Leone XIII a
partire da Roma. L'ambasciatore di Francia presso il Papa, Lefèvre de
Béhaine, si era recato a Parigi alla fine di giugno ed era tornato al
suo posto, autorizzato a promettere formalmente al vecchio Pontefice —
irritato per la recente inaugurazione di un monumento a Giordano Bruno
in Campo di Fiori — che la Francia assumeva su di sè la soluzione della
“questione romana„, se glie ne avesse dato occasione abbandonando la sua
sede.
Il 12 luglio i timori di Crispi furono corroborati da informazioni
precise di autorevole persona avente larghe relazioni in Francia. Gli
era impossibile non tenerne conto, conscio com'era delle responsabilità
sue dinanzi al paese.
Il _Diario_ dice:
_12 luglio._ — Viene... e mi racconta notizie avute da S.
La sera chiamo Rattazzi [ministro della Casa Reale], che arriva
verso le 11. Chiedo udienza al Re. Alle 11 ½ mi scrive che il Re mi
riceverebbe la domani alle 10 ant.
_13 luglio._ — Alle ore 10 dal Re. Informo delle possibili
aggressioni. Necessità di difesa. Vedere il Ministro della Guerra
Bertolè, e riunire un Consiglio speciale, cioè, Bertolè, Brin
[ministro della Marina], Cosenz [capo dello Stato Maggiore], io ed
il Re.
Alle 11 viene Pelloux [S. Segretario di Stato alla Guerra] e mi dà
conto di diserzioni nel corpo degli Alpini a S. Dalmazzo.
Scrivo a Brin. Viene alle 3 ½. Lo informo. Si discutono le
precauzioni da prendere.
Alle 11 torna Rattazzi. Il Re chiamò il Bertolè ed ebbe con lui un
lungo colloquio. Bertolè è pronto a fare quanto desidero. Non
vorrebbe spargere allarmi, ma far tutto con prudenza.
_14 luglio._ — Alle 9 ½ ant. dal Re.
Alle 2 ½ viene Bertolè alla Consulta. D'accordo su tutto.
Mobilitazione — Armi — Stato Maggiore — Comando superiore —
Comandanti dei Corpi d'armata. S'intenderà con Cosenz e con Brin per
prendere d'accordo disposizioni atte a impedire ogni sorpresa, sia
per terra che per mare.
_14 luglio._ — Mando il deputato Francesco Cucchi[28] in Germania a
conferire col principe di Bismarck, e gli dò la seguente lettera di
presentazione:
[28] L'on. Francesco Cucchi era conosciuto dal principe di Bismarck
sin dall'agosto 1870. Egli fu allora inviato al Quartier Generale
germanico dal Comitato della Sinistra parlamentare, del quale era
anima Crispi, per assicurarsi del riconoscimento da parte di
Bismarck dell'occupazione italiana di Roma. _(N. d. C.)_
«Altesse! Vous recevrez cette lettre par M. le député Cucchi, que
vous connaissez depuis 1870. Il vous donnera de vive voix des
renseignements bien graves, que je ne puis pas confier à la plume.
Monsieur Cucchi a ma pleine confiance».
_15 luglio._ — Il ministro Brin viene alle 11 ½ a palazzo Braschi
con l'ammiraglio Racchia. Si parla della flotta, dei preparativi. —
Brin si lagna che a noi manchino informazioni dai porti francesi,
mentre la Francia è a giorno di tutto ciò che avviene da noi.
Racchia [S. Segretario di Stato alla Marina] mi dà informazioni
confortanti.
_16 luglio._ — Alle 12 ½ giunge Catalani, chiamato da Londra. Dopo
colazione lo conduco nel mio gabinetto. Narro che in Francia sono
pronti alla guerra e che sembra vogliano attaccarci per mare. Il
progetto sarebbe ardito e parrebbe una follìa, ma essendomi stato
riferito da persona degna di fede, e conoscendo che i francesi sono
capaci anche di una follìa, è necessario ritenere la cosa come vera,
e prepararci alla difesa. Ho bisogno di sapere quali sarebbero, in
tal caso, le intenzioni di lord Salisbury, e se egli intenderebbe
prevenire un'aggressione o, al contrario, attenderebbe che ci
attaccassero. Se noi fossimo sconfitti, l'Inghilterra perderebbe una
sicura alleata sul mare.
Il Catalani ritiene che lord Salisbury non attenderà che siamo
attaccati, e che allo scopo di evitare la guerra manderà una potente
flotta nel Mediterraneo. Partirà stasera, e venerdì mi telegraferà
da Londra.
— Direte a lord Salisbury che io non provocherò punto la Francia,
che nulla farò per promuovere la guerra; se questa verrà, vi sarò
trascinato.
Il Catalani mi domandò se avessi nulla fatto pel ristabilimento
della giurisdizione consolare in Tunisi. Risposi che la questione
dorme; soggiunsi che non ho spinto neanco la soluzione del fatto di
Gabes.[29]
[29] Il 4 giugno 1889 a Gabes (Tunisia) due barche italiane da pesca
furono visitate, senza intervento del Console italiano, da Agenti
del monopolio francese i quali maltrattarono i pescatori e
insultarono la bandiera italiana. _(N. d. C.)_
— Nulla farò, non darò pretesto alcuno. Bisogna che il paese sappia
che noi non vogliamo la guerra, e che la faremo soltanto se
obbligati a difenderci da un'ingiusta aggressione.
Invito il ministro Bertolè a sollecitare le misure da prendere
affinchè il Re possa partire da Roma. Alle 2 ½ viene alla Consulta e
mi dice che già ha avuto parecchie conferenze con Cosenz.
Mobilitazione — Comandanti dei Corpi d'Armata — Gran comando.
Osservo che il Bertolè è esitante e incerto nel suo linguaggio.
_17 luglio._ — Alle ore 11 ant. Rattazzi; lo incarico di pregare il
Re a voler partire.
Torna alle 2 ½. Gli dò un dispaccio giunto al Vaticano ed un altro
da Sofia perchè li comunichi al Re.
Alle 3, Brin. Sollecitazioni.
Alle 3 ½ Bertolè.
_18 luglio._ — Udienza reale. Discorsi sulla situazione. Il Re parte
alle 11 pom. per Pisa. Nella sala di aspetto gli riferisco le ultime
notizie del Vaticano, delle quali il sovrano resta sorpreso. Uscendo
dalla stazione vedo il Cosenz. Gli domando se si era messo d'accordo
con il Bertolè.
Il Cosenz mi risponde che il Ministro gli parla delle cose di guerra
solamente quando havvi pericolo. Lo prego di visitarmi.
_20 luglio._ — Alle 3 è venuto a trovarmi il generale Cosenz.
Anch'egli è d'avviso che i francesi ci attaccheranno. — Le
fortificazioni di Messina, della Spezia e di Genova sono terminate.
— Taranto. — I 14 corpi di esercito. — I quattro grandi comandi: —
Duca d'Aosta, Pianell, Bariola, Ricotti. — Il concorso delle navi da
guerra. — Compagnie dei battaglioni assottigliate per ragioni di
economia. — Milizia territoriale. Non possibile ricorrere ad un
corpo di volontarii come al 1866; mancano il capo e i quadri.
Biglietto di Nigra [ambasciatore a Vienna]:
«Caro signor presidente, eccomi giunto e attendo i suoi ordini
all'Albergo Roma, al Corso.»
Telegramma da Londra:
«Benchè Salisbury non divida nostre apprensioni, manderà un potente
rinforzo alla Squadra del Mediterraneo in agosto, dopo la rivista
navale per l'Imperatore di Germania. Maggiori particolari col
Corriere. — CATALANI.»
Alle 10 ½ il conte Nigra viene al palazzo Braschi. — Gli espongo le
notizie che abbiamo dalla Francia e quello che ci è noto del
Vaticano. Osservo che le pressioni del signor di Mombel sono serie e
che se non sono riuscite ciò devesi all'esitazione del Papa. Vienna
è mal servita presso il Vaticano e perciò vede tutto in bene. Il
Nigra risponde che a Kálnoky non potrebbe esser nascosta la partenza
del Papa.
— Comunque sia, ci occorre sapere quello che farebbe l'Austria nel
caso che noi fossimo attaccati dalla Francia. Essa avrebbe l'obbligo
di difenderci. È necessario venire alla stipulazione d'una
Convenzione militare, tanto per l'azione comune sul mare, quanto per
l'azione comune in terra. Per la convenzione marittima abbiamo avuto
con Bismarck delle intelligenze che si debbono coltivare. L'azione
comune delle tre flotte imporrebbe alla Francia, e se a noi si
unisse anche l'Inghilterra, com'è probabile, la vittoria sarebbe
sicura.
— Per la convenzione navale, osservò il Nigra, bisognerebbe far
prendere l'iniziativa da Berlino; da lì scrivendosi a Vienna tutto
sarebbe fatto. La convenzione militare è un affare a due.
— Potrebbe esser negoziata qui o a Vienna. Per me vale lo stesso.
Parlo al Nigra delle vessazioni agl'italiani in Trieste e della
necessità di porvi termine. L'Austria ha paura delle ombre. Le
dimostrazioni non hanno nessuna importanza, e quando si è forti non
vi è motivo di temerle. Però si è forti se le legittime aspirazioni
dei popoli vengono soddisfatte. A che inveire sull'Ullman e dargli
un'aureola di patriottismo? Egli è bavaro di origine e italiano
soltanto per decreto ottenuto sotto Cantelli: è uno di quegli uomini
che mutano nazionalità per convenienze personali.
Il processo contro Piccoli è assurdo; lo lascino tranquillo.
Il Nigra conviene che la condotta degli austriaci è inabile, e che
gioverebbe a loro non continuare nelle vessazioni poliziesche.
Trasloco del console Durando, dandogli però una buona residenza.
A proposito di Trento e Trieste il Conte affermò che fu colpa di
Lamarmora se noi non abbiamo il Trentino. L'Austria ce l'avrebbe
dato.
Avendogli manifestato le mie idee su Trieste, convenne meco che non
ci giovi averla. Approvò la mia dichiarazione sulla necessità
dell'esistenza dell'impero Austriaco. È necessario però che
l'Austria muti contegno nel suo governo. Non può vivere suscitando
le rivalità dei popoli, le quali tosto o tardi produrranno la guerra
civile. Il rispetto delle nazionalità, l'uguaglianza dei diritti di
ciascuna, devono esser base all'esistenza pacifica dell'impero.
Parlando con Kálnoky della partenza del Papa da Roma, il Nigra ha
detto che l'Italia prenderebbe possesso del Vaticano e vi
pianterebbe la sua bandiera. È quello che avrei fatto al 1878 se il
Conclave si fosse tenuto fuori d'Italia.
Il Nigra mi assicura che a Vienna fidano su noi e che De Bruck manda
dei rapporti ottimisti.
Riassumiamo. Tre incarichi: chiedere una politica liberale a Trieste
— convenzione navale — convenzione militare.
Prego l'Ambasciatore di assicurare il Kálnoky che non darò alla
Francia occasione alcuna che possa servirle di pretesto a rompere la
pace. Nessun dubbio che havvi aumento di truppe alle nostre
frontiere e che la Francia spia il momento opportuno per attaccarci.
Al Vaticano si fanno pressioni perchè il Papa parta; non sono
riusciti per l'esitazione di Leone XIII e per l'opposizione del
Sacro Collegio. Ma non ne hanno perduta la speranza.
_21 luglio._ — Il cardinal Hohenlohe, dietro mio invito, è venuto a
trovarmi all'1 ½ pom. alla mia casa in via Gregoriana.
Gli ho detto:
— Altre volte è stata V. E. che è venuta a trovarmi, oggi son io che
l'ho pregata a venire da me.
Io dovrò parlarle di un affare gravissimo, e dovrò incaricarla di un
delicatissimo mandato.
Si parla della partenza del Papa, e vi ha chi lo spinge ad
abbandonare il Vaticano. Io non ho consigli da dare. Se il Papa
resterà, continuerà ad essere rispettato, e sarà garentito come
prima, anche se scoppiasse la guerra, che io farò tutto il possibile
per allontanare. Se il Papa vorrà partire non ci opporremo; anche
nella sua partenza, e finchè è sul territorio italiano, sarà sotto
la tutela delle leggi italiane, godrà di tutti i suoi diritti, di
tutta la sua libertà.
Fo intanto osservare, e prego V. E. di dirlo bene al Papa, che
guardi di non essere lui la causa di una guerra, e ricordi quanto
costò a Pio IX l'aver ricorso alle baionette straniere. Non solo ne
perderebbe la religione; ma ne perderebbe l'uomo, che ne è principe
sovrano.
Il cardinale ascoltava, e spesso col capo o con interruzioni, dava
segni di approvazione. E rispose:
— Io non vado sempre al Vaticano; ma vi andrò, e adempirò il di lei
incarico.
Il Papa non se ne andrà; ma non si è sempre sicuri di lui. Egli vuol
lasciar parlare di sè; e talora ha delle eccitazioni nervose, che lo
spingono a proponimenti non sempre prudenti.
— Non è per me, ch'io parlo, nè pel governo. Io sono un individuo,
che da un momento all'altro può sparire dal mondo; ed il governo è
assai forte per non temere la guerra. L'Italia ha mezzi sufficienti
per difendersi. Ha poi due potenti alleati.
Io parlo pel Papa e pel cattolicesimo. Leone XIII gettandosi nelle
braccia della Francia, ha fatto la fortuna della Chiesa d'Oriente.
Il culto ortodosso ogni giorno progredisce a danno del cattolico; e
non può essere altrimenti. La Francia si è disinteressata delle cose
d'Oriente a favore della Russia, la cui influenza aumenta sempre. Il
Papa queste cose non le sa, e facilmente gliele nascondono, perchè
hanno interesse a nasconderle.
Comunque sia, e ritornando all'argomento pel quale chiesi di
parlarle, conchiudo per dirle di far sapere al Papa queste cose:
Se resta in Italia, sarà rispettato, anche se scoppiasse la guerra.
Se parte, sarà rispettato, e l'accompagneremo con tutti gli onori.
Pensi però al partito da prendere. Ci va del suo nome, del suo
avvenire, dell'avvenire del cattolicesimo. —
Ci siamo congedati alle 3 meno un quarto. Il cardinale prese la sua
via; io ritornai alla Consulta.
Roma, 23 luglio '89.
_Ecc.mo Sig. Presidente_,
Confidenzialmente accludo questa lettera. _Siccome soltanto_ con il
padrone quelle cose si potrebbero dire, conviene ch'io sospenda
l'esecuzione de' suoi desiderii. Pare che si abbia paura di me, non
so perchè!?
Del resto Ella disponga di me, e mi faccia sapere quel che crede
necessario.
E con la maggiore stima ed amicizia mi confermo di Vostra Eccellenza
Aff.mo
G. CARD. D'HOHENLOHE.
_(Lettera in originale acclusa nella precedente)._
N. 82253
Roma, 22 luglio 1889.
_Ecc.mo e R.mo Sig. Mio Oss.mo_
Secondando il desiderio espressomi da Vostra Eminenza nel suo
biglietto in data di ieri me ne sono reso interprete presso il Santo
Padre.
Essendo peraltro la Santità Sua trattenuta da molte occupazioni e
dagli attuali calori dall'accordare straordinarie udienze, si è
degnata di autorizzarmi a conferire con Lei, qualora Le piaccia di
far giungere per mio mezzo alla sovrana sua cognizione ciò ch'Ella
intende di esporle.
Ponendomi pertanto a libera di Lei disposizione, mi onoro rinnovarle
i sensi della mia profonda venerazione, con la quale Le bacio
umilissimamente le mani.
Di Vostra Eminenza
U.mo dev.mo servitor vero
M. CARD. RAMPOLLA
Sig. card. d'Hohenlohe.
Roma, 24 luglio '89.
_Ecc.mo Signor Presidente_,
Dopo la mia di ieri sera ho notato alcune cose da scriversi a S. S.;
e desidererei sapere se V. E. approva, e se vuole aggiungervi o
togliere qualche cosa, faccia pure. La lettera andrà sicura nelle
mani di S. S.
Mi mandi l'acclusa bozza con quelle correzioni che crede, e subito
sarà copiata. E con sincero rispetto mi confermo di V. Eccellenza
Devot.mo servo
G. CARD. HOHENLOHE.
[Illustrazione: Autografo riprodotto fotograficamente: lettera del
card. Hohenlohe a Crispi.]
_(Minuta di una lettera del cardinale Gustavo di Hohenlohe — 24-7-89)_
«Nell'ultima udienza dissi alla S. V. di aver invitato il ministro
Boselli il quale aveva concesso di far fare lo scalone di San
Gregorio e ci ha promesso anche altri favori. Mi parve che la
Santità Vostra fosse contenta. Tanto maggiore fu la mia sorpresa nel
ricevere quella lettera (sgarbata)[30] del cardinale Rampolla. Oggi
non possiamo più (segregarci dai personaggi del governo italiano con
un sistema cinese).[31] Iddio ha disposto le cose in modo che la
Chiesa non può più riprendere il dominio temporale. La salute delle
anime esige che noi ci rassegniamo, che restiamo tranquillamente
nelle sfere ecclesiastiche e facciamo la carità con le nostre
sostanze e con i nostri insegnamenti ai fedeli.
[30] Cancellata la parola.
[31] Mutato poi di pugno del Cardinale in «sequestrarci dalla vita
moderna».
Si parla di partenza. (S. E. Crispi stesso mi disse l'altro giorno
di dire a Vostra Santità)[32] che se Lei vuole partire egli non vi
si opporrà e La farà accompagnare con tutti gli onori, ma che Vostra
Santità non tornerà più a Roma. E che se la Sua partenza suscitasse
una guerra per es. per parte della Francia, la religione perderebbe
immensamente. Che l'Italia non farà la guerra se la Francia non
l'attacca; che in caso di guerra il governo italiano garentisce la
sicurezza del Papa a Roma. Ma che il Papa non si faccia illusioni:
partito che sarà, non tornerà a Roma e la Santa Sede soffrirà una
terribile scossa.
[32] Mutato in «Persona intima di S. E. Crispi mi assicurò che il
pensiero del Ministro a questo proposito, è il seguente».
(Più; la Francia fa tutte le facilitazioni alla Russia in Oriente
per far trionfare lo scisma, purchè abbia l'alleanza della Russia.
Sembrerebbe dunque che poco da quella parte vi sia da sperare).[33]
[33] Periodo cancellato.
Noi Cardinali abbiamo il dovere strettissimo di dire la verità al
Papa, perciò eccola.
Del tempo di Pio VI si perdettero i cinque milioni di scudi
depositati da Sisto V. a Castello, e con tutto ciò fino al 1839 ogni
nuovo Cardinale _giurava_ di conservare questi cinque milioni che
non vi erano più. Non fu che il cardinale Acton che protestò contro
quel giuramento nel 1839 e papa Gregorio trovava giuste le
osservazioni dell'Acton. Così oggi pure si fa giurare ai Cardinali
cose che non si possono mantenere. Perciò conviene rimediare.[34]
[34] La lettera doveva essere consegnata al cameriere fidato del
Papa da monsignor Azzocchi, affinchè non venisse intercettata. Il
cardinale di Hohenlohe scriveva in data 27 luglio a Pisani-Dossi
«questa mattina sarà consegnata la nota carta».
_(Note di Pisani-Dossi, Capo di gabinetto alla Consulta)._
_(Relazione di Pisani-Dossi a Crispi)._
«4/8/89.
Il Papa ebbe la lettera di Hohenlohe sabato 27 luglio per mezzo del
suo cameriere Centra. La lettera, oltre le modificazioni fatte in
presenza di Pisani-Dossi, aveva subite queste altre: 1.º — al
principio — «Mando a V. S. le fotografie promesse, ecc. (Credo
fossero le fotografie del viaggio del Re a Berlino donate dal
Pisani-Dossi ad Hohenlohe); 2.º — Si chiedeva un'udienza al Papa e
se ne accennava lo scopo — e qui la lettera com'era stata combinata;
3.º — in fine — «Ecco quanto doveva dire a V. S.»
Il 3 agosto il Papa mandò monsignor Sallua, piemontese, commissario
del Santo Uffizio e vicario di Santa Maria Maggiore da Hohenlohe a
dirgli che S. S. era molto afflitta per la lettera da lui scritta e
non poter accordargli la chiesta udienza. Rispose Hohenlohe che
avrebbe dovuto piuttosto lui lamentarsi della condotta del Papa
verso lui e che il Papa doveva ringraziare Hohenlohe di avergli
fatto conoscere la verità sulla situazione attuale, soggiungendo che
anche gli altri governi erano dell'opinione del governo italiano.
Quel negare l'udienza, chiesta da Hohenlohe, era da questi
considerata come una provocazione; che tuttavia egli non avrebbe
data loro la soddisfazione di fare dei passi inconsiderati.
Ringraziassero Iddio se egli si conduceva con tanta moderazione, e
il Papa poi in particolare ringraziasse Hohenlohe se era divenuto
cardinale, perchè Pio IX nel 1852 non voleva nemmeno ricevere
monsignor Pecci, e fu Hohenlohe che attutì lo sdegno del Papa contro
Pecci. Concluse che era ora di finirla con siffatte bugie e
finzioni.
Monsignor Sallua si fece pallido e si mise a piangere, e scusava il
pontefice perchè vecchio.
Hohenlohe ripigliò a dire che Leone XIII era in balìa di pochi
intriganti e di agenti del cardinal Monaco «villano, di scarpe
grosse e di cervello fino», il quale spaventava il Papa colle pene
dell'inferno.
Nel corso della conversazione tanto Hohenlohe quanto Sallua
riconobbero che la storia della partenza del Pontefice era una
scenata che aveva disgustato molta parte del clero contro il Papa.
Hohenlohe il quale disse, quasi dettando, quanto sopra a
Pisani-Dossi, crede di avere colla sua lettera cagionato una buona
scossa al Papa e di aver reso un servizio al ministro Crispi.»
Berlino 21 luglio 1889.
_Carissimo amico_,
Sono arrivato da quattro giorni. Prima visita ad Holstein. Seppi che
il Principe stava poco bene a Varzin. Il figlio Erbert era tornato
dal suo congedo a Berlino, il giorno precedente. Holstein mi osservò
che riguardo alle gravi notizie ch'io portavo in tuo nome, il
Principe non poteva conoscere che quanto essi stessi gli fanno
sapere da Berlino. Riguardo ai provvedimenti da prendere bisognava
certamente sentire lui. Gli si telegrafò la mia venuta e lo scopo.
Rispose ad Erbert e Holstein che mi dassero qui tutte le
informazioni possibili, e che mi attendeva ospite a Varzin domani
sera, lunedì. Martedì vi sarà anche Erbert. È un viaggio noiosissimo
di 11 ore. Varzin giace a poca distanza da Rugenwalder, sulla costa
del Baltico.
Da Holstein fui intanto presentato ad Erbert, al ministro della
Guerra generale Verdy de Vernoy (appartenente a famiglia francese
protestante, cacciata dalla Francia due secoli or sono) ed al
Consigliere di legazione Kaschdau, che accompagnò l'Imperatore in
Italia e che con Holstein è depositario alla Cancelleria delle cose
più segrete.
Qui sono assolutamente increduli riguardo alle notizie che ho
portato, cioè, alla possibilità di un improvviso attacco alle nostre
frontiere, a un tentativo di sbarco sulle nostre coste dell'Italia
meridionale con due divisioni provenienti da Tolone, ed una da
Algeri, etc. Almeno fino ad ora tutte le informazioni che hanno qui
dai confini italo-francesi e da Parigi, escludono la possibilità del
fatto. Però si telegrafò a Parigi al barone De Huene, maggiore di
Stato Maggiore e capo dell'ufficio militare addetto all'ambasciata.
È persona intelligentissima e che ha avuto una rara abilità
nell'organizzare in tutta la Francia un perfetto servizio di
informazioni.
La risposta di De Huene, arrivata stamane, dice che non vi è alcun
agglomeramento straordinario di truppe al confine italiano, nè
movimento eccezionale nell'arsenale di Tolone. Ripete quanto aveva
già detto in un recente rapporto, cioè, che nelle alte sfere
militari francesi si è malcontenti del sistema di fortificazioni
verso il confine italiano, e che per rimediarvi si intraprenderanno
tosto lavori importanti. Ciò accennerebbe a idee di difesa, non di
offesa. Le comunicazioni strategiche ferroviarie sono purtroppo
ottime, il che darebbe la possibilità di ottenere in brevissimo
tempo quell'agglomeramento di truppe che ora non esisterebbe. Le
ultime manovre navali allo scopo di studiare la difesa delle coste
sul Mediterraneo, lasciarono molto a desiderare. In alcuni punti
dove la ferrovia è troppo litoranea si lavora attivamente per
deviazioni interne. A Lione, ove ha sede il Comando dell'esercito
che dovrebbe operare contro l'Italia, nulla si rimarca di movimento
straordinario. Il generale in capo sarebbe Billot. Fu abile ministro
della Guerra, ma venne presto allontanato per i suoi principi
ritenuti monarchici. Ad ogni modo, a riguardo dell'Italia, sono
tutti uguali in Francia, e monarchici, e repubblicani, e
boulangisti, e anarchici. A questo proposito permettimi di aprire
una parentesi.
Prima di partire da Milano trovai il dep. Mazzoleni, anima candida,
tipo da nazzareno, che, in questi tempi, prende sul serio la
missione di predicare la pace fra gli uomini. Era reduce da Parigi,
ove fu al Congresso della pace e dell'arbitrato internazionale.
Messo un po' alle strette, mi confessò, nella sua lealtà, di essere
rimasto impressionatissimo dell'avversione all'Italia che trovò in
ogni ceto di persone. Andò, con Pandolfi, Boneschi, e non ricordo
quali altri deputati, alla Camera per stringere la mano a quei
deputati francesi che erano venuti in Italia e che fecero a Milano
tante dichiarazioni di amicizia e fratellanza. Ebbene, questi
signori che si erano ben guardati dal recarsi alla stazione per
ricevere i nostri connazionali, anche alla Camera se ne fuggirono
per non lasciarsi trovare. Nell'imminenza delle elezioni, farsi
vedere a stringer la mano ad alcuni deputati italiani, per quanto
radicali, voleva dire compromettersi cogli elettori, rovinare la
propria elezione.
Chiudo la parentesi. — Ebbi l'avvertenza di far ben capire ai nostri
amici di qui che se tu eri allarmato per quanto avevi saputo in via
speciale e positiva, però, tu stesso ritenevi che un attacco poteva
verificarsi solo verso ottobre o novembre. In proposito, Erbert e
Holstein convengono che quello che non ritengono possibile ora,
possa benissimo divenirlo allora. Credono fermamente che gli uomini
ora al potere in Francia non vogliono in questo momento la guerra,
perchè occupati esclusivamente a preparare le elezioni, questione
per loro di vita o di morte. Solamente l'esito delle elezioni darà
l'idea di cosa possa attendersi più o meno prossimamente dalla
Francia. Ritengono molto in ribasso il boulangismo, e che le notizie
allarmanti che tu hai avuto provengano dalla parte monarchica del
partito boulangista che intriga al Vaticano. Ad ogni modo, se chi
avrà in mano i destini della Francia dopo le elezioni volesse fare
un colpo di testa, qui assicurano che saranno preparati. Anche in
questo frattempo, se qualche fatto rimarchevole ed inquietante per
noi si verificasse ai nostri confini verso la Francia od altrove, mi
disse Erbert che, come all'epoca della questione delle scuole a
Tunisi, incaricherebbero l'Ambasciatore di far sapere al governo
francese che, come nostri alleati, si interessano altamente di un
possibile nostro pericolo, e di fronte a questo sono pronti a
sostenerci. Ma di ciò parlerò più positivamente con il Principe a
Varzin.
È fatto molto gradito e rassicurante in ogni evento, il pregio e
l'importanza che qui si attribuisce alla nostra alleanza. Ritengono
e dichiarano indispensabile di fronte alla Russia l'alleanza
austriaca, ma dicono che non amano l'Austria, mentre amano l'Italia.
Vidi Erbert ieri alle 3 ½ e mi disse che pochi momenti prima era
stato a vederlo il conte De Launay con un tuo dispaccio che
riguardava la possibile partenza del Papa, per eccitamento
specialmente del cardinale Rampolla. Erbert ritiene che questo
cardinale, come tuo isolano, deve odiarti più d'ogni altro. Mi disse
di avere risposto a De Launay che se si levasse all'Italia questo
verme roditore, non lo crederebbe un male. Cosa ne dirà il Principe?
Sentirò anche questo, e vedrò se il parere del padre è identico a
quello del figlio.
S'intende che ti scriverò non appena da Varzin sarò reduce a
Berlino, ma solo di passaggio, perchè non avrei più ragione di
fermarmi. Invece, il ministro della Guerra, che s'interessa assai
dei nostri approvvigionamenti verso il confine francese, cosa alla
quale io potei inesattamente rispondere, desidera che, ritornando in
Italia, mi fermi a Francoforte. Di là mi farà accompagnare da un
ufficiale a farmi l'idea del come essi sono preparati. Credetti non
rifiutare l'offerta trattandosi di 24, o 48 ore di ritardo.
I più cordiali saluti.
TUO CHECCO.
Berlino, 24 luglio 1889.
_Carissimo amico_,
Son reduce stamane da Varzin, ove ebbi una magnifica accoglienza dal
Principe e dalla Principessa, dal conte e contessa Rantzau e da
Erbert, che mi precedette. Tutti mi parlarono di te con affetto ed
entusiasmo e mi incaricarono delle cose più cordiali.
Riassumo i discorsi che ebbi col Principe.
Non crede assolutamente alla possibilità di un attacco contro
l'Italia, quale sarebbe indicato dalle tue informazioni ch'io ho
riferito. Dice che tale fatto ecciterebbe l'indignazione del mondo
civile. La responsabilità di avere provocata la guerra in Europa,
con un fatto da briganti (testuale), costerebbe immensamente cara
alla Francia. Sarebbe il caso del _finis Galliæ_ (testuale), e ci
vorrebbe ben altro che i cinque miliardi del 1871. Aggiunge che dal
punto di vista puramente utilitario e materiale sarebbe quasi da
desiderarsi questa pazza aggressione. Nelle alte sfere militari in
Germania si preferirebbe la guerra subito, od alla prossima
primavera, piuttosto che fra due anni, epoca nella quale la Francia
avrà al completo i suoi quadri, gli armamenti e le fortificazioni.
Ad ogni modo il Principe dice che la Germania sta cogli occhi
allerti e colle polveri asciutte. Di fronte a qualunque pericolo,
minaccia od improvvisa aggressione, essa da lungo tempo è preparata.
In dieci giorni possono invadere il territorio francese 1.200.000
uomini. Gli approvvigionamenti da guerra e da bocca, necessari per
un mese a questa immensa armata, sono già preparati nelle città e
fortezze lungo il Reno, nella Lorena ed in Alsazia. Tutto ciò dopo
essersi premuniti in modo da non temere qualunque attacco dal lato
della Russia; colla quale spera ancora il Principe che non si venga
ad una rottura, od almeno che possa entrare nella lotta solamente
dopo una prima sconfitta della Francia. In questo caso, essendo
tutto preparato perchè la prima grande battaglia sia assolutamente
decisiva, resterebbe di molto diminuito il peso che la Russia
getterebbe sulla bilancia.
Riguardo alle qualità dell'armata francese, qui credono che manchi
di compattezza e di disciplina. Senza di ciò il grande numero non
basta, anzi in date circostanze potrebbe nuocere. Non si dubita però
che, almeno sul principio, l'armata francese sarà meglio condotta
che nel 1870-1871. Si ha molta stima del Capo di Stato Maggiore
generale Miribel. I tedeschi si ritengono superiori
nell'artiglieria, massime come mezzi di assedio. Sanno che il fucile
francese Lebel è ottimo, ma per la prossima primavera tutta l'armata
tedesca di prima linea avrà un nuovo fucile, che è il
perfezionamento di quanto si è fatto finora. A questo si lavora
febbrilmente, ma senza rumore, negli arsenali, fabbricandone 4000 al
giorno.
Il Principe ha fiducia non solo sulla benevolenza dell'Inghilterra,
ma sul suo concorso, qualora la Francia rompesse prima in guerra. È
lieto di vedere come tu coltivi abilmente l'amicizia inglese, senza
badare se sia al potere Salisbury, piuttosto che Gladstone. Nel caso
probabile di avere il concorso attivo dell'Inghilterra, l'azione
delle tre flotte combinate paralizzerebbe completamente quella della
flotta francese, obbligandola a rifugiarsi nei suoi arsenali, od
accettare di combattere con forze sproporzionate. Ciò, dice il
Principe, faciliterebbe assai le operazioni contro la Francia degli
eserciti di terra. Le tre flotte sarebbero: l'inglese, la tedesca e
l'italiana. Io gli osservai perchè non metteva nel numero anche
l'austriaca. Mi rispose di questa ritenere buono il personale, ma
cattivo il materiale. In complesso ho rimarcato nel Principe una
certa freddezza verso l'Austria. Parlando della prossima visita
dell'imperatore Francesco Giuseppe a Berlino, mi disse: «Meno male
che per il lutto che porta, ha voluto che non si facessero feste».
Invece è marcatissimo l'aggradimento che accompagnò la visita di re
Umberto. A proposito di lutto, egli ritiene la morte dell'arciduca
Rodolfo, avvenuta per assassinio.
Molte idee del Principe sulla politica dell'Inghilterra, della
Russia, dell'Austria e della Turchia, e sul contegno di queste
Potenze nel caso di un primo attacco della Francia contro la
Germania e l'Italia, oppure della Russia contro l'Austria e la
Turchia, sarebbe troppo lungo esporle per iscritto. Ti riferirò a
voce.
Egualmente farò riguardo alle idee del Principe e del suo contorno,
sul modo con cui è condotta la nostra politica estera. Ho pizzicato
un po' da tutti, in modo che credo essermi fatto un concetto esatto
del loro intimo pensiero su di te e su quelli che ti circondano alla
Consulta, come sopra alcuni nostri rappresentanti all'estero. È
tutto a tuo vantaggio il loro modo di vedere sulla nostra politica
estera, ma dicono che dovendo forzatamente occuparti anche della
politica interna, ti ammazzi per troppo lavoro.
A proposito della politica interna, il Principe teme solamente il
caso che tu possa cadere per cause parlamentari, cosa che, egli
dice, sarebbe fatale. Io lo rassicurai dicendogli, che, sebbene in
Italia non si possa pigliare il Parlamento nello stesso modo con cui
egli lo pigliò per molti anni in Germania, tu hai nella Camera
attuale una larga maggioranza. Aggiunsi che non discutevo le qualità
di questa Camera, ma sta il fatto che questa larga maggioranza
esiste. In ogni caso dissi esser certo che il Re, occorrendo, ti
accorderebbe lo scioglimento, e nuove elezioni.
A proposito di elezioni, il Principe non crede possibile
l'avvenimento al potere di Boulanger, e finchè resta Carnot, confida
nella pace. Carnot sa benissimo che se si decidesse per la guerra,
sarebbe di fatto soppiantato nel potere dai Generali.
Il Principe non crede affatto alla partenza di Leone XIII da Roma.
Per lui il prestigio del Papa proviene dalla storia e dalle
tradizioni di Roma, dai tesori e dalle pompe di San Pietro e del
Vaticano. Fuori di Roma il Papa non gli sembrerebbe più il
rappresentante di una grande, potente, antica istituzione, come il
cattolicismo, ma uno Schah di Persia qualunque in viaggio attraverso
l'Europa a spese altrui. Per le Potenze cattoliche, e per la stessa
Francia, sarebbe un grave imbarazzo avere ospite il Papa. Mi disse
che l'Ambasciatore tedesco in Ispagna aveva giorni sono telegrafato
la notizia che il Papa era quanto prima atteso a Madrid. Il Principe
rispose all'ambasciatore che gli proibiva di telegrafare simili
bestialità (_sic_). Egli è informato che anche da Vienna si consigli
il Papa a non muoversi da Roma, a meno che gli si usassero violenze
dalla piazza, il che, egli ne è convintissimo, tu non permetteresti.
Scusa la confusione di queste informazioni. A Roma o Napoli ti darò
moltissimi dettagli. Domattina andrò a Colonia e Magonza per le
visite che ti dissi nell'altra mia. Sabato o domenica sarò a Milano,
lunedì o martedì a Roma.
Tante cose.
aff.mo CHECCO.
Fortunatamente la pace non fu turbata, sia che il governo francese, di
certo al corrente dei preparativi militari e dell'azione diplomatica
dell'Italia, soprassedesse ai suoi disegni, sia che non trovasse un
pretesto per assalire. Al conte di Launay il principe di Bismarck
espresse l'opinione che i francesi non osassero far la guerra senza
alleati, ma cercassero soltanto, con tutti i mezzi possibili, a far
nascere e tener vive in Italia continue diffidenze ed inquietudini,
nella speranza di nuocere così al nostro credito ed alla nostra economia
pubblica.
Ma nell'interesse del domani, l'on. Crispi non cessò di vigilare. E
l'allarme recò qualche beneficio, poichè dette occasione a constatare le
attive simpatie per l'Italia delle Potenze centrali e dell'Inghilterra:
Berlino, 14 agosto 1889.
(_Riservato_). — Dissi oggi al segretario di Stato che il Governo
del Re, che si era associato con viva soddisfazione alle
dimostrazioni in occasione della visita recente dell'imperatore
Guglielmo in Inghilterra, si associa con lo stesso sentimento alle
manifestazioni scambiate ora per la presenza in Berlino
dell'imperatore Francesco Giuseppe. Il conte di Bismarck mi rispose
che infatti l'Italia aveva ogni motivo di rallegrarsi, essa era ed è
considerata come presente in spirito a quei convegni. L'Inghilterra
«quantunque non parte contraente della triplice alleanza, la
costeggia». Il Governo inglese è animato delle migliori disposizioni
anche verso l'Italia, in caso di provocazioni da parte della
Francia. L'imperatore d'Austria dichiarò quanto era soddisfatto che
il nostro augusto Sovrano abbia un primo Ministro di tanta vaglia.
S. M. Imperiale è convinta di tutta l'importanza dei vincoli con
l'Italia pure pel mantenimento della pace. Il conte Kálnoky farà
tutto il possibile riguardo al contegno da osservarsi verso gli
italiani dell'Impero. Nè Salisbury, nè Kálnoky credono a prossima
guerra e meno ancora che la Francia commetta l'errore di dichiararla
all'Italia.
LAUNAY.
La politica dell'on. Crispi di fronte alla Francia, era combattuta in
Italia dai partiti estremi, e il turpiloquio dei giornali francesi
contro il patriotta italiano era, purtroppo, imitato da qualche giornale
nostro. È noto quale influenza eserciti certa stampa sugli animi deboli
e impulsivi; un tal Caporali, il 13 settembre aggredì e ferì non
leggermente l'on. Crispi.
La propaganda francofila produsse un altro effetto deplorevole; taluni
italiani ebbero la cattiva idea di organizzare un cosiddetto
pellegrinaggio di operai italiani, i quali si recarono in Francia a
protestare contro il Governo del loro paese. Intorno a cotesto viaggio,
l'Incaricato di Affari a Parigi, signor Ressman, scriveva privatamente a
Crispi in data 14 settembre:
Checchè se ne dica, la verità _vera_ sullo scandaloso pellegrinaggio
dei nostri operai repubblicani in Francia si è ch'essi non ebbero
luogo di troppo entusiasmarsi per l'accoglienza qui ricevuta.
Potevamo temere dimostrazioni ben altrimenti chiassose: la massa
della popolazione parigina invece rimase assolutamente indifferente
ed inerte, ignorando quasi la presenza d'italiani. Testimoni oculari
mi affermarono che fu freddo anche il ricevimento all'Hôtel de
Ville. Quattro bislacchi discorsi e le amplificazioni solite
d'alcuni giornalacci rimpiazzarono ciò che i promotori forse
speravano da uno spontaneo movimento popolare. I più savi dei
francesi non s'illusero sull'efficacia pratica della dimostrazione,
ed in molti, sopra ogni calcolo politico, doveva vincerla il
disprezzo per così sfrontati promettitori di alto tradimento. Tale
disprezzo invase irresistibile perfino l'animo di un corrispondente
del _Secolo_, il noto Paronelli, astigiano, prima corrispondente a
Berlino, il quale venne da me a dare sfogo al suo sdegno ed a
dichiararmi che in presenza di tanta malafede egli voleva
pubblicamente romperla con Sonzogno, la questione ponendosi oramai
sul terreno della fedeltà alla bandiera nazionale....
Alfieri, Visconti-Venosta, Imbriani, Nicotera sono, tra i tanti
nostri uomini politici qui venuti, quelli che attirarono
l'attenzione, e se non parlassi che del primo e del terzo direi
quelli che più si studiarono d'attirarla. Visconti-V. si tenne
quanto più potè e col massimo tatto nell'ombra. Nicotera, spaventato
della non provocata _réclame_ di capo d'opposizione colla quale il
_Figaro_ salutò il suo arrivo, si affrettò a scolparsi
dell'importuno complimento con un telegramma alla _Tribuna_ che
venne a leggermi ieri protestando (affinchè glielo ripetessi) che
malgrado la sua situazione parlamentare egli _si batterebbe per
Crispi_, se lo si volesse sospettare d'essere venuto a combattere su
questo terreno la sua politica estera, mentre in fatto non era
venuto per altro che per contemplare la Torre Eiffel. Gli dissi che
non avrei osato dubitare dell'identità del suo col mio proprio
sentimento verso uomini capaci di venir nelle presenti condizioni a
cercar dai francesi un puntello a' loro scopi politici in Italia.
_P.S._ Il sig. Jules Ferry manda a chiedermi l'indirizzo del barone
Nicotera. Non fo commenti.»
Il 4 ottobre l'on. Crispi compì settant'anni e il principe di Bismarck
colse l'occasione di quell'anniversario per rinnovare al suo amico e
collega l'espressione dei suoi sentimenti:
Aujourd'hui, cher ami et collègue, vous célébrez l'anniversaire que
j'ai fêté il y a cinq ans et qui me donne l'occasion de joindre les
vœux chaleureux que je forme pour votre bonheur et votre avenir
politique à ceux que vos compatriotes vous adresseront au jour de
votre fête. J'éspère que votre santé sera promptement rétablie et
vous permettra de continuer pendant de longues années votre précieux
concours à la tâche pacifique que nous unit dans l'intérêt de nos
deux nations.
VON BISMARCK.
Je vous remercie cordialement des vœux chaleureux que vous
m'exprimez. Je suis profondement touché de ce témoignage d'amitié
ainsi que du prix que Votre Altesse veut bien attacher au concours
devoué que je lui prête dans la grande œuvre de paix qui unit nos
deux nations.
CRISPI.
Non mancò mai in Crispi il buon volere per ristabilire migliori
relazioni con la Francia. Il 10 ottobre egli riceveva dal Ressman le
seguenti informazioni:
Non ebbi dal signor Spuller una sola udienza in cui egli ad uno o ad
altro proposito, non abbia protestato delle sue fermamente
amichevoli intenzioni verso l'Italia e verso il Regio Governo,
ripetendo in frasi quasi stereotipe che mai per opera sua un
dissidio sorgerà fra le due nazioni, che mai egli lascerà degenerare
in conflitto alcuna contestazione fra noi, che sempre si studierà a
darci ogni più efficace prova di buon volere e di animo conciliante.
Anche nel colloquio che ebbi ieri con lui, questo signor Ministro
degli Affari esteri, annunziandomi il prossimo arrivo in congedo del
signor Mariani, che passerà qui due o tre settimane, mi disse che
gli ripeterà verbalmente le più categoriche istruzioni affinchè dopo
il suo ritorno in Italia raddoppii d'animo per convincere il Regio
Governo delle cordiali disposizioni del Governo della Repubblica e
si adoperi «con ardore, con serenità, con allegro umore» (sono le
sue parole) a dissipare ogni possibile malinteso ed a ravvicinare di
più in più i due paesi.
L'occasione era buona per far sentire al signor Spuller che da atti,
meglio che da ogni parola, l'E. V. ed il Governo di Sua Maestà
potrebbero essere indotti a vincere i dubbi sulla sincerità di
quelle intenzioni che troppo sovente risorgevano, ora perchè nessuno
in Italia poteva capacitarsi che il Governo francese fosse
interamente estraneo al linguaggio troppo spesso amaro, calunnioso,
aggressivo della stampa parigina, non meno di quella dei
dipartimenti verso il Regno vicino; ora perchè pareva difficile di
non ammettere una certa connivenza del medesimo nella guerra così
accanita che qui una formidabile lega di ribassisti muoveva al
credito italiano; ora perchè in più di una questione insorta fra'
due Governi, come per esempio in quella di Gabes, le tergiversazioni
e gli indugii a venirne ad una soluzione non tradivano invero
sentimenti conformi alle reiterate dichiarazioni di amicizia. Non
nascosi al signor Spuller, che queste osservazioni non mi erano
suggerite da un solo apprezzamento mio personale, ma che più volte
mi venivano fatte dall'Eccellenza Vostra e che a me stava a cuore di
poterle rispondere altrimenti che con giudizii miei propri dettati
da desiderio di conciliazione.
M'inspirai nel mio discorso dal telegramma che l'Eccellenza Vostra
mi aveva indirizzato in data del 3 corrente.
Il signor Spuller nel rispondermi cominciò dall'inveire in termini
violentissimi contro il giornalismo ed i giornalisti. Riconobbe,
esprimendone vivo rammarico, che il Governo era impotente contro la
stampa, non solo per effetto della legge, ma principalmente pel
carattere e per la qualità dei giornalisti coi quali aveva da fare.
«Io che ogni mattina mi vedo condannato a riceverne qui molti, vi
posso dire che nulla uguaglia la loro ignoranza profonda, le loro
insensate prevenzioni, la loro passione. E la passione è retaggio
dell'ignoranza, avvegnacchè chi è istruito, chi sa, chi ragiona non
deve ciecamente appassionarsi. Oggi i giornalisti si reclutano fra
tutto ciò che vi è di più basso, di più infimo fra gli uomini capaci
di tenere una penna. Fatelo sentire al vostro Governo, affinchè non
renda noi responsabili di eccessi che deploriamo e contro i quali
lottiamo noi per i primi».
Obiettai al mio interlocutore che sapevamo certamente distinguere
fra una ed un'altra classe di giornali e di giornalisti, che il mio
voto di un diverso indirizzo della stampa francese riferivasi
specialmente alla stampa ufficiosa, della quale il Governo della
Repubblica pure non poteva continuare ad affermarsi irresponsabile.
A ciò il signor Spuller rispose citando quello che fu già il
giornale di Gambetta ed il suo, _La République Française_, di cui
non gli pareva dovessimo dolerci. Alla mia volta gli nominai _Le
Temps_, che giornalmente riceve comunicazioni del Ministero degli
Affari esteri ed accolse pure in non lontano tempo apprezzamenti
assai poco benevoli circa gli uomini e le cose d'Italia. Il signor
Spuller parve non esser meco d'accordo su questo punto.
Alla guerra che qui si fa ai valori italiani il Ministro pretese
interamente ed assolutamente estranea l'azione del Governo, nè trovò
risposta quando gli dissi che erano per lo meno scusabili i sospetti
che doveva far nascere la quasi unanimità dei bollettini finanziarii
di tutti i giornali di Parigi nel dare quotidiani e feroci assalti
al credito Italiano.»
Furono probabilmente queste dichiarazioni dello Spuller, suo antico
amico personale, che suggerirono all'on. Crispi di preannunziare nel suo
discorso di Palermo del 14 ottobre l'abolizione delle tariffe
differenziali applicate alle merci importate in Italia dalla Francia.
L'on. Crispi non pose condizioni, ma pel fatto stesso della sua
iniziativa obbligò il governo francese a manifestare l'animo suo.
In un colloquio del 23 ottobre con Menabrea il ministro Spuller mi
espresse calorosamente — telegrafava l'Ambasciatore — il suo
desiderio di corrispondere alla iniziativa di V. E., non
dissimulando però le difficoltà parlamentari. Affine di ottenere
dichiarazioni più esplicite dal signor Spuller, senza oltre
impegnare V. E., gli dissi sotto la mia personale responsabilità,
che sarei felice di dar termine alla mia carriera, anzitutto con il
contribuire a ristabilire pacifiche relazioni commerciali tra
Francia ed Italia, al che Spuller rispose che si stimerebbe pure
fortunato di esordire nella sua carriera diplomatica con il
raggiungere l'ottimo intento, al quale egli è disposto a mettere il
massimo impegno. Mi invitò a conferire in proposito con il signor
Tirard.»
Quale atteggiamento assumesse il presidente del Consiglio, signor
Tirard, risulta da quest'altro telegramma del Menabrea, del 25 ottobre:
In seguito alla conversazione che, mercoledì ultimo, io ebbi col
signor Spuller e della quale io resi conto all'E. V. col mio
telegramma di ieri, mi recai presso il signor Tirard, che aveva
avuto tempo di leggere e meditare il discorso di V. E.
Egli dimostrò di apprezzarlo grandemente e ne riconobbe il senso
pacifico e conciliativo; tuttavia egli non ammette intieramente che
il contegno stesso della Francia abbia causato, per parte nostra, la
denunzia del trattato di commercio, che fu ed è tuttora pretesto di
tante recriminazioni contro di noi.
Nell'annunzio fatto da V. E. di avere la intenzione di proporre al
Parlamento l'abolizione dei diritti differenziali rispetto alla
Francia, senza chiedere la reciprocità per parte di essa, il signor
Tirard si compiacque di riconoscere un atto conciliativo tale da
calmare le asprezze tuttora esistenti nei rapporti commerciali dei
nostri due paesi. Ma quando io gli chiesi se egli avrebbe seguìto
nella via conciliativa apertagli dall'E. V., egli mi rispose che,
prima di addivenire all'abolizione, per parte della Francia, delle
tariffe differenziali, sarebbe necessario di riformare alcuni
articoli della nostra tariffa generale, che sono effettivamente
proibitivi per il commercio francese; al che gli feci osservare che
la questione posta in quel modo era affatto diversa dall'altra,
poichè egli ci suggeriva infatti per le nostre tariffe delle
modificazioni che giustificherebbero soltanto la stipulazione di un
nuovo trattato di commercio, al quale la Francia stessa in questo
momento ripugnava, mentre la dichiarazione di V. E., relativa
all'abolizione dei diritti differenziali, era un atto di conciliante
cortesia, che non potrebbe essere ricambiato che con un atto
consimile per ben dimostrare che i nostri due paesi, conservando
tuttora la loro libertà commerciale, non intendono continuare più
oltre una guerra di tariffe che non giova a nessuno. Il signor
Tirard, tuttochè si mostrasse desideroso di ristabilire più facili
rapporti commerciali coll'Italia, non nascose che temeva
d'incontrare nella nuova Camera un ostacolo quasi insuperabile.
Poichè le ultime elezioni furono fatte sotto l'influenza del
protezionismo più assoluto, per cui è dubbio che, colla miglior
volontà, egli possa compiere il desiderio espressomi con vivacità
dal suo collega, il signor Spuller, quello cioè di ristabilire la
pace commerciale.
Tuttavia l'ostilità contro l'Italia va scemando; il discorso di V.
E. produsse molto effetto sugli uomini più oculati. Benchè la stampa
che, in generale, agisce sotto l'influenza della speculazione, tenti
di mantenere un'irritazione che serve di argomento alle sue
polemiche, non pertanto le idee pacifiche tendono a prendere il
sopravvento.
Il presidente della Repubblica, cui feci questa mattina la mia
visita di dovere, mi parlò in quel senso, ed espresse il pensiero
che le Potenze europee, anzichè profondere tesori per divorarsi tra
loro, dovrebbero unirsi per resistere all'avversario che dalla
sponda occidentale dell'Atlantico sembra voler minacciare il
commercio e l'industria europea.
Ma l'ostilità francese era irreducibile, e l'iniziativa pacifica
dell'on. Crispi non fu corrisposta.
Crispi non nutrì tuttavia risentimento verso i ministri della
Repubblica. Una piccola prova della serenità del suo spirito è data
dalla seguente lettera:
Sombernon (Côte d'or) le 13 mai 1890.
_Monsieur le Président du Conseil_,
J'ai l'honneur de vous offrir la sincère et respectueuse expression
de mes sentiments de reconnaissance pour l'insigne faveur qui m'a
été accordée sur la proposition de Votre Excellence, par sa Majesté
le roi d'Italie, quand elle a daigné me conferer la grand-croix de
son ordre royal des Saints Maurice et Lazare dont son digne ministre
à Paris, M. Resmann, m'a remis les insignes et le diplôme le six mai
courant.
Il m'a été particulièrement agréable de recevoir par l'intermédiaire
de Votre Excellence cette marque de la haute estime de Sa Majesté,
et je serai heureux si Votre Excellence voulait bien se charger
d'être auprès du Roi l'organe et l'interprète de ma profonde
gratitude.
Je saisis cette occasion, monsieur le Président du Conseil, de vous
assurer de la très haute considération avec laquelle j'ai l'honneur
d'être
de Votre Excellence
le très humble et très obéissant serviteur
E. SPULLER
Député au Parlement français
ancien ministre des affaires étrangères de la République.
CAPITOLO DUODECIMO.
1890 — Tunisi e Tripoli.
Il licenziamento del principe di Bismarck: i rescritti
imperiali per la protezione degli operai; spiegazioni
dell'imperatore Guglielmo; Crispi e Bismarck. — La
progettata annessione alla Francia della Tunisia;
l'opposizione di Crispi; l'appoggio delle grandi Potenze;
corrispondenza Crispi-Salisbury. — Tripoli per Tunisi. — Le
fortificazioni di Biserta. — In previsione dell'occupazione
italiana della Tripolitania.
La sera del 20 marzo il supplemento dello _Staats-Anzeiger_ pubblicava
due ordinanze del Gabinetto imperiale secondo le quali il principe di
Bismarck era, a sua domanda, esonerato dalle funzioni di Cancelliere
dell'Impero germanico, di Presidente del Ministero prussiano e di
ministro degli Affari esteri; e il generale di Caprivi, comandante il X
Corpo d'Armata, era nominato Cancelliere e Presidente del Ministero; al
conte Erberto di Bismarck si affidava provvisoriamente l'incarico della
direzione degli Affari esteri.
Il conte di Launay scriveva privatamente a Crispi che il ritiro
dell'uomo di Stato eminente che aveva potuto rendere al suo paese
servigi inestimabili, era il risultato fatale dell'antagonismo tra due
potenze: una alla sua aurora, l'altra al tramonto; questa abituata a non
tollerare ostacoli e a spezzare ogni resistenza, — quella giovine e
risoluta a occupare il posto che le apparteneva di diritto, a
rappresentare una parte preponderante e ad agire secondo la propria
volontà. “Il suo regno — scriveva il di Launay — si disegna sempre più
nettamente, ed è rappresentato da un Principe che ha un'anima elevata e
virile, che dimostra un sentimento vivissimo della responsabilità, uno
zelo ardente nel disimpegno dei suoi doveri, e intenzioni rette. Egli
merita certamente che il successo risponda ai suoi nobili sforzi.„
Intorno alle circostanze determinanti dell'avvenimento che suscitò
dovunque una grande sorpresa, l'on. Crispi ricevette le seguenti
informazioni:
Il punto di partenza del dissenso tra l'Imperatore e il principe di
Bismarck è stato il rescritto imperiale del 4 febbraio per la
protezione degli operai. Dopo di allora sopravvennero vari
incidenti, i quali hanno condotto avanti ieri (16 marzo) ad una
spiegazione tra Sua Maestà e il Principe. Questi aveva ricevuto la
visita del signor Windthorst, capo della frazione del Centro. Tra i
membri di questa frazione ve ne sono certamente parecchi che cercano
di conciliare gli interessi della religione cattolica con quelli
dell'Impero; ma non è meno vero che in cotesta categoria non si
potrebbe annoverare il signor Windthorst, il quale, sotto il
mantello della religione, tende a scalzare le fondamenta
dell'Impero. Il giornale officioso, la _Norddeutsche Allgemeine
Zeitung_, nello scopo di ottenere una maggioranza governativa al
Reichstag, manovrava di già nel senso di ravvicinare al Centro il
partito dei conservatori, sulla base del principio di autorità che
entrambi rappresentano. D'altronde, l'alleanza tra i due partiti era
insinuata chiaramente in un articolo dello stesso giornale, il quale
dimostrava che, riuniti, i conservatori e gli ultramontani
disporrebbero realmente della maggioranza, e che una intesa tra essi
è possibile su un certo numero di questioni.
L'Imperatore rimproverava al Cancelliere di non aver rifiutato la
visita del signor Windthorst.
Sua Maestà ha inoltre chiesto al Principe di ritirare un'ordinanza,
in forza della quale i Ministri e i Segretari di Stato non possono
presentarsi all'udienza dell'Imperatore senza il permesso del
Cancelliere. Il Principe ha rifiutato il suo consenso.
Il Sovrano desiderava poi, contro il parere di Sua Altezza, di
ridurre allo stretto necessario ì nuovi crediti militari da chiedere
al Parlamento, i quali dovranno servire ad aumentare l'artiglieria
di 74 batterie. Il Reichstag attuale respingerebbe la legge
progettata, e ne sorgerebbe un conflitto che Sua Maestà vuole
evitare. I Capi dei Corpi d'armata sono convocati a Berlino per
pronunziarsi sull'estremo limite della riduzione.
Infine, Sua Maestà si lagnava che lo si informasse incompletamente
intorno agli affari esteri.
Il principe di Bismarck tradì con dei gesti l'impetuosità del suo
carattere, e dopo cotesto sfogo di cattivo umore, i suoi occhi
s'inumidirono. L'Imperatore conservò la più grande calma durante il
penoso colloquio, e separandosi dal suo primo ministro gli disse che
aspettava di conoscere il risultato delle sue riflessioni.
Ieri però il generale de Hancke, capo dell'ufficio militare, si
recava dal Cancelliere per annunziargli che era atteso al Castello
per regolare con Sua Maestà i particolari relativi al suo ritiro. Il
principe di Bismarck ha rifiutato di arrendersi a cotesta chiamata
ed ha mandato oggi all'Imperatore una Memoria giustificativa.
Il Segretario di Stato chiederà di essere anch'egli dispensato dal
servizio quando la notizia delle dimissioni di suo padre sarà data
ufficialmente. Il conte di Bismarck agisce sotto l'impulso di un
nobile sentimento, poichè non esiste tra Sua Maestà e lui nessun
motivo di dissenso circa la direzione della politica estera.
In fondo, la ragione vera della discordia fra l'Imperatore e il
Principe sta nell'incompatibilità dei loro caratteri. Il Principe è
autoritario, non soffre la minima contraddizione, non sa piegarsi
alle transazioni. L'Imperatore, sebbene renda piena giustizia al
Principe per gli eminenti servizi resi durante più di un quarto di
secolo alla monarchia, alla Prussia e alla Germania, è risoluto a
prendere sotto la sua alta direzione la politica interna, come la
politica estera, mentre il Cancelliere voleva tenere nelle sue mani
le redini del Governo, come le aveva tenute negli ultimi anni del
regno dell'imperatore Guglielmo I.
Non si sa ancora nulla circa il successore. Persone bene informate
assicurano che l'Imperatore da un mese avrebbe fatta la sua scelta.
Comunque sia, niente sarà cambiato nella politica estera.
L'Imperatore resta fedele alla triplice alleanza.
Le notizie che precedono mi sono state fornite con raccomandazione
di comunicarle personalmente a V. E. Le parole così graziose
all'indirizzo di V. E., che sono oggi state dette dal Cancelliere al
senatore Boccardo, possono essere considerate come un addio a chi,
come Lei, ha saputo meritare l'amicizia e la stima di Sua Altezza.»
I rescritti imperiali del 4 febbraio sul miglioramento delle condizioni
degli operai, non erano stati accolti dal principe di Bismarck senza
obiezioni. Pur apprezzando il sentimento umanitario del suo Sovrano, il
Gran Cancelliere si preoccupava dell'insuccesso cui questi si esponeva,
delle speranze difficilmente realizzabili che faceva nascere e della
ripercussione che l'iniziativa imperiale avrebbe avuto sulla situazione
dei partiti. Egli temeva altresì che nelle elezioni allora prossime per
il Reichstag, molti elettori fossero indotti a votare per candidati, i
quali sotto la bandiera delle aspirazioni bandite dall'alto
dissimulassero i loro principii socialisti e anarchici. Il Principe
credeva che si fosse fatto abbastanza pel momento, nel senso di un
“socialismo di Stato„, con le leggi relative agli accidenti sul lavoro,
alle casse di risparmio, all'invalidità degli operai, e che lo Stato
dovesse limitarsi a proteggere la libertà del lavoro, senza intervenire
nelle contese tra i padroni e i lavoratori, reprimendo rigorosamente i
disordini.
Dopo l'annunzio della crisi, il conte de Launay scriveva
confidenzialmente, in data 23 marzo, all'on. Crispi:
Sono informato che sin dal 19 corrente le ambasciate della Germania
a Roma, Vienna, Londra e i rappresentanti della Prussia a Dresda e a
Monaco, sono stati avvertiti che i mutamenti che stavano per
effettuarsi a Berlino non alteravano in nulla i rapporti
internazionali dell'Impero.
Oggi, alla festa degli Ordini, mi son trovato a fianco del nuovo
Cancelliere, il quale mi ha parlato nello stesso senso. Egli ha sin
da principio accolto a malincuore l'offerta del suo Sovrano. La sua
ambizione era di continuare a servire attivamente nell'esercito e di
morire, occorrendo, su di un campo di battaglia, anzichè consumare
le sue forze su di un terreno nel quale ha lo svantaggio di
succedere all'uomo di genio che per tanti anni ha rappresentato una
parte immensa in Europa. Egli si è rassegnato quando l'Imperatore ha
fatto appello alla sua devozione: come militare, il coraggio e
l'obbedienza sono per lui virtù professionali. Ma mi ha assicurato
che nelle relazioni estere seguirà le orme del suo predecessore. Gli
ho detto che speravo mantenere con lui rapporti di mutua confidenza
nell'interesse dei nostri due paesi e che avrei fatto tutto il
possibile per riuscirvi. Il generale di Caprivi mi ha risposto che
il principe di Bismarck, passando in rivista il corpo diplomatico,
aveva indicato l'ambasciatore d'Italia nel numero dei diplomatici ai
quali poteva accordare piena confidenza. Ho fatto allusione a
qualche racconto della stampa tedesca che attribuisce alla sua
famiglia origine italiana; onde i nostri giornali avevano rilevato
questo fatto come un augurio di più per la continuazione degli
eccellenti rapporti fra l'Italia e la Germania. Il generale ha
contestato il fatto, i suoi antenati avendo emigrato dal Friuli
austriaco in Germania; la parentela con i Montecuccoli non era
provata. «Ciò non impedisce, ha soggiunto, che io ami gli italiani,
e che vi proponga di bere con me alla loro salute». Dal mio canto ho
brindato alla salute dei tedeschi.
Dopo il pranzo, l'Imperatore mi ha preso in disparte. Egli teneva
che io dessi a S. M. il Re e a Vostra Eccellenza qualche dettaglio
sulla crisi avvenuta qui. Dopo il suo ritorno da Friedrichsruh, il
principe di Bismarck era irriconoscibile; si notava in lui una
grande sovreccitazione. Secondo l'opinione del medico, se cotesto
stato si fosse prolungato, avrebbe dato luogo ad un attacco nervoso.
Era un uomo finito per indebolimento di forze. «Il mio cuore, ha
detto l'Imperatore, ha sofferto profondamente per la necessità di
porre alla riserva un antico e illustre servitore della Corona». Sua
Maestà esprimeva la speranza che in avvenire i consigli, l'energia,
la fedeltà del Principe non sarebbero, occorrendo, mancati
all'Impero. All'estero si ricorderà la politica di pace così
saviamente seguita dal principe di Bismarck «e che io stesso sono
risoluto a continuare con tutte le forze della mia volontà. Io resto
fedele alla triplice alleanza». Senza essa, l'Europa avrebbe già
sofferto per sanguinosi conflitti. «Ho notizie rassicuranti da
Pietroburgo. L'imperatore Alessandro è animato dalle migliori
disposizioni, e per ottenere che egli non se ne allontani, gli farò
visita entro l'anno, nell'epoca delle grandi manovre a
Tsarkoe-Zelo».
Ho detto a Sua Maestà che nella mia corrispondenza avevo già
avvertito che nessuna modificazione sarebbe stata apportata al
programma pacifico del Gabinetto di Berlino e che questo si
manteneva incrollabile per il mantenimento della triplice alleanza,
la quale è una solida base della pace. Ho soggiunto che mi sarei
affrettato a trasmettere a Roma le nuove dichiarazioni provenienti
da chi tiene con mano ferma le redini dello Stato.
L'Imperatore ha soggiunto: «Voi sapete che l'ambasciatore d'Italia è
persona gratissima e che gode della nostra intiera confidenza».
Ho detto ancora a Sua Maestà che io avevo avuto cura di negare
qualunque speranza di riuscita agli intransigenti ultramontani che
credono si avvicini il momento di ritornare ai loro sogni di
restaurazione del potere temporale. Sua Maestà non ha esitato a
dichiarare che certamente tali sogni non saranno da essa favoriti.
«Io son troppo buon protestante per prestarmi a tali vedute.
D'altronde, sento un sincero attaccamento per il vostro Re e per
l'Italia».
Mi risulta che l'Imperatore ha detto anche al mio collega di Austria
che nulla sarebbe stato mutato nel suo programma di politica estera.
Sua Maestà si è pure mostrata soddisfatta dei lavori della
Conferenza per la protezione degli operai. Essa spera che dalle
deliberazioni della medesima verrà qualche buon risultato, non fosse
altro una base per Conferenze ulteriori.
Il conte Erberto di Bismarck, malgrado tutti gli sforzi del Sovrano
per conservarlo nelle sue attuali funzioni, persiste a volersi
ritirare. In ogni caso prenderà un lungo congedo. Avrà l'interim
degli Affari esteri il conte di Hatzfeldt, ambasciatore a Londra.
Dopo pochi giorni le dimissioni del conte di Bismarck furono accettate,
e al suo posto fu nominato il barone di Marschall, ministro del
Granducato di Baden presso la Corte imperiale e membro del Consiglio
federale.
L'on. Crispi fu sinceramente afflitto pel ritiro del principe di
Bismarck dalla direzione della politica germanica, sia per l'amicizia
che a lui lo legava, sia per l'appoggio illimitato e decisivo che ne
aveva avuto in ogni circostanza. Il 21 marzo appena apprese la
pubblicazione ufficiale dello _Staats-Anzeiger_, inviò il suo saluto al
Principe, che rispose immediatamente. Ecco i due telegrammi:
Rome, 21/3/1890.
_Son Altesse le Prince de Bismarck_,
Berlin.
Bien que Votre Altesse, en se retirant des hautes fonctions où la
confiance de trois Empereurs l'avait placée et conservée, laisse à
l'Allemagne le précieux héritage de la politique de paix à laquelle
vous vous étiez si complètement dédié, je n'en éprouve pas moins les
plus profonds regrets de votre détermination, regrets qui me sont
inspirés autant par l'amitié qui m'unit à Votre Altesse, que par la
confiance sans bornes que j'avais en Elle. Cette amitié et cette
confiance, ne sauraient diminuer. Votre Altesse doit en être
convaincue. Elle pourra toujours compter sur mon dévouement le plus
sincère et le plus cordial.
CRISPI.
Berlin, 22 mars 1890.
Je remercie Votre Excellence de tout mon cœur des paroles
affectueuses qu'Elle vient de m'adresser. Elles sont un nouveau
témoignage des sentiments de confiance et d'affection dont je
m'honore et que je vous rends du fond de mon âme. J'ai été heureux
de me trouver placé en présence d'un homme d'Etat comme Votre
Excellence lorsqu'il s'est agi de traiter les affaires des nos deux
pays, et je vous prie de continuer avec mon successeur les relations
de confiance qu'ont si bien servi les intérêts des deux pays. Je
garderai toujours le souvenir de nos relations politiques et je vous
prie de me conserver l'amitié personnelle qui restera inaltérable
résultat de notre travail au service de la patrie.
DE BISMARCK.
Ricorrendo il 1.º aprile il genetliaco del Principe, l'on. Crispi, che
negli anni precedenti gli aveva mandato i suoi augurii, non mancò di
rinnovarglieli. E il suo telegramma fu ricambiato da una lettera la
quale è un'altra prova della cordialità dei sentimenti che legavano il
Bismarck al suo ex-collega.
1 avril 1890.
_A S. A. le Prince de Bismarck_,
Veuillez agréer, mon Prince, les vœux très sincères et très
chaleureux que je forme pour V. A. en ce jour anniversaire de sa
naissance. Vous avez emporté avec vous, dans les calmes solitudes
qui vous sont chères, la conscience d'une grande tâche glorieusement
remplie, d'une vie laborieuse, consacrée toute entière au service
d'une grande dynastie et d'un grand peuple. C'est un beau sort que
le vôtre. Que Dieu vous accorde d'en jouir pour de longues années en
vous conservant à votre souverain et a votre pays, qui peuvent
toujours compter sur les conseils de votre génie et de votre
expérience, à l'amour de votre famille, à l'affection immuable de
ceux qui vous sont dévoués.
CRISPI.
Friedrichsruh, le 21 avril 1890.
_Mon cher Ministre_,
Les bons vœux que Vous m'avez adressés pour l'anniversaire de ma
naissance m'ont vivement touché et je Vous prie d'agréer
l'expression de ma sincère reconnaissance.
L'endroit dont je date ces lignes ne m'est cher pas seulement par le
calme de ses forêts, mais surtout par le souvenir si agréable des
visites, dont Vous avez bien voulu m'y honorer. A mon regret nos
excellentes relations officielles ont été interrompues, mais je suis
sûr que Votre Excellence me conservera toujours l'amitié personnelle
qui nous lie et je serai heureux de Vous serrer la main où que ce
soit.
Veuillez croire, cher ami, à mes sentiments de très-sincère
dévouement; ma femme et mon fils se rappellent à Votre souvenir
affectueux.
VON BISMARCK.
[Illustrazione: Autografo riprodotto fotograficamente: lettera di
Bismarck a Crispi.]
Durante il suo governo, l'on. Crispi non trascurò la difesa di alcun
interesse italiano all'estero: rappresentanze diplomatiche e consolari,
scuole, missioni, agenzie commerciali, stazioni navali, — ogni organo
d'influenza, insomma, fu da lui attentamente curato o istituito. E le
colonie nostre, anche le più remote, si sentirono vicine alla
madre-patria, e sotto la vigile sua scorta custodirono con orgoglio i
vincoli nazionali.
Ma furono gl'interessi dell'Italia nel Mediterraneo quelli che ebbero le
maggiori diligenze di Crispi, una predilezione fiera, gelosa,
appassionata. Certo, egli non pensò che gli avvenimenti potessero
retrocedere: dall'Egitto eravamo esclusi definitivamente, e la Tunisia
era perduta in gran parte. Vide, tuttavia, che una politica accorta e
ferma avrebbe potuto impedire che la situazione dell'Italia nel suo mare
peggiorasse, e forse trovare qualche compenso ai danni subiti.
La Francia, imponendo il suo protettorato al Bey di Tunisi, si era
impegnata a rispettare le Capitolazioni e i diritti acquisiti dagli
altri Stati, e a non fare in Tunisia fortificazioni che potessero
costituire una base militare. Era naturale che col tempo quegli impegni
divenissero una servitù gravosa, e che, modificandosi a poco a poco lo
stato d'animo col quale i francesi si erano avventurati nell'impresa
tunisina, essi cercassero di rendere assoluto e definitivo il loro
dominio. Due Stati avevano interesse a contrastare questo proponimento,
l'Inghilterra e l'Italia.
La politica italiana tenne sempre in gran pregio l'amicizia britannica
perchè essa rappresentava per l'Italia una garenzia dello _statu-quo_
nel Mediterraneo. Ma in verità, gli sforzi da noi fatti per conservarla
e per renderla intima, sono spesso stati inani per la divergenza
degl'interessi anglo-italiani. In teoria, l'Inghilterra doveva preferire
che l'Italia, pacifica e sincera sua amica, avesse il predominio o
almeno una forte posizione nel Mediterraneo; in pratica, l'Inghilterra
avendo interessi molteplici nel vasto mondo e dovendo qua e là fare i
conti con la potenza francese, ha dovuto transigere talvolta e dare alla
Francia i compensi che questa esigeva, nel Mediterraneo appunto.
Nella questione di Tunisi abbiamo veduto[35] come l'Inghilterra si fosse
compromessa nel 1878, e si spiega perfettamente la successiva sua
politica ambigua, tra la Francia che in Tunisia aveva ragione di non
attendersi contrarietà inglesi e l'Italia che supponeva una solidarietà
d'interessi inesistente.
[35] Cfr. Capitolo Secondo.
Data questa situazione, le difficoltà dinanzi alle quali si trovò Crispi
erano insormontabili. Ma il conoscere com'egli cercasse di superarle, e
come riuscisse a paralizzare l'azione del governo francese, ha senza
dubbio una grande importanza.
In giugno 1890 Crispi ha notizia da Parigi che sono in corso
conversazioni tra lord Salisbury e l'ambasciatore francese a Londra,
Waddington, nelle quali si tratta di concessioni da parte inglese a
Tunisi, in corrispettivo dell'acquiescenza della Francia al protettorato
dell'Inghilterra sullo Stato libero dello Zanzibar. E dà facoltà al
conte Tornielli, ambasciatore italiano,[36] di dichiarare al ministro
Salisbury, essere opinione del governo del Re che i lavori iniziati
dalla Francia a Biserta minacciavano un turbamento dell'equilibrio delle
forze nel Mediterraneo, e che il gabinetto della Regina farebbe delle
osservazioni a Parigi per impedire il progresso di quei lavori;
contemporaneamente telegrafa a Berlino che il governo del Re in varie
occasioni crede di essersi accorto di una tendenza del Governo
britannico a fare alla Francia delle concessioni a Tunisi, a scapito
d'interessi italiani sui quali l'Italia non avrebbe potuto transigere.
[36] Il conte Tornielli era stato nominato ambasciatore presso la
Regina d'Inghilterra dopo la morte del conte di Robilant, avvenuta a
Londra il 17 ottobre 1888. L'on. Crispi aveva richiamato in servizio
il Robilant, pochi mesi innanzi, nell'aprile, dopo un anno dacchè
quell'eminente diplomatico aveva abbandonato il Governo nelle
circostanze ben note.
Lord Salisbury, il 25 giugno, dichiara al Tornielli di avere
interpellato sui lavori di Biserta l'ambasciatore francese, e che questi
gli aveva risposto non avere quei lavori carattere militare; e
all'ambasciatore germanico, conte Hatzfeldt, dice che di Tunisi non si
era fatta parola tra Londra e Parigi. Quanto allo Zanzibar, il Salisbury
enuncia la massima da lui adottata “che uno Stato non cessa di essere
indipendente se, usando di tale indipendenza, si metta spontaneamente
sotto il protettorato di un altro„, e avverte di aver fatto sapere al
governo francese che se questo non fosse il suo modo di vedere, egli
avrebbe preso in esame le obiezioni che gli fossero presentate.
Pareva, dunque, che trattative non fossero in corso, sebbene restasse
nella situazione che la Francia potesse avanzare pretese di compensi in
Tunisia.
Il 7 luglio l'on. Crispi telegrafa al conte Tornielli:
_(Confidenzialissimo. Personale)._ — Casualmente sono venuto a
conoscere da un amico intimo di Freycinet e di Ribot che la Francia
negozia con l'Inghilterra un trattato di commercio per la Tunisia.
Le pratiche sarebbero state iniziate in vista della condizione
speciale in cui si trova l'Inghilterra di aver colà un trattato, la
cui durata è indeterminata. La persona medesima mi ha dato ad
intendere che la Francia vorrebbe fare altrettanto con noi, e che
sarebbe pronta a concederci le stesse condizioni che farebbe alla
Gran Brettagna.
Che la Francia prepari qualche cosa in Tunisia è oramai certo. Se
indugia si è perchè non vuole scontentare nè l'Inghilterra, nè noi.
Ciò essendo, ho risposto all'amico ufficioso col massimo riserbo e
senza menomamente impegnarmi, che la questione nella Tunisia non si
può toccare in Italia senza incorrere l'avversione pubblica; che
l'argomento offrirebbe materia a lunghi studii; e che se conoscessi
le basi dell'accordo sarei dispostissimo a prenderle nel dovuto
esame. Gioverebbe intanto che io conoscessi le intenzioni di lord
Salisbury, poichè nulla vorrei fare che non sia in perfetto accordo
con lui. La prego perciò di volere con la più grande prudenza
scandagliare quanto vi sia di vero nelle cose dettemi.
Una comunicazione analoga vien fatta a Berlino. Tornielli e Hatzfeldt
conferiscono con Salisbury il quale non nega queste trattative, ma
dichiara esplicitamente che, “in ogni caso, l'Inghilterra farebbe
qualche concessione alla Francia in Tunisia soltanto sul terreno
commerciale, non mai di carattere politico, come sarebbe la rinuncia
alle Capitolazioni„.
Il 14 luglio l'on. Crispi riceve dal Console d'Italia a Tunisi,
Machiavelli, un allarme:
Sono informato da buona fonte che, per accordo seguìto mercoledì, 9
corrente, tra Bey regnante e suoi due successori immediati, da un
lato, e Residenza francese dall'altro, famiglia beylicale cesserebbe
di regnare alla morte del primo, garantendo Francia lista civile dei
Principi, fissata indefinitivamente a due milioni lire, per quello
cui spetterebbe trono. Console inglese fa eguale comunicazione al
_Foreign Office_.
Questa notizia fece sull'on. Crispi una profonda impressione. Chiamò a
Roma per dare loro istruzioni verbali gl'Incaricati d'Affari a Londra e
a Parigi, Catalani e Ressman, e mise sottosopra le Cancellerie delle
Grandi Potenze. Valgano i documenti a far comprendere con quale fervore
e con quali intenti Crispi trattasse la questione:
Roma, 15 luglio 1890.
_Regia Ambasciata italiana_,
Berlino.
Il 9 corrente fu firmata a Tunisi una convenzione con la quale fu
pattuita la cessazione della sovranità beylicale a favore della
Francia alla morte del Principe attualmente regnante. La Francia in
compenso darà al Principe successore una rendita annuale di due
milioni di franchi. Questo atto completa il trattato del Bardo ed
assicura alla vicina Repubblica l'impero di un vastissimo
territorio, dalle frontiere del Marocco a quelle della Tripolitania.
I pregiudizî, che da ciò verranno all'Italia, sono incalcolabili.
L'errore commesso al 1881 dal Gabinetto di Berlino nel permettere
l'occupazione della Tunisia, produrrà i suoi effetti. Se la Germania
lascerà eseguire il suddetto trattato del 9 luglio, a noi non
solamente sarà tolta nel Mediterraneo la libertà alla quale abbiamo
diritto, ma il nostro territorio sarà sotto una continua minaccia.
Se le Potenze amiche non vorranno o non sapranno opporsi a cotesto
nuovo atto di spoliazione, dovranno per lo meno cooperarsi perchè
l'Italia ottenga sicure garenzie contro pericoli inevitabili alla
difesa del suo territorio.
Voglia parlarne subito col conte Caprivi e chiedere da S. E. una
pronta risposta per nostra norma.
Roma, 16 luglio 1890.
_Regia Ambasciata Italiana_,
Berlino.
Fo seguire altre considerazioni al mio telegramma di stanotte con
incarico di subito comunicarle al Cancelliere dell'Impero.
L'atto del 9 corrente, mercè il quale la Francia succede nella
sovranità della Tunisia, ove non fosse impedito metterebbe l'Italia
nella posizione d'invocare l'appoggio della Germania.
La Tunisia venendo sotto la piena sovranità della Francia, in caso
di guerra assumerebbe contro di noi una grande importanza militare.
Biserta, al cui porto da qualche tempo si lavora, diverrebbe una
formidabile piazza di guerra. Essa è a tre ore distante dalla
Sicilia, contro la quale sarebbe una continua minaccia. L'Italia
allora sarebbe costretta a tenere un forte esercito in Sicilia e non
potrebbe, senza pericolo, allontanare da quelle acque la sua flotta.
Per evitare mali maggiori noi ci crediamo in dovere di prevenire il
governo alleato, il quale non mancherà di associarsi a noi nelle
pratiche necessarie a Londra e quando ne verrà il momento, anche a
Parigi.
S'Ella non ha i documenti necessari, li chieda al conte di Launay.
Roma, 18 luglio 1890.
Ritorno sulla questione tunisina.
L'occupazione francese di Tunisi al 1881 produsse la caduta del
Ministero. Il paese se ne addolorò, ma allora l'Italia era isolata.
Oggi esiste la triplice alleanza, ed il mutamento della sovranità in
Tunisi produrrebbe in Italia due conseguenze: il ritiro del
Ministero attuale, e la persuasione nel popolo nostro, che a nulla
giovi la triplice alleanza.
Questa seconda conseguenza sarebbe fatale, e bisogna che il
gabinetto di Berlino ci pensi.
Io son convinto che se la Germania farà comprendere a Parigi che
l'esecuzione del trattato del 9 corrente potrebbe produrre la
guerra, il governo della Repubblica cederà ad un accomodamento con
l'Italia.
Comunichi queste mie considerazioni al Cancelliere dell'Impero.
Tunisi, 16 luglio.
_Signor Ministro_, In conferma ed aggiunta del telegramma in cifra
da me diretto ieri l'altro all'E. V. ho l'onore di riferirle che la
notizia in esso contenuta mi venne data in forma confidenziale dal
Console inglese che l'aveva, così mi disse, ricevuta da un
personaggio della Corte tunisina, famigliare del Bey.
Trovatisi riuniti presso S. A. mercoledì 9 corrente i principi Taib
e Hussein, il signor Regnauld, ff. di Residente, il procuratore
della Repubblica, signor Fabry, ed il comandante Catroux per le
funzioni di interprete, si sarebbe convenuto che la famiglia
beylicale cesserebbe di regnare dopo la morte del Bey attuale, e che
la Francia garentirebbe la lista civile dei principi, fissandola a
perpetuità a due milioni di franchi per quello di essi a cui,
nell'ordine di successione, sarebbe spettato il trono senza la
rinunzia fatta da Alì-Bey e dai due più prossimi eredi in nome della
dinastia.
Il Console inglese ha soggiunto che la qualità del personaggio, il
modo in cui fece le sue confidenze e qualche parola sfuggita ad un
funzionario della Residenza, davano alla notizia tale un colore di
verità che ei credevasi in obbligo di comunicarla sollecitamente al
_Foreign Office_, anche in vista delle trattative pendenti sulle
cose d'Africa, alle quali la questione tunisina non è forse
estranea.
Dal modo con cui mi ha parlato il signor Drummond mi è nato qualche
sospetto che la notizia venga dal Bey stesso o da altro principe
tunisino, sapendo che se non hanno il coraggio di resistere
apertamente, vedrebbero però con giubilo le Potenze europee
intervenire per mettere argine all'azione sempre più invadente della
Francia in Tunisia.
È stato notato che al colloquio tra il Bey e il signor Massicault,
subito dopo il ritorno di quest'ultimo, non è intervenuto il solito
interprete generale Valensi, sebbene persona devota alla Residenza
sino alla servilità, ma ha fatto da traduttore lo stesso figlio
secondogenito di Sua Altezza, e se ne arguisce che siansi trattati
argomenti molto importanti e delicati.
G. B. MACHIAVELLI.
Tunisi, 18 luglio.
_Signor Ministro_, A parziale rettifica del mio rapporto in data 16
corrente devo informare l'E. V. che invece del principe Hussein,
trattenuto a letto da una febbre tifoidea, è intervenuto al convegno
della Marsa un altro Principe della famiglia beylicale.
Il signor Drummond-Haig mi ha lasciato oggi comprendere che gli sono
giunte dal _Foreign Office_ comunicazioni le quali escludono che
l'Inghilterra sia disposta a rinunciare ai suoi diritti nella
Reggenza ed a collegare la questione tunisina con quella dello
Zanzibar, come le ne erano state fatte vivissime istanze dalla
Francia; ha poi soggiunto, e credo di dovere ad ogni buon fine
ripetere, che a parer suo, il governo della Regina non farà a quello
della Repubblica concessioni a Tunisi senza ottenere un compenso in
Egitto, quando sia giunto il momento opportuno.
G. B. MACHIAVELLI.
L'Incaricato d'Affari a Berlino telegrafava il 18 luglio di aver
comunicato al cancelliere Caprivi i telegrammi inviatigli dall'on.
Crispi e di avergli fatto considerare la viva emozione che la notizia
della nuova convenzione tunisina avrebbe destato in Italia quando fosse
conosciuta.
Il Cancelliere — diceva il Beccaria — mi parve compreso della
gravità dell'argomento; dissemi però che appunto per questo non
poteva pronunziarsi senza maturo e profondo esame. La mole degli
affari che lo hanno assorbito dal giorno della sua venuta al potere
non gli lasciò tempo di approfondire la questione tunisina, che non
si aspettava di veder sorgere così presto, e che lo coglie quindi
alla sprovvista. Egli ne farà subito oggetto di un attento esame....
Stando ai ragguagli recentemente inviati dal conte Hatzfeldt, lord
Salisbury non avrebbe conoscenza del fatto.
Berlino, 23 luglio.
Esco da un colloquio col Cancelliere. S. E. crede utile per la
riuscita della campagna diplomatica da condursi per l'affare
tunisino, il concorso dell'Austria-Ungheria e di somma importanza
quello dell'Inghilterra.... Subito dopo le mie prime comunicazioni,
il gabinetto di Berlino intavolò attive pratiche a Londra e a
Vienna. Benchè queste non abbiano ancora approdato, il Cancelliere
spera di poter arrivare a presentare rimostranze collettive a
Parigi.... Intanto egli mi pregava istantemente di assicurare V. E
che questo governo è, come per lo passato, animato dalle migliori
disposizioni e dal maggiore desiderio di rendere servizio
all'Italia, e che egli poi, generale Caprivi, sarà personalmente ben
lieto d'avere occasione di testimoniare a V. E. il suo buon volere e
l'alto conto in cui tiene le di Lei vedute ed apprezzamenti, sapendo
con qual uomo di Stato, esperimentato ed illuminato, egli ha da
fare.... Da certi accenni fattimi dal Cancelliere e da ragguagli
venutimi da altra sorgente, ho potuto indurre che, tastato il
terreno a Londra, il Gabinetto di Berlino, pur non dubitando della
possibilità di ottenere l'appoggio degli Inglesi, si è convinto
della necessità di procedere verso essi con grande cautela,
sopratutto in questo momento in cui lord Salisbury è impegnato con
la Francia in negoziati difficili per gli affari di Zanzibar e di
Terranova.
BECCARIA.
Roma, 24 luglio.
_Regia Ambasciata Italiana_,
Berlino.
Ieri sera è venuto il conte di Solms e mi ha a un dipresso detto ciò
che è contenuto nel di Lei telegramma. Dissi all'ambasciatore di
Germania quali siano i pericoli per la libertà del Mediterraneo e la
pace Europea, se la Francia diverrà sovrana assoluta della Tunisia.
Soggiunsi che ove ciò avvenisse senza alcuna opposizione da parte
delle Potenze alleate, sarebbe indubitata la occupazione anche della
Tripolitania. Bisogna quindi o trovar modo d'impedire la dominazione
assoluta francese in Tunisia, o premunirsi perchè la Tripolitania
sia data a noi, come sola possibile garanzia di fronte
all'aumentarsi della potenza militare e marittima della Francia....
Noi vogliamo procedere d'accordo coi gabinetti amici, ma siamo
risoluti ad usare tutti i mezzi perchè l'Italia non venga colpita da
un fatto che sarebbe un disastro.
CRISPI.
Berlino, 25 luglio.
Esco dal barone Holstein, il quale mi disse che i gabinetti di
Berlino e di Londra sono venuti nella decisione di interpellare in
forma cortese il governo francese circa affare tunisino.
Mentre conversavo col barone, giunse un telegramma dell'ambasciatore
di Germania a Parigi così concepito: «Appena misi conversazione
sulla Tunisia, il signor Ribot dichiarò assolutamente falsa la voce
sparsa dall'Italia che un accordo sia stato concluso dalla Francia
col Bey indennizzando i di lui eredi mediante due milioni di
franchi. Il Ministro degli Affari esteri mi pregò di comunicare
questo al Cancelliere imperiale onde evitare malinteso».
BECCARIA.
Roma, 27 luglio.
_Regia Ambasciata Italiana_,
Berlino,
La smentita data da Ribot sulla esistenza del trattato col quale era
ceduta alla Francia la piena sovranità della Tunisia, ha una
importanza relativa e non ci rassicura pensando alla condotta
precedente del Governo della Repubblica.
Il 12 maggio 1881 fu occupata la Tunisia e fu firmato il trattato
per il protettorato, mentre il 6 aprile dell'anno stesso, cioè pochi
giorni innanzi, Barthélemy Saint-Hilaire aveva dichiarato a Cialdini
che la Reggenza non sarebbe stata occupata.
CRISPI.
Berlino, 28 luglio.
V. E. sarà già informata da Londra, che lord Salisbury interpellò
quell'ambasciatore di Francia circa l'esistenza della convenzione
assicurante alla Repubblica francese la piena sovranità sulla
Tunisia. Il signor Waddington, dopo riferito al suo governo, avrebbe
fatto al ministro degli Affari esteri inglese una dichiarazione
analoga a quella del signor Ribot al conte Münster. Quest'ultimo,
dopo il telegramma di cui diedi contezza il 25 corrente, scrisse che
le affermazioni del ministro degli Affari esteri francese erano
state delle più formali, cosicchè devesi credere o che la
convenzione realmente non esista, o che la Francia non si senta
abbastanza forte per dar seguito alle sue mire di fronte alla
resistenza intravveduta.
BECCARIA.
Contemporaneamente Crispi agiva a Londra. Lord Salisbury cominciò con
esprimere incredulità circa l'esistenza della convenzione.
«Egli non vedeva — così riferiva il Tornielli — come si potrebbe
conoscere la verità intorno all'esistenza della convenzione del 9
luglio, poichè la Francia certamente non la notificherebbe e il Bey
neppure.»
Dopo qualche giorno, il Salisbury avvertiva di non aver potuto
raccogliere le prove del preteso trattato di cessione della Tunisia alla
Francia, però qualche indizio faceva credere che un atto fosse stato
firmato fra il Bey regnante e il Governo francese per assicurare alla
morte del Bey, la successione; e conveniva
«che se le notizie giunte a Roma fossero sufficientemente appoggiate
da prove, il fatto sarebbe certamente di tale gravità da richiedere
che i gabinetti amici dell'Italia s'intendessero per vedere quali
pratiche dovessero farsi.»
Ma Crispi non contentandosi delle risposte date all'Ambasciatore,
scrisse a lord Salisbury la seguente lettera:
Rome, le 23 juillet 1890.
_Mon cher lord Salisbury_,
Votre Excellence recevra cette lettre des mains du commandeur
Catalani, qui vous ouvrira toute ma pensée au sujet de la question
tunisienne, question dont la solution est d'un si grand intérêt pour
l'Italie et pour la Grande Bretagne.
La France est depuis neuf ans en Tunisie. Il serait impossible de
l'en déloger et sa ferme intention est manifestement d'y rester
maîtresse et en toute sécurité.
Sans donner suite aux nouvelles contradictoires reçues de Tunis et
voulant même prêter fois au démenti de M. Ribot, j'ai la conviction
que, tôt ou tard, la France saura acquérir la plénitude de la
souveraineté de ce pays.
En attendant il ne faut pas oublier, que jusqu'au 6 avril 1881,
c'est-à-dire un mois environ avant le traité du Bardo, M. Barthélemy
Saint-Hilaire déclarait au Général Cialdini que le gouvernement
français ne pensait aucunement à une occupation militaire permanente
et moins encore à l'annexion de la Tunisie.
Si ce changement de domination en Tunisie venait d'avoir lieu sans
opposition et à notre insu, la Tripolitaine ne tarderait pas à avoir
son tour. Le Gouvernement de la République tend à occuper cette
région, comme le prouvent surabondamment ses empiétements continuels
sur la frontière.
Il arriverait alors que du Maroc à l'Egypte une seule puissance
dominerait l'Afrique du nord, et que de cette puissance dépendrait
la liberté de la Méditerranée. L'Italie, pour ce qui la concerne,
serait sous la menace incessante de la France; Malte et l'Egypte ne
seraient pour la Grande Bretagne une garantie suffisante.
En présence de tels dangers, il faut se préparer et prévenir
l'exécution des desseins de la France.
La Tunisie ne pouvant être rendue à elle même, et puisque on ne peut
empêcher le Protectorat de devenir un jour ou l'autre une
souveraineté, il serait nécessaire de se premunir contre une
occupation possible de la Tripolitaine de la part de la France en
l'occupant avant elle.
Si nous avions la Tripolitaine, Biserta ne serait plus une menace
pour l'Italie, ni pour la Grande Bretagne.
Nous sommes vos alliés nécessaires; et notre union vous garantirait
la domination de Malte et de l'Egypte. Grâce à elle, l'Italie
n'aurait plus à craindre qu'une double expédition militaire pût
simultanément être dirigée contre elle de Biserta et de Toulon.
Je prie Votre Excellence de peser ces considérations et d'agir de
concert avec le Gouvernement que j'ai l'honneur de présider. Il
s'agit de notre salut et de votre grandeur dans la Mediterranée.
Je saisis cette occasion pour offrir à Votre Excellence les
assurances de ma très haute considération.
F. CRISPI.
Da Londra il 31 luglio, l'Incaricato d'affari, Catalani, informava l'on.
Crispi:
La lettera di V. E. ha prodotto profonda impressione su Salisbury. —
Sua Signoria risponderà per iscritto fra breve. — Per il momento mi
ha incaricato di telegrafare a V. E. «che egli è convinto che _il
giorno in cui lo_ statu-quo _nel Mediterraneo sarà menomamente
alterato è indispensabile che la Tripolitania sia occupata
dall'Italia._ Rammentò spontaneamente avermi manifestato altra volta
tale opinione, punto importante della sua politica. Soggiunse:
_L'occupazione italiana di Tripoli dovrà effettuarsi
indipendentemente dagli avvenimenti in Egitto, cioè a dire, sia che
l'Egitto resti in mani britanniche o del Sultano. Tale occupazione è
richiesta dall'interesse Europeo per impedire che il Mediterraneo
diventi un lago francese. La sola questione da esaminare è
l'opportunità del momento presente all'Impresa._ Su questo punto
Salisbury differisce da V. E. Egli crede che il momento
dell'occupazione non è ancora giunto. Quindi la preghiera che Sua
Signoria rivolge a V. E. per mezzo mio, si contiene in una sola
parola: _aspettare_. Tale parola sarebbe già stata o sarà mandata a
Roma da Berlino. Tutto porta a credere, secondo Salisbury, che
nonostante la poca fede da darsi alle smentite francesi, il Governo
francese fu sincero nell'affermare non aver concluso nuovi accordi
col Bey. All'osservazione che l'accordo potrebbe essere stato
concluso da un precedente Gabinetto, Salisbury rispose che non si
era potuto ottenere alcuna prova. «L'ostacolo principale ad una
occupazione immediata di Tripoli, si troverebbe nella resistenza del
Sultano, che dichiarerà guerra all'Italia. Le condizioni della
Turchia sono diverse da quelle all'epoca della cessione di Cipro. La
Turchia da sè sola non è da temersi, ma sarà appoggiata dalla
Russia, che coglierà l'occasione di rendersi vassallo il Sultano,
difendendone il territorio. Una mossa italiana contro Tripoli
sarebbe il segnale dello smembramento della Turchia, sorte alla
quale essa non può sfuggire, ma alla quale in questo momento nè le
Potenze, nè l'opinione pubblica inglese, sono preparate. L'Italia
non perderà nulla coll'aspettare, se si terrà pronta ad agire al
momento in cui la Francia desse segno di attivare i suoi disegni.»
Da parte sua, Salisbury avvertirà energicamente la Francia di
astenersi dal fare qualsiasi mutazione politica in Tunisia. Sulla
mia domanda di dichiarare risolutamente al Governo francese che la
flotta inglese si unirà alla italiana per mantenere lo _statu-quo_
nella Tunisia, Salisbury rispose che una tale dichiarazione avrebbe
per effetto di suscitare un incidente parlamentare poichè Waddington
ne informerebbe.......... Salisbury conchiuse: «Il Governo italiano
avrà la Tripolitania, ma il cacciatore per tirare sul cervo, deve
aspettare che passi a portata del suo fucile affinchè, anche ferito,
non gli sfugga».
Le mie impressioni sono le seguenti:
1.) Le relazioni fra l'Inghilterra e la Francia sono assai più tese
dell'anno passato; 2.) Salisbury è più deciso dell'anno passato a
non lasciarsi sfuggire l'Egitto, ed una mossa italiana contro
Tripoli sarebbe seguita dal protettorato inglese al Cairo.
La chiave di Tripoli è in questo momento a Berlino. Una parola
risoluta da Berlino infonderebbe a Salisbury l'ardire che gli manca.
Sua Signoria desidera tre o quattro giorni per farmi pervenire
risposta alla lettera di V. E. Ritengo che l'indugio fu chiesto per
mettersi in comunicazione con Berlino.»
Seguì il 5 agosto quest'altro telegramma del Catalani:
Ho ricevuto lettera di Salisbury diretta a V. E., che consegnerò
domani dentro un piego al regio Ambasciatore, affinchè sia spedito
con il corriere di Gabinetto.
Prego V. E. di dar ordine a Tornielli di far ripartire
immediatamente il corriere di Gabinetto per Roma.
Se, come devo credere, la comunicazione scritta di Salisbury è
conforme alle dichiarazioni verbali fatte a me, lo scambio delle
lettere autografe fra i primi ministri Italia ed Inghilterra
costituisce accordo completo nella questione di Tripoli. È probabile
che Imperatore di Germania abbia avuto contezza della
corrispondenza.
La risposta di lord Salisbury fu la seguente:
Londres, 4 août 1890.
_Mon cher Signor Crispi_,
J'ai l'honneur d'accuser réception de la lettre dont Votre
Excellence a bien voulu m'honorer. Je l'ai lue avec le plus grand
intérêt.
Je suis d'accord avec Votre Excellence sur l'avenir probable de la
Tunisie. Elle deviendra fatalement Française un jour ou l'autre:
mais je crois cette issue assez loin. Aussi, je me trouve en
parfaite harmonie avec vos idées sur le danger d'une avance
ultérieure de la part de la France. Les intérêts politiques de la
Grande Bretagne aussi bien que ceux de l'Italie ne comportent pas
que la Tripolitaine ait une destinée semblable à la Tunisie. Il faut
absolument parer à une telle éventualité, quand elle nous menacera.
Mais je ne la crois pas proche. La France a beaucoup de chemin à
faire avant de se trouver à ce point là.
Or, dans une telle affaire, les précautions prématurées sont pleines
de danger.
Si l'Italie venait à occuper Tripoli en temps de paix sans que la
France ait pris aucune mesure aggressive, elle s'exposerait au
reproche d'avoir réveillée la question d'Orient dans des conditions
fort désavantageuses. Le Sultan ne supportera pas la perte d'une
autre province sans pousser des hauts cris. Pour garder son
territoire il fera sacrifice de son indépendance, et il acceptera le
protectorat et le soutien de la Russie.
Ainsi, si j'osais offrir une conseil à Votre Excellence, je la
prierais vivement d'agir avec beaucoup de circonspection et de
patience dans cette affaire; et, tant que les desseins de la France
n'ont pas pris corps, d'éviter toute action qui pourrait nous
compromettre irrévocablement avec le Sultan.
Je prie Votre Excellence de croire toujours à la sympathie vive que
le peuple et le gouvernement Anglais ressentent pour l'Italie: et
d'agréer l'assurance de ma considération et mon respect.
SALISBURY.
[Illustrazione: Autografo riprodotto fotograficamente: lettera di
Salisbury a Crispi.]
La replica dell'on. Crispi a questa lettera non poteva mancare, ed egli
l'affidò ad uno de' suoi segretarii, Edmondo Mayor des Planches; il
quale della missione affidatagli rese conto con questo rapporto:
La Bomboule, 26 agosto 1890.
_Eccellentissimo Signor Ministro_,
Ho rimesso oggi a lord Salisbury la lettera che Vostra Eccellenza mi
aveva affidato per lui.
Ho trovato Sua Signoria in un modesto alloggio, al primo piano di
una _maison meublée_ chiamata la _Villa Medicis_. È la prima volta
che il nobile Lord fa la cura di queste acque arsenicali;
precedentemente andava a Royat, località, poco distante, di questa
stessa regione d'Alvernia.
Lord Salisbury, cui aveva domandato udienza con un biglietto, subito
dopo il mio arrivo, mi aveva risposto con un cortesissimo invito. Mi
ricevette in un piccolo studio, stamane, alle dieci e mezzo.
Appena seduti, gli rimisi la lettera. Questa essendo un po'
sgualcita, dissi, pregandolo di scusarmi:
— Je ne sais si je fais un bon diplomate, mais je suis, à coup sûr,
un mauvais courrier de Cabinet.
Sua Signoria si mise a ridere e fece per aprire, dinanzi a me, la
lettera; ma si fermò.
— Dois-je la lire maintenant?
Risposi:
— Je crois que Votre Excellence en peut prende connaissance à son
aise. C'est une réponse à la lettre du 4.
— Ah, bien!... — E la mise in disparte.
— Et vous êtes venu expressément?! Je regrette d'avoir été pour vous
cause da tante de trouble. Au moins voyez-vous un beau pays. Vous le
connaissiez?
— Nullement.
Vantò le bellezze dell'Alvernia. Poi:
— Vous avez quitté M. Crispi depuis peu?
— Depuis cinq jours.
— Comment se portait-il?
— Il était en parfaite santé.
— Et politiquement aussi, disse ridendo, il se porte très bien.
— Je crois qu'il se sent très fort sous tous les rapports.
— C'est un homme bien étonnant. Il nous veut toujours du bien,
n'est-ce-pas?
— Il a pour l'Angleterre comme nation l'admiration la plus vive, et
de Votre Excellence une très haute estime.
— Il est bien indulgent pour moi. Quel âge a-t-il?
— Soixante et onze ans.
— Et il soutient le poids de trois porte-feuilles?!
— De trois, en effet, car la Présidence du Conseil en est un et qui
implique de très graves responsabilités.
— Vous ne manquerez pas de le saluer chaleureusement de ma part et
de lui dire combien je désire que nous restions toujours bons amis.
Vous retournerez directement à Rome?
— Directement.... par Paris.
Rise ancora, e poichè non soggiungeva altro, mi alzai per prendere
commiato.
— Je vous souhaite bon voyage et meilleur temps qu'ici.
— Je souhaite à Votre Excellence une heureuse cure.
Queste ultime parole furono dette in piedi. Sua Signoria mi strinse
la mano e mi accompagnò alla porta che aperse e richiuse.
Lord Salisbury è alto, di forte complessione, un po' obeso. Si tiene
alquanto curvo. È un po' ansante, di soffio affannoso e corto. Prima
che entrasse nella camera avevo sentito il suo respiro penoso.
Appartiene alla specie degli inglesi timidi. Ascolta attentamente,
con la testa china in avanti verso l'interlocutore, che guarda ogni
tanto con occhio fisso e penetrante. Ride facilmente e brevemente in
modo sempre uniforme.
Ciò è quanto ritenni da un colloquio che potè durare dieci o dodici
minuti.
Sono, di Vostra Eccellenza, etc.
La lettera consegnata dal Mayor era questa:
Rome, le 16 août 1890.
_Mon cher lord Salisbury_,
Votre Excellence me permettra de répliquer brièvement à Sa lettre du
4 courant qui m'est arrivée par le dernier courrier.
En vous écrivant, le 23 juillet, j'avais pour but de dénoncer à
Votre Excellence les dangers qui nous menacent en Tunisie, et de
vous signaler la nécessité d'un accord entre l'Italie et la Grande
Bretagne pour les éventualités que je prévoyais. Ce but ayant été
atteint grâce à l'échange de nos deux lettres et aux colloques qui
ont eu lieu entre Votre Excellence et le commandeur Catalani, il ne
me reste à ce sujet rien à demander, ni à désirer.
Je suis en plein accord d'idées avec Votre Excellence sur ce point
qu'il ne convient pas de précipiter une action qui pourrait jeter le
Sultan dans le bras de la Russie. Du reste il manquerait
actuellement à l'Italie une raison pour agir.
Il appartient cependant à la prudence d'un homme d'Etat de ne pas se
laisser surprendre; et, dans le cas spécial qui nous occupe, il
importe de faire savoir à Paris que nous ne pourrions, en aucun cas,
permettre qu'en Tunisie le protectorat se change en pleine
souveraineté.
Il y a lieu, en outre, d'avertir les gouvernements amis, que le
fait, s'il ne se vérifie aujourd'hui, est cependant inévitable, et
cela pour que nous ne nous trouvions pas surpris et non préparés le
jour où il sera nécessaire d'agir. Bien des injustices
internationales ont pu s'accomplir par suite de l'imprévoyance, ou
de la négligence de ceux dont l'intervention, à un moment donné, eût
pu les prévenir.
La Turquie n'a pas les forces suffisantes à sauvegarder la liberté
de la Méditerranée. Elle est impuissante à arrêter les empiétements
qui se vérifient depuis neuf ans sur le territoire tripolitain du
côté de la Tunisie. Il est donc plus que probable qu'elle ne saura
et ne pourra s'opposer à l'occupation de ce territoire. La Turquie,
à cause de sa position toute speciale, n'a que la force des faibles;
elle ne peut guère que jeter la division parmi les forts, obligés à
se montrer tolérants par crainte de ce qui peut survenir. Mais ce
privilège dont jouit le Sultan, ne doit pas constituer un danger
permanent pour les autres Etats, qui cohabitent dans la Méditerranée
et qui ont le devoir de garantir leur propre existence, et de
veiller au maintien de leur propres droits.
Cela dit, je renouvelle à Votre Excellence l'expression des
sentiments de ma plus haute considération.
F. CRISPI.
Son Excellence
Le Marquis de Salisbury.
Mentre questa corrispondenza si svolgeva, l'on. Crispi stimò opportuno
d'impegnare il gabinetto britannico con questa Nota:
Roma, 5 agosto.
_Signor Ambasciatore_,
Mentre V. E., conformemente alle mie istruzioni, aveva iniziato col
principale Segretario di Stato per gli Affari esteri di S. M.
britannica uno scambio d'idee tendenti a prevenire le conseguenze
dell'accordo che si afferma essersi stabilito fra il governo
francese ed il regnante Bey di Tunisi per introdurre, alla morte di
quel Principe, un mutamento sostanziale nelle condizioni della
sovranità della Reggenza, e mentre si aspettavano i particolari
della prima notizia in proposito ricevuta, Sua Eccellenza il
marchese Salisbury mi fece cortesemente comunicare, per mezzo
dell'Ambasciatore d'Inghilterra a Roma, la smentita formale data
alle notizie stesse dal Ministro degli Affari esteri della
Repubblica. Ai ringraziamenti che S. E. lord Dufferin fu da me
incaricato di porgere al suo governo per tale amichevole ed
importante comunicazione, io desidero che Ella aggiunga le
espressioni della soddisfazione in me prodotta dalle dichiarazioni a
Lei fatte da lord Salisbury, le quali mi danno la certezza che se la
esplicita smentita del Gabinetto di Parigi non avesse reso, per ora,
superflua la continuazione dell'iniziato scambio d'idee e se altre
considerazioni di opportunità non avessero consigliato di
soprassedere, per non recare incagli a trattative più urgenti, in
corso fra Londra e Parigi, i governi di S. M. il Re nostro augusto
Sovrano e di S. M. la Regina d'Inghilterra si sarebbero subito
trovati d'accordo per indicare tutti gli Stati interessati alla
conservazione dell'equilibrio delle forze nel Mediterraneo ed
intendersi circa ciò che le previsioni del mutamento di sovranità
nella Reggenza di Tunisi avrebbe reso necessario. È opinione del
Governo di S. M. il Re, la quale io spero sia divisa da quello di S.
M. la Regina, che mentre le presenti circostanze hanno permesso di
sospendere l'esame di eventualità che non sembrano prossime, qualora
dovessero sopraggiungere nelle circostanze stesse variazioni che
suggerissero di ripigliare in considerazione gl'interessi comuni,
impegnati nella conservazione di quell'equilibrio, le fiduciose
dichiarazioni scambiate recentemente fra V. E. e S. E. il marchese
di Salisbury offriranno la base di un pronto accordo, bastevole
certamente per prevenire qualunque serio pericolo che sovrastasse
agli interessi medesimi. Per questo motivo mi riuscirono
preziosissime le assicurazioni che nel senso sovra espresso Ella fu
in grado di comunicarmi in seguito all'abboccamento da Lei avuto col
principale Segretario di Stato di S. M. britannica il giorno 21
dello scorso mese ed è mio desiderio che Sua Signoria conosca tutto
il valore che il Governo di Sua Maestà il Re vi annette. Voglia
perciò dare di questo dispaccio lettura a Sua Eccellenza il marchese
di Salisbury e lasciargliene copia se egli lo desidera.
CRISPI.
L'azione spiegata a Vienna raggiunse il doppio scopo di far muovere in
nostro favore, a Londra e a Parigi, la Cancelleria imperiale, e di
provocare dichiarazioni conformi ai nostri interessi. Ciò che realmente
si trattava tra Londra e Parigi si seppe per mezzo di Kálnoky il quale
informava l'ambasciatore Nigra che Salisbury, interrogato per di lui
ordine da Deym, Ambasciatore austriaco, disse che i negoziati con la
Francia riguardavano: 1. La conversione egiziana; 2. un territorio
africano di proprietà contestata; 3. la revisione del trattato
commerciale con Tunisi, la quale concerneva soltanto le tariffe e non
toccava la questione delle Capitolazioni. “Secondo il trattato vigente,
il governo di Tunisi ha diritto fin dal 1882 di chiedere questa
revisione. Non è questione di vantaggi politici da accordarsi alla
Francia in Tunisia.„
La revisione del trattato di commercio anglo-tunisino — avvertì
successivamente il Kálnoky — non ebbe lo scioglimento desiderato dalla
Francia, poichè lord Salisbury non consentì a fissare un termine al
trattato. E quanto ai propositi attribuiti alla Francia di alterare lo
_statu-quo_ a Tunisi, lo stesso Cancelliere incaricò il Nigra di
assicurare Crispi “che la questione tunisina, sebbene non tocchi in modo
speciale l'Austria-Ungheria, è qui sorvegliata con grande interesse, e
che per sua parte il governo imperiale e reale è disposto a partecipare
a qualunque azione che sia stimata utile, d'accordo con l'Inghilterra e
con noi, per evitare che essa sia modificata a danno dell'interesse
generale„.
Le notizie giunte in quei giorni a Roma di combattimenti alla frontiera
tripolitana provocati da tunisini, sembravano dare ragione ai sospetti
che la Francia avesse delle mire sulla Tripolitania. Kálnoky non credeva
che la Francia volesse tentare qualche cosa su Tripoli, però dichiarava
al Nigra che il governo austro-ungarico “_non aveva difficoltà che
l'Italia, se l'occasione si presenti, abbia un compenso sulle coste
africane_, ma ci avverte amichevolmente che è della più alta importanza
per le Potenze alleate di non gettare la Turchia in braccio alla Russia
e alla Francia: ci avverte inoltre che esso non potrebbe prendere alcun
impegno per dare all'Italia un concorso materiale.„
Di queste dichiarazioni l'on. Crispi prendeva atto con soddisfazione,
dichiarando alla sua volta che non pretendeva dall'impero
d'Austria-Ungheria un concorso materiale.
Di fronte alla Francia, l'on. Crispi, dopo avere provocato la
dimostrazione diplomatica, di cui nei documenti che precedono, e
persuaso quindi il governo francese che senza il consenso dell'Italia
non avrebbe potuto consolidare il suo dominio nella Tunisia, pensò di
trarre dalla situazione i vantaggi possibili. Quale fosse il suo
obiettivo risulta da quanto segue:
Parigi 1/8/90 — ore 4.40 p.
Ieri sul tardi mi recai al convegno fissatomi da Freycinet cui dissi
che avendo per mandato di mantenere buone relazioni fra i nostri
paesi, io, di mia iniziativa, mi rivolgeva amichevolmente a lui,
come capo del governo, per richiamare la sua attenzione sullo stato
della Tunisia rispetto all'Italia e sugli incitamenti fatti per la
annessione alla Francia della Reggenza. Notai che l'Italia non
poteva rimanere indifferente a tali atti e che se non provvedevamo
in tempo per stabilire a questo riguardo un accordo atto a dare
soddisfazione all'Italia, potrebbe da Tunisi scoppiare l'incendio
che darebbe luogo ad una conflagrazione generale, che, per quanto da
noi dipende, vogliamo evitare, perchè sarebbe per tutti funesta.
Feci osservare che l'occupazione francese della Tunisia fu
considerata dall'Italia come grande offesa e danno, poichè tendeva a
privare l'Italia di un estuario necessario alle sue popolazioni
laboriose, che da tempo immemorabile praticavano quelle regioni
prossime alla Sicilia. Se quell'annessione, ambita dalla Francia,
avvenisse, l'Italia dovrebbe avere un compenso territoriale, ed
inoltre serie garanzie per i suoi nazionali che non potrebbero
cessare di frequentare la Tunisia, dove, d'altronde, il concorso del
loro lavoro è necessario alla prosperità del paese. Ricordai che una
tale necessità era stata riconosciuta da parecchi ministri francesi,
fra gli altri da Ferry, che mi prometteva il concorso del governo
francese stesso perchè occupassimo Tripoli, in cambio della Tunisia,
che rimarrebbe incontestata alla Francia. Tale divisamento non ebbe
seguito per forza di mutamenti ministeriali avvenuti tanto in
Italia, quanto in Francia. Ciò posto, dissi a Freycinet che stava a
lui di escogitare un modo di dare soddisfazione all'Italia per
ristabilire un sincero accordo, ugualmente desiderevole e necessario
per entrambi. Freycinet, prendendo la parola, dichiarava riconoscere
la gravità della questione tunisina e avere sempre raccomandato ai
suoi colleghi del Ministero degli Affari esteri di evitare tutto ciò
che potesse urtare gli italiani in Tunisia, moderando lo zelo
intempestivo dei funzionari. Egli, al par di me, riconosceva
l'importanza di reciproche buone relazioni fra i nostri paesi e non
nascondeva paventare grandemente la guerra, le cui conseguenze
potrebbero essere disastrose per tutti. Freycinet disse
spontaneamente che i supposti accordi per l'annessione della Tunisia
non esistevano affatto e me lo ripetè più volte, poscia mi promise
che avrebbe conferito con Ribot e studiato il modo di sciogliere
l'arduo problema.
Aspetto dunque la risposta di Freycinet che mi mostrò la massima
benevolenza.
MENABREA.
L'accenno fatto qui sopra dal Menabrea ad una promessa del Ferry circa
la Tripolitania, trova conferma in un telegramma dell'11 maggio 1884
dello stesso Ambasciatore, che giova qui riferire. Sembra che il
Depretis, allora presidente del Ministero, e il Mancini, ministro degli
Affari esteri, non profittassero dell'offerta per timore di
complicazioni:
«.... Infine il signor Ferry conchiuse la sua conversazione dicendo
che la Francia ne aveva a sufficienza di annessioni e di
protettorati nel Mediterraneo, che non aspirava che allo _statu-quo_
al Marocco, come a Tripoli; _e che se l'Italia aspirava a occupare
quest'ultima Reggenza, egli non vi si sarebbe opposto_. Quest'ultima
dichiarazione mi è stata fatta in maniera del tutto confidenziale».
MENABREA.
Al telegramma del 1.º agosto, Crispi rispose il giorno seguente:
Siccome dopo il colloquio del 31 luglio Ella dovrà rivedere
Freycinet e forse anche abboccarsi con Ribot, credo bene determinare
i concetti sostanziali di ulteriore discorso.
Primamente bisognerà persuadere cotesti signori che noi non potremo
permettere alcun mutamento politico nella Tunisia, e che qualora il
governo della Repubblica assumesse la piena autorità nella Reggenza,
avremmo con noi i nostri alleati. Il Protettorato fu tollerato
perchè l'Italia era isolata, ma oggi non siamo più al 1881.
La Tripolitania appartiene all'Impero ottomano, e noi per averla non
vorremo provocare una guerra europea. La Francia, qualora si
mostrasse disposta a facilitarcene il pacifico acquisto come
compenso della Tunisia, dovrebbe adoperarsi con tutti i suoi mezzi a
Costantinopoli ed a Pietroburgo, donde naturalmente verranno le
opposizioni. È bene che questo sia posto in chiaro, perchè a noi non
basta il solo consenso della Francia per occupare il suddetto
territorio.
Parigi 9 agosto.
Freycinet oggi mi ha detto avere riferito la mia precedente
conversazione con lui al signor Ribot, insistendo sulla necessità di
porre fine alla esistente irritazione fra i due paesi, procurando
all'Italia alcuna soddisfazione nei suoi interessi materiali e al
suo amor proprio.
Ribot rispose accettare perfettamente quell'ordine d'idee, che vi
aveva già pensato e che sperava che mercoledì prossimo, al suo
ritorno da una breve assenza, egli sarebbe in grado d'iniziare
qualche apertura in proposito. Aspettare intanto ritorno di Ribot.
MENABREA.
Parigi, 13/8/90 — 7.30 s.
Oggi vidi Ribot con cui ripresi la conversazione iniziata con
Freycinet circa la necessità pei due paesi di far cessare le cause
d'irritazione tuttora esistenti, che ebbero per origine
l'occupazione della Tunisia per parte della Francia. Notai che
questa, anzichè tentare di calmare, sembra volere aumentarle col
mantenere ingiustamente i dazi differenziali e coll'opporre ostacoli
allo sviluppo di alcune essenziali industrie nostre, come la
navigazione e la pesca. Fra l'altro, feci osservare al signor Ribot
che la occultazione della Tunisia aveva singolarmente scemata la
nostra posizione nel Mediterraneo, minacciando renderla pericolosa,
ove la Francia tentasse di farne una stazione navale militare
importante, e che aveva tolto all'Italia un estuario necessario ad
una parte delle sue popolazioni.
Ribot rispose che al pari di me deplorava tale situazione e
desiderava migliorarla, ma che aspettava proposte esplicite
dall'Italia.
A ciò replicai non avere missione alcuna di fare proposte, ma che
avevo presa iniziativa di portare la sua attenzione sul presente
stato di cose, e che il male essendo venuto dalla Francia, spettava
ad essa di proporre il rimedio.
Ribot disse che sarebbe disposto a provocare vantaggi speciali per
noi in Tunisia, ma che, a sua volta, ci domanderebbe di rinunciare
alle Capitolazioni, e poi accennò alla triplice alleanza.
A tali suggerimenti risposi che le Capitolazioni erano armi nelle
nostre mani per far rispettare i pochi diritti che abbiamo
conservati in Tunisia e che, in quanto alla triplice alleanza,
questa doveva mantenersi fin che non avessimo ottenuto soddisfazione
per i nostri interessi e per la nostra dignità e fin che non fosse
più necessaria per assicurare la pace.
Mi astenni dal fare a Ribot alcuna proposta perchè non ne avevo
missione, ma lasciai a lui di escogitarne una che si potesse
sottomettere a V. E. e con ciò lo lasciai prendendo commiato nei
migliori termini.
MENABREA.
21 agosto 1890.
_Signor Presidente,_
Ebbi ieri nel pomeriggio il mio primo colloquio, dopo la partenza
del generale Menabrea, col signor Ribot. Mi era proposto di non
tornare per il primo con questo signor Ministro degli Affari esteri
sul terreno tentato col signor di Freycinet e con lui
dall'Ambasciatore. Ma come io lo prevedeva, fu egli che dopo le
prime frasi tra noi scambiate subito vi scese mettendosi a
discorrere delle entrature fatte dal Generale e dicendo che nè
Freycinet nè egli stesso avevano potuto capire che cosa in fondo
volesse. Quindi una lunga e molto incisiva conversazione s'impegnò
tra noi, dopo ch'io aveva però premesso che su tale argomento le mie
parole non potevano avere che il carattere ed il valore di parole di
un amico e che per discorrerne dovevamo entrambi considerarci come
in colloquio non ufficiale, ma confidenziale e privato. Consentì con
premura ed esplicitamente.
Dissi in sostanza che se veramente il governo francese capiva il
prezzo di quei più cordiali rapporti tra noi, che per parte nostra
desideravamo, e se voleva addivenirvi, doveva anzitutto studiarsi a
rimuovere definitivamente le cause dalle quali era nato lo screzio
che ci divide; che in passato a Roma e poi a Tunisi ci furono fatte
le più profonde ferite; che il tempo, la nostra saviezza e
l'interesse presente del Governo repubblicano vanno sanando la
prima, ma che la seconda rimane viva; che nulla la Francia fece nè
fa per guarirla, che anzi per le tendenze che ogni tratto qui si
manifestano di dilatare il protettorato potrebbe da un'ora all'altra
inasprirsi e trascinare alle più gravi conseguenze. «Ogni passo che
in Tunisia voi tentereste oltre i limiti delle condizioni esistenti
ed oltre quelli del nostro stretto diritto, diss'io, ci troverebbe
tutti in piedi per contrastarvelo, e sappiate che non saremo soli.
Eliminare per sempre questa perdurante causa di attrito e di
sospetti tra noi mi pare dunque il primo mezzo per rimetterci in
condizioni di confidente e franca amicizia. Il rimedio vuole però
essere proporzionato alla gravità del male fattoci, nè lieve
dovrebb'essere il valore del servizio col quale la Francia volesse
chiudere la piaga tunisina. Cercare un compenso per l'Italia in sole
concessioni più o meno passeggiere d'ordine commerciale e
finanziario sarebbe un assunto vano».
Dal suo lato il signor Ribot, in progresso del colloquio, tornava di
continuo sul _quid?_; finchè, quasi rispondendo a sè stesso:
«Chiesi, disse, al generale Menabrea se mirasse a Tripoli, ma egli
troncò protestando che l'Italia non voleva mettersi male col
Sultano».
A questo punto ricordai anch'io, come le ricordò Menabrea a
Freycinet, le offerte di cooperazione che, prima a me stesso e poi
allo Ambasciatore, erano state altra volta fatte dal signor Giulio
Ferry e allora non accolte da Mancini, e aggiunsi che se proposte di
cooperazione per qualche _negoziazione simile_ oggi si producessero,
v'era a Roma tale Ministro col quale certo si potrebbe discorrerne,
attesocchè, malgrado tutte le calunnie, sapevo quanto gli stava a
cuore, se poteva giovare al proprio paese riconciliandolo ad un
tempo colla Francia, di farlo.
Usai le maggiori precauzioni di linguaggio e devo dire ad onore del
sig. Ribot che se io mi tenni in tutta la conversazione sulla punta
d'uno spillo, egli più volte battè sul pomo. Messosi a parlare il
primo senza ritegno di Tripoli, disse avere saputo che a
Costantinopoli manifestavansi inquietudini e che vi si subodorava
qualche cosa di progetti italiani, che d'altronde la questione d'una
cessione, ardua in sè, urterebbe contro un _non possumus_ assoluto
del Sultano. «E poi, l'opinione pubblica in Francia non seguirebbe
il Governo, se egli in una simile impresa prestasse la mano
all'Italia senza che questa rinunziasse con ciò alla triplice
alleanza».
Disfare la triplice alleanza: ecco la preoccupazione ardente,
incessante degli uomini di Stato francesi. «Finchè il trattato della
triplice alleanza, sì offensivo per lo Czar, più ancora che per la
Repubblica francese, non sarà stato denunziato, l'intimità non sarà
possibile fra la Russia e la Germania più che fra gl'italiani e noi.
Si potrà non trattarsi da nemici, ma considerarsi come amici, mai».
Queste parole che ritrovo nel _Matin_ d'oggi sono l'espressione pura
e semplice del sentimento di Ribot e di tutti i suoi colleghi, anzi
di tutti i francesi. È perciò naturale che tutta la politica
francese verso di noi, sia quella di Ribot o d'altri, se negli atti
ostili non eccederà mai quel limite ove sorgerebbe un pericolo serio
per la pace, commisurerà sempre qualunque maggiore ed efficace
concessione alla probabilità di raggiungere con essa quello scopo.
Il sig. Ribot mi parlò poi della situazione in Tunisia, rendendo
omaggio a Vostra Eccellenza che s'era mostrata conciliante nei
piccoli incidenti. (Protestò a questo proposito che non divideva le
ingiuste prevenzioni di molti suoi connazionali contro di Lei e che
le aveva sempre biasimate). Affermò di voler mantenere
scrupolosamente lo _statu-quo_ a Tunisi, mostrandosi propenso a
intendersi con noi per migliorare la sorte de' nostri pescatori,
poichè il generale Menabrea se n'era querelato. Accennando alla
scadenza che avverrà fra sei anni del nostro trattato di commercio
col Bey, egli domandò se non saremmo disposti a negoziare fino da
ora, com'egli ammetterebbe, pel suo rinnovamento, verso l'abbandono
d'alcuni nostri privilegi nella Reggenza.
In conclusione dunque, il signor Ribot non rinunzia alla speranza ed
al desiderio _di un qualche accordo_ con noi. Per procedere, io devo
aspettare da Vostra Eccellenza quelle nuove istruzioni che Ella
stimerà opportuno di darmi, perocchè ignoro il risultato degli
scandagli da Lei fatti altrove dopo la mia partenza da Roma e le sue
presenti intenzioni. Non posso in poche righe ripeterle tutto ciò
che in un colloquio durato più d'un'ora mi studiai di far
comprendere al mio interlocutore: avrei fede che il seme non sia
perduto se lo credessi uomo più risoluto e più ardito. Ma so che ad
ogni modo Ella non può dubitare che a seconda de' suoi concetti ogni
possibile sarebbe sempre da me tentato a fondo.
Mi augurerei che il comm. Mayor potesse ritornare qui, come
annunziava, per udire da lui le sue attuali idee e come meglio si
possa servirle. Nel prossimo settembre, il signor di Freycinet sarà
ad Aix-les-Bains, vicino al Generale, che potrà pure rivederlo in un
più tranquillo ambiente e più propizio ad espansioni che una camera
d'udienze ministeriali.
Voglia gradire, signor Presidente, gli attestati della mia più
profonda osservanza e della mia più cordiale devozione.
Di V. E. l'aff.mo servo
C. RESSMAN.
P.S. Quanto del nostro trattato d'alleanza questi signori si
preoccupino, lo provi anche il quesito che incidentalmente nella
conversazione il sig. Ribot mi rivolse, se cioè occorresse, per
farlo cessare, di denunziarlo espressamente e se vi fosse la
clausola della tacita riconduzione. Risposi lo ignoravo.
_Commendatore Ressman — R. Ambasciata Italiana_,
Parigi.
Roma li 2/9, 1890.
(_Personale_). — La insistenza del signor Ribot per conoscere le
nostre intenzioni circa la rinnovazione della Triplice alleanza non
è degna di un uomo di Stato. Ad un anno e mezzo di distanza nulla si
può prevedere in politica. Giova però ricordare le ragioni che
obbligarono il cavalier Mancini a chiedere la alleanza dell'Austria
e della Germania.
L'Italia dal 1879 al 1881 fu continuamente maltrattata dal Governo
della Repubblica, minacciata dagli austriaci, disistimata a Berlino.
Al 1880 un esercito di quaranta mila uomini era pronto ad entrare
nel Regno, il Governo di Roma tollerando l'agitazione irredentista.
La stampa francese ci derideva, ed il Governo francese occupava
Tunisi. Sono celebri le parole pronunziate da Bismarck al 1879, che
l'Italia non era una potenza militare temibile e che pochi
reggimenti austro-ungarici sarebbero bastati per metterci alla
ragione.
Il cavalier Mancini pregò, scongiurò a Vienna ed a Berlino, e dopo
molti sforzi ottenne che l'Italia fosse accolta nella alleanza dei
due imperi.
Oggi tutto è mutato in nostro vantaggio ed io non permetterò che
l'Italia ritorni in quello stato di umiliazione nel quale pel suo
isolamento fu sino al 1881.
Ribot, prima di chiedere quali siano le nostre intenzioni sulla
rinnovazione della triplice, dovrebbe mettersi in condizione di non
averne bisogno, ed assicurarsi che, sciolti i nostri impegni coi due
imperi, la Francia non ripeterebbe in altri territorii le imprese
tunisine, che non ci insidierebbe più nella penisola per mezzo del
Vaticano, che garantirebbe la nostra indipendenza. Or finora nulla
fu fatto per persuaderci che il Governo ed il popolo di Francia
vogliano divenirci amici ed amici sinceri e leali.
CRISPI.
Gli sforzi dell'on. Crispi per togliere di mezzo i dissensi tra l'Italia
e la Francia e stabilire su basi sicure la pace tra le due nazioni,
furono vani. Cosicchè egli dovette rimanere in vedetta per sorvegliare
ogni atto della Francia che potesse recarci nuovi danni.
Assicuratosi che l'annessione della Tunisia non sarebbe avvenuta senza
il nostro consenso, cioè senza compensi per noi, continuò a far buona
guardia su Biserta che il Governo francese cercava di fortificare. Già
da gran tempo egli faceva tener dietro da persone fidate al progresso e
alla natura dei lavori che si venivano compiendo in quel porto,
denunziandoli alle Potenze amiche ed alleate e interessando il Governo
inglese ad associarsi al Governo italiano in una azione diretta ad
impedire il proseguimento di quei lavori, che si rilevavano contrarli
agl'impegni presi dalla Francia al 1881 e che minacciavano di turbare
ancor più l'equilibrio delle forze nel Mediterraneo. Il Gabinetto
britannico aveva già riconosciuto che Biserta era _la maggiore posizione
strategica nel Mediterraneo_, e insieme alla Cancelleria germanica aveva
fatte vive rimostranze a Parigi. E il signor Goblet nel 1889 assicurava
Londra e Roma “non esservi alcuna intenzione nè di ampliare, nè di
fortificare il porto di Biserta e trattarsi solo di scavi necessarii e
periodici„; e il signor Ribot in ottobre 1890 negava “che si compiano
studi per l'erezione di fortilizi o di opere militari in Biserta.„
Ma i ministri francesi erano, naturalmente, reticenti; i lavori che si
compievano a Biserta erano senza dubbio di carattere militare, e Crispi
lo dimostrò in un _memorandum_. La Germania riconobbe che la questione
era divenuta grave e appoggiò i nostri passi per un'azione decisiva. Il
20 gennaio 1891 Crispi fece interpellare l'Inghilterra se non fosse il
caso di una comune azione immediata; ma la questione cadde col ritiro di
Crispi dal potere (31 gennaio 1891) e con l'Italia si disinteressò di
Biserta anche l'Inghilterra.
Quanto alla Tripolitania, Crispi ebbe per un momento, nel luglio del
1890, la speranza che potesse divenire italiana, senza contrasto da
parte delle grandi Potenze, le quali, tutte, in epoche diverse, avevano
riconosciuto la prevalenza dei nostri diritti su quella regione. Non
avrebbe voluto, per motivi di politica generale, rompere con la Turchia,
ma prevedendo ogni ipotesi, pensò anche ad un'occupazione militare
contrastata dai turchi e alla maniera di renderla più facile. Si accinse
quindi a preparare il terreno col guadagnare all'Italia la simpatia e
l'appoggio degli elementi indigeni della Tripolitania. Il cav. Grande,
Console d'Italia a Tripoli, lavorò sagacemente per secondare le vedute
del suo Ministro. Il seguente telegramma, relativo alle trattative con
Sid Hassuna Caramanli, capo allora della famiglia che aveva
signoreggiato il _vilayet_ sino al 1835, indica che il lavoro di
accaparramento degli arabi era bene avviato:
Tripoli, 7 agosto 1890.
(Decifri V. E. stessa. Segretissimo). — Profittando, che Sid Hassuna
Karamanli trovasi qui, chiamatovi dal Governatore generale per gli
ultimi avvenimenti della frontiera, gli feci parlare da un mio e di
lui amico intimissimo e confidente. Il colloquio ebbe luogo ieri
sera. Raccomandai all'amico che l'apertura delle trattative avesse
carattere privato, come provenienza da una particolare iniziativa,
esplorandone per ora animo e intenzioni.
Sid Hassuna Karamanli mostrossi disposto coadiuvare occupazione
italiana, convinto che, se non noi, sarebbero altri ad occupare la
Tripolitania; disse disporre di tutte le forze delle popolazioni
della montagna, godendone le simpatie. Per preparare terreno chiede
tempo e denaro, non per lui, ma per gli sceiks. Accetterebbe una
forma di governo simile a quella della Tunisia. Ciò, dice,
eviterebbe la resistenza degli arabi e pacificherebbe il paese. Non
dissimula la resistenza della Turchia, la quale però, non secondata
dall'elemento arabo, cederebbe di fronte alla forza italiana.
Raccomanda la massima prudenza, essendo sorvegliato dal Governatore
generale. Dichiara il paese stanco della occupazione della Turchia.
Karamanli mostrò di conoscere la situazione politica dell'Africa e
di cogliere l'occasione favorevole. Egli ritorna al Gibel Gharian
questa sera. Ha assicurato sarà di ritorno.
GRANDE.
Sicuro dell'adesione di massima da parte dell'Inghilterra, della
Germania e dell'Austria-Ungheria all'occupazione italiana della
Tripolitania, l'on. Crispi avrebbe facilmente guadagnato anche il
consenso della Francia, tenendosi fermo sul terreno della difesa dei
nostri diritti nella Tunisia sino alla conclusione di un accordo. E
dipoi, con la risolutezza ch'era nel suo carattere, non avrebbe atteso
molto a piantare il vessillo d'Italia sull'altra sponda del
Mediterraneo. Quanto alla Turchia, gli accomodamenti con l'antico regime
non erano difficili; il Sultano ch'era un fine politico e aveva il senso
della sua responsabilità e della precaria situazione dell'Impero, si
sarebbe adattato all'inevitabile, confortandosi con gli opportuni
compensi.
Ma col ritiro di Francesco Crispi dal potere in seguito al voto della
Camera del 31 gennaio 1891, la pietra angolare dell'edifizio cedette.
L'opposizione contro le fortificazioni di Biserta che alla fine di
gennaio era divenuta perentoria, fu abbandonata dal suo successore. E la
Francia, lasciata libera di consolidare il suo dominio in Tunisia, non
ebbe più bisogno di venire a patti con l'Italia e di farle concessioni.
Quando la questione della Tripolitania fu ripresa, il governo Italiano
dovette fare alla Francia sacrificio di altri interessi.
INDICE ALFABETICO
_delle persone citate nel volume._
Adam (madama), 84.
Alberto (arciduca), 81.
Alessandro di Battenberg, 140, 176, 177.
Alessandro III di Russia, 174, 211, 278-279.
Alfieri di Sostegno, 342.
Alula (ras), 252.
Amedeo di Savoja, 207.
Andrássy Giulio, 2-4, 23, 25, 27, 46, 49, 52, 54, 59, 60-61,
63, 65-68, 76, 98.
Arabi-pascià, 101, 104, 112, 116.
Arnold Arturo, 92.
Baccarini Alfredo, 138.
Bargoni Angelo, 7.
Barthélemy di Saint-Hilaire, 86-88.
Bavier (ministro), 217, 227.
Beaconsfield (Disraeli), 50, 54, 77.
Bennigsen (di) Rodolfo, 20, 42-43, 71, 182.
Berio (console Generale), 294.
Bertani Agostino, 73.
Berthelot, 303.
Bertolè-Viale (ministro), 321-324.
Biancheri Giuseppe, 136.
Bibesco (principe), 227.
Bismarck (di) Erberto, 26, 173, 241, 261, 265, 278, 349, 354.
Bismarck (di) Ottone, 2, 9, 14, 20-21, 32-35, 44-52, 54, 65,
72-73, 76-77, 81, 85, 95, 107, 110, 126-131, 138, 153, 170-173,
182, 185, 207-208, 210-211, 214, 216-217, 225, 230, 236, 239,
244, 257, 263, 270, 276-277, 307-308, 325, 334, 343, 349-356.
Bismarck (principessa), 180.
Bittó István, 65.
Bixio Nino, 8.
Blanc Alberto, 148, 214, 218, 224.
Bonaparte, Girolamo, 162.
Bonghi Ruggero, 138, 208.
Boselli Paolo, 196-203.
Boulanger (gen.), 133, 159, 300, 339.
Branca Ascanio, 203.
Brin Benedetto (ministro), 325.
Bruck-Pellegrini (de), 207, 209, 212, 299.
Bülow (di), 20, 32-33, 50, 55.
Cairoli Benedetto, 73-74, 79, 81-82, 84, 87-89.
Calice (barone di), 182, 224.
Cambon (ambasciatore), 256.
Canovas del Castillo, 207.
Caprivi (Cancelliere germanico), 349, 364.
Caspar Mugnoz, 208.
Catalani Tommaso (Incaricato d'affari), 153, 255, 326.
Catargi Lascar, 315.
Cavaignac (generale), 168.
Cavallotti Felice, 81.
Cavour Camillo, 118, 185.
Cecchi Antonio, 256.
Cialdini Enrico, 51, 53, 77-78, 82, 85-88.
Chakir-pascià, 153-154.
Charmes Francis, 262.
Codronchi Giovanni, 138.
Constant d'Estournelle, 90.
Corti Luigi, 74-76, 91-92, 114.
Csernátory, 65.
Cucchi Francesco, 179, 325, 334.
De Broglie, 5.
Decazes, 5, 10, 12, 15, 17-18, 85.
Depretis Agostino, 9, 13, 16, 30-31, 37, 50, 56, 59-61, 68,
72, 74, 95, 136, 138, 139-144.
Derby (lord), 50, 52-56, 58, 73-75.
Dernburg Federico, 30, 36, 42.
Dilke Charles, 92-93.
Di Pietro (Nunzio), 257.
Dunker (borgomastro), 44.
Eber, 65.
Ehrenroth (generale), 150, 153, 209.
Ellena Vittorio, 197, 203-204.
Fabrizj Nicola, 115, 120.
Falk, 65.
Farini Domenico, 73.
Federico Guglielmo (poi Federico III), 126-127, 236-237, 242,
245, 264.
Ferdinando di Bulgaria, 140, 143-152, 155, 176, 209, 214.
Ferry Giulio, 86, 133, 159, 342, 378, 381.
Floquet, 234, 300.
Flourens, 187, 204, 209-210, 228-231.
Fortou, 5.
Francesco Giuseppe, 3, 126-127.
Freycinet (ministro), 84-85, 88, 101, 109-110, 115, 119-120,
133, 159, 216, 300, 377.
Galimberti (mons.), 229.
Galvagno (ministro), 93.
Gambetta Leone, 5, 13-14, 16-17, 28, 77, 82-84, 87, 101, 109,
120, 212.
Garibaldi Giuseppe, 122, 163.
Garnier Pagès, 16.
Gené (generale), 136.
Gérard, 206-207, 209, 245, 254.
Ghyczy, 65.
Giers (de), 153, 231, 262, 298.
Giolitti Giovanni, 138, 183.
Giorgio (re di Grecia), 155.
Girardin (de) Emilio, 16-17.
Gladstone Guglielmo, 56-58, 113, 116, 122-123.
Glaser, 59, 63.
Goblet, 159, 253-254, 281-296, 385.
Goedel (Incaricato d'affari), 269, 271.
Goldberg Federico, 38-41.
Goltz (conte di, Incaricato d'affari), 270, 271.
Gorosc, 65.
Grande (console), 386.
Granville (conte di), 89, 93, 102, 105-106, 108-119.
Grävenitz, 42.
Greppi (conte), 216.
Grévy Giulio, 83, 159, 209-210.
Guibert (cardinale), 12.
Guglielmo I, 50, 55, 72, 126, 236.
Guglielmo II, 242, 258, 276-277, 353.
Halim, 108.
Hassuna-pascià, 386.
Hatzfeldt (conte di), 107-108, 270.
Haymerle (barone di, ambasciatore), 4, 60, 95-98.
Haymerle (colonnello), 80.
Hélfy Ignáez, 65.
Herbette (ambasciatore), 241, 287.
Hitrovo (ministro), 227.
Hohenlohe (di) Clovis, 28.
Hohenlohe Gustavo (cardinale), 320, 334.
Holstein (di), 20, 32, 35, 41, 55, 107, 179, 210, 290.
Huene (bar. di, _attaché_ militare), 335.
Kállay, 98.
Kállay Beni, 65.
Kálnoky, 153, 170, 177, 206, 216, 219, 239, 255, 262, 265,
267, 269-271, 292, 299, 316, 318, 329.
Kaulbars (generale), 209.
Keudell, 95-96, 126, 130.
Kiamil-pascià, 213, 231.
Imbriani Matteo, 81, 342.
Isabella di Baviera, 126.
Ismail-pascià (ex-Kedivé), 227.
Lacaita Giacomo, 108-111.
Lacava Pietro, 138.
La Gala, 164.
Lamarmora Alfonso, 212, 328.
Launay (conte di, ambasciatore), 20, 30, 32, 37, 41, 47, 52,
54, 59, 72, 78-79, 94, 129, 143, 170-171, 181, 240, 258-259, 341.
Lawson (deputato), 116.
Lefèvre de Béhaine, 324.
Leone XIII, 72, 180, 329-334.
Leonhardt (ministro), 20, 41.
Loewe Ludovico (deputato), 30, 42.
Luigi (re di Portogallo), 258-261.
Luzzatti Luigi, 197, 203.
Lyons (ambasciatore), 89.
Lytton (ambasciatore), 230.
Macciò, 83, 86-87.
Machiavelli (console generale), 359.
Mac-Mahon, 5, 14, 18-19, 45, 56.
Maffei, 95.
Malet E. (sir), 131-132.
Mancini Pasquale St., 6, 51, 93, 101-104, 106-107, 111-115,
118-120, 122-123, 126, 128, 135, 262.
Mariani (ambasciatore), 298.
Marie, 204.
Marocchetti (ambasciatore), 223.
Marschall (di), 354.
Martin Enrico, 16.
Massicault (ministro-residente), 284-286.
Mayor des Planches, 173, 371.
Mazzini Giuseppe, 1.
Mazzoleni (deputato), 335.
Melegari L. A. (ministro), 7, 52, 62.
Menabrea L. F. (ambasciatore), 50, 54-55, 74, 89, 92, 105-106,
119, 204, 229, 235, 254, 289, 320.
Mercinier, 252.
Meyendorf (Incaricato d'affari), 262.
Mezzacapo Luigi (generale), 51, 53.
Minghetti Marco, 2.
Miribel (generale), 338.
Mohrenheim (ambasciatore), 234.
Moltke (maresciallo), 206.
Montebello (conte di, ambasciatore), 241.
Moret (ministro), 206, 210, 217, 227, 231, 238.
Moüy (de) Carlo (ambasciatore), 203, 212, 216-218, 220, 229,
245-246, 282.
Münster (ambasciatore), 287, 289.
Napoleone III, 1, 85, 160, 168, 181.
Nelidoff (ambasciatore), 4.
Nicopoulo, 209.
Nicotera Giovanni, 138, 342.
Nigra Costantino (ambasciatore), 142, 145, 182, 239, 255,
259, 260-261, 327.
Norfolk (duca di), 208.
Onou, 149.
Or['c]zy, 59, 62.
Paget Augusto, 74-75, 103.
Palamenghi-Crispi Tommaso, 173.
Pasi (generale), 173.
Pelloux Luigi, 325.
Phothiadès-pascià, 218, 220, 230, 241-242.
Pianell (generale), 54.
Pio IX, 46, 72.
Pisani-Dossi Alberto, 173, 238.
Portal Gérald, 224.
Pulszky, 65.
Pyat Felice, 273-276.
Racchia Alberto (ammiraglio), 325.
Radowitz, 79, 208, 219, 241, 256.
Raindre (Incaricato d'affari), 261.
Rampolla Mariano (cardinale), 257, 331.
Rantzau, 263.
Rascon (conte, ambasciatore), 210, 213, 217-218, 220, 223,
230, 238, 240, 245.
Rati-Opizzoni, 29.
Rattazzi Urbano (_junior_), 139, 173, 324.
Ressman Costantino (Incaricato d'affari), 16, 229, 320, 380.
Reuss (principe di), 155.
Ribot (ministro), 296, 365, 379-385.
Ricasoli Bettino, 6.
Robilant (di) Carlo, 3, 59, 61-63, 68, 81, 126, 128-130,
136-137, 140, 195.
Rodolfo di Asburgo, 309, 314.
Rosebery, 77-78.
Roustan, 83, 87.
Rouvier Maurizio (ministro) 159, 196-203.
Roux Luigi, 183.
Rudinì (di) Antonio, 138-139.
Ruiz Armando, 13.
Russel Odo (ambasciatore), 79.
Sadi-Carnot (presidente della Repubblica francese), 300, 339.
Said-pascià (Gran Visir), 218-220, 224.
Saletta (generale), 207, 241.
Salisbury (lord) 76-77, 89, 91-92, 94, 121-122, 147, 153-155,
207, 209, 230, 238, 254, 262, 264-265, 281, 292, 326, 358-375.
Saracco Giuseppe, 136-137.
Savini Medoro, 10.
Say Leone, 205.
Schouvalow (ambasciatore), 230.
Schülze-Delitzsch, 44.
Schweininger (dottore), 173.
Simon Giulio, 5.
Solms (conte di), 206, 208-211, 213-214, 219, 223-224, 227-228,
231, 238, 240-241, 245, 256-257, 298-299.
Sonnino Sidney, 236.
Soumagne (vice-console), 251.
Spaventa Silvio, 138-139.
Spuller E. (ministro), 343-348.
Stansfeld James, 50.
Stourdza (ministro), 224.
Szapáry, 65.
Szlávy Jorsef, 65.
Taaffe (ministro), 128, 280.
Tajani Diego, 136.
Teckenberg, 96-98.
Teisserenc de Bort (senatore), 204.
Tewfick (Kedive), 108, 116.
Thiers Adolfo, 14-16, 19, 162, 263.
Tirard (ministro), 159, 229.
Tisza Stefano, 64, 128, 279.
Tomaso di Savoja, 126.
Tornielli Giuseppe (ambasciatore), 77, 238, 256-257, 358.
Tosti Luigi (abate), 180.
Ullmann, 279.
Umberto I, 72, 136-137, 139, 147, 171, 173, 182, 237, 242-243,
263, 267, 277.
Uxkull (conte di, ambasciatore), 216, 228, 231.
Valeri Giovanni, 30.
Vega (de la) de Armijo (ministro), 257.
Vidulich, 63.
Villa Tommaso, 212.
Visconti-Venosta Emilio, 2, 342.
Vittoria (principessa imp. di Germania), 30, 37, 47, 55.
Vittorio Emanuele II, 2, 7, 30-31, 47, 56, 58, 65, 67-68, 72, 164.
Vitzthum (conte), 165.
Waddington (ministro e ambasciatore), 76-79, 82, 84, 88, 91, 120.
Wahermann Mor, 65.
Wetsera Maria, 309-314.
White W. (sir) (ambasciatore), 151.
Wimpffen, 3.
Windthorst (deputato), 350.
Zanardelli Giuseppe, 51, 60, 69, 138, 139.
Zsedénzi, 65.
INDICE DEL VOLUME.
Avvertenza Pag. v
CAPITOLO PRIMO.
Una missione segreta. (Pag. 1 a 69).
La Grande Italia. — Il nuovo Regno. — La politica estera della Destra. —
Andrássy e Bismarck nel 1873 chiedono invano una _entente intime_ ai
ministri della Destra. — L'irredentismo e le relazioni italo-austriache.
— La guerra russo-turca. — Le istituzioni repubblicane francesi in
pericolo. — Necessità per l'Italia di uscire dall'inerzia. — La missione
da Vittorio Emanuele e da Depretis affidata a Crispi alla fine di agosto
1877. — Memorie originali di Crispi e carteggi con Vittorio Emanuele e
Depretis, resoconti di colloqui con Decazes, Thiers, Gambetta, Bismarck,
Derby, Gladstone, Andrássy, ecc. — Crispi conviene col principe di
Bismarck il negoziato per un trattato d'alleanza italo-germanica.
CAPITOLO SECONDO.
La politica estera dell'Italia dal 1878 alla Triplice Alleanza. (Pag. 71
a 99).
Il conte Corti respinge la proposta di accordi segreti con l'Inghilterra
alla vigilia del Congresso di Berlino. — Come la Francia ottiene _carte
bianche_ per Tunisi. — La politica dell'isolamento. — Causa
l'irredentismo, l'Austria minaccia di passare la frontiera. — La
francofilia di Benedetto Cairoli non evita l'occupazione francese della
Tunisia. — Storia documentata dell'impresa tunisina e del
disinteressamento dell'Inghilterra. — L'Italia avrebbe allora potuto
occupare la Tripolitania. — Disillusi della Francia, ci rivolgiamo alla
Germania. — Prodromi della Triplice Alleanza. — Il conte Maffei. — Il
trattato del 20 maggio 1882.
CAPITOLO TERZO.
La questione Egiziana nel 1882. (Pag. 101 a 123).
L'Italia, invitata a intervenire in Egitto con l'Inghilterra, rifiuta. —
Viaggio di Crispi a Berlino e a Londra. — Colloquii col conte Hatzfeldt
e con lord Granville. — Nove lettere di Crispi sulla convenienza per
l'Italia di accettare la proposta inglese.
CAPITOLO QUARTO.
Dal primo al secondo trattato della Triplice Alleanza. (Pag. 125 a 133).
L'errore d'origine: l'Imperatore d'Austria non viene a Roma. I Reali
d'Italia, per ciò, non possono andare a Berlino. — Colloquio tra il
principe di Bismarck e il duca di Genova: il pericolo di guerra è
rappresentato dalla Francia e dalla Russia. — Il principe Federico
Guglielmo a Roma. — Il gabinetto italiano scontento degli alleati. — Il
generale Robilant ministro degli Affari esteri. — Un altro giudizio del
principe di Bismarck sulla situazione in ottobre 1885. — I negoziati per
la rinnovazione della Triplice Alleanza. — Con quali argomenti il
principe di Bismarck indusse l'Inghilterra ad un accordo con l'Italia
per il Mediterraneo. — Il nuovo trattato del 20 febbraio 1887.
CAPITOLO QUINTO.
Crispi e la questione Bulgara. (Pag. 135 a 157).
La crisi ministeriale del febbraio 1887: il contegno dell'on. Crispi,
suoi colloqui col Re, sua nomina a Ministro dell'Interno. — La questione
bulgara e la condotta del Governo italiano prima che Crispi assumesse la
direzione della politica estera, e dopo. — Carteggi e documenti. —
L'Italia propone e fa accettare dalle Potenze il non-intervento in
Bulgaria. — La triplice per l'Oriente.
CAPITOLO SESTO.
Il primo viaggio a Friedrichsruh. (Pag. 159 a 194).
Crispi e la Francia — Giudizii di Crispi su l'Impero e su la Repubblica.
— L'Esposizione di Parigi del 1889 e l'Europa monarchica. — Primo
viaggio di Crispi a Friedrichsruh per visitarvi il principe di Bismarck:
loro colloquii. — Il discorso di Torino.
CAPITOLO SETTIMO.
La rottura delle relazioni commerciali con la Francia. (Pag. 195 a 221).
Negoziati per la rinnovazione del trattato di commercio italo-francese.
Una missione officiosa dell'on. Boselli a Parigi: sue lettere a Crispi.
Ragioni politiche ed economiche che condussero alla guerra di tariffe. —
Dal _Diario_ di Crispi, ottobre-dicembre 1887: questioni internazionali
— colloquio tra lo Czar e il principe di Bismarck — documenti falsi —
l'incidente consolare di Firenze.
CAPITOLO OTTAVO.
Dal “Diario„ di Crispi: Ricevimenti diplomatici dal gennaio a tutto
giugno 1888. (Pag. 223 a 245).
Germania e Russia in un colloquio del principe di Bismarck. — La
pubblicazione dei trattato austro-germanico del 1879. — Italia e Russia
in un colloquio tra Crispi e l'ambasciatore Uxkull. — Flourens vuole
evitare l'alleanza franco-russa. — Informazioni sulla situazione interna
della Francia. — Preparativi militari in Francia. — Il principe
imperiale di Germania in Liguria. — Morte di Guglielmo I. — Le squadre
italiana e austriaca a Barcellona. — Cordialità tra Crispi e Bismarck. —
Un aspro colloquio tra il conte Bismarck e l'ambasciatore Herbette. —
Morte di Federico III. — Re Umberto esprime il desiderio di recarsi a
Berlino.
CAPITOLO NONO.
Un altro incidente franco-italiano. (Pag. 247 a 272).
La questione con la Francia per le tasse di Massaua: tre Note
diplomatiche di Crispi sui diritti dell'Italia e sulle vessazioni
francesi. — Le Potenze danno causa vinta all'Italia. — Dal _Diario_ di
Crispi: Spagna e Vaticano. — Un allarme del re Luigi di Portogallo pel
viaggio dei Sovrani italiani in Romagna. — Seconda visita di Crispi al
principe di Bismarck. — Il Gran Cancelliere austriaco incontra Crispi a
Eger.
CAPITOLO DECIMO.
Il terzo incidente con la Francia. (Pag. 273 a 305).
Una lettera apocrifa di Felice Pyat. — Guglielmo II a Roma. — Colloqui
di Crispi col conte Erberto di Bismarck. — Storia documentata
dell'incidente per le scuole italiane in Tunisia. — Dal _Diario_ di
Crispi. — La situazione in Francia alla fine del 1888.
CAPITOLO UNDECIMO.
1889. (Pag. 307 a 348).
Il suicidio dell'arciduca Rodolfo di Asburgo. — La Federazione balcanica
e una iniziativa di Crispi. — L'inaugurazione dell'Esposizione di
Parigi. — Il pericolo di guerra con la Francia: missione del cardinale
Hohenlohe presso Leone XIII; missione del deputato Cucchi presso il
principe di Bismarck. — Italiani a Parigi. — L'abolizione delle tariffe
differenziali e l'ostilità della Francia. — Giudizii di Spuller sulla
stampa francese.
CAPITOLO DUODECIMO.
1890. — Tunisi e Tripoli. (Pag. 349 a 387).
Il licenziamento del principe di Bismarck; i rescritti imperiali per la
protezione degli operai; spiegazioni dell'imperatore Guglielmo; Crispi e
Bismarck. — La progettata annessione alla Francia della Tunisia;
l'opposizione di Crispi; l'appoggio delle grandi Potenze; corrispondenza
Crispi-Salisbury. — Tripoli per Tunisi. — Le fortificazioni di Biserta.
— In previsione dell'occupazione italiana della Tripolitania.
INDICE ALFABETICO delle persone citate nel volume Pag. 389
AUTOGRAFI:
Lettera 2 ottobre 1877 di W. Gladstone Pag. 13
Lettera 21 ottobre 1877 di Leone Gambetta » 64
Lettera 24 luglio 1889 del cardinale Hohenlohe » 237
Autografo dell'imperatore Federico III » 331
Lettera 21 aprile 1890 del principe di Bismarck » 356
Lettera 4 agosto 1890 di lord Salisbury » 370
RITRATTO di Francesco Crispi nel 1888 col frontispizio
Nota del Trascrittore
Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le
grafie alternative (sotto-segretario/sottosegretario, benefici/beneficî,
follia/follìa e simili), correggendo senza annotazione minimi errori
tipografici.
A pag. 56 è stata inserita la trascrizione della lettera di Gladstone a
Crispi, non presente nell'originale.
End of the Project Gutenberg EBook of Politica estera, by Francesco Crispi
*** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK 41821 ***
Politica estera: memorie e documenti
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MEMORIE E DOCUMENTI raccolti e ordinati da T. Palamenghi-Crispi.
_Con fac-simili di autografi di Gambetta, Gladstone, Principe di
Bismarck, Imperatore Federico III, Lord Salisbury, Cardinale Principe
Hohenlohe._
_Proprietà letteraria. Vietate anche le riproduzioni parziali. Riservati
tutti i diritti di traduzione._
Ciascun esemplare di quest'opera deve portare impresso, per incarico
avuto dalla famiglia Crispi, il timbro della Società Italiana degli
Autori.
Il primo Capitolo di...
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— End of Politica estera: memorie e documenti —
Book Information
- Title
- Politica estera: memorie e documenti
- Author(s)
- Crispi, Francesco
- Language
- Italian
- Type
- Text
- Release Date
- January 11, 2013
- Word Count
- 118,682 words
- Library of Congress Classification
- DG
- Bookshelves
- IT Scienze politiche, Browsing: History - European, Browsing: History - General, Browsing: Politics
- Rights
- Public domain in the USA.
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